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Il processo di americanizzazione, precedentemente evidenziato, incarna in pieno l’dea del melting pot, «un crogiolo di quelle culture che, in un pluralismo legato all’indifferenza di un gruppo all’altro, sembra essere una risposta a tale condizione, emblema apparente di democrazia ed eguaglianza, (un’idea) andata di pari passo con la campagna per la chiusura delle frontiere proprio sulla base del suo fallimento» [Ibid., p. 22]. La stessa Commissione Dillingham sull’immigrazione, istituita nel 1907, pubblicava nel 1911 un lavoro (composto da 41 volumi) interamente improntato su un unico nucleo centrale: «L’emigrazione successiva al 1883 aveva

subito profonde progressive modifiche, (…) la nuova realtà aveva determinato una situazione di tensione negli Stati Uniti; era una realtà composta da individui che pensavano a una permanenza solo transitoria nel paese minacciando la società statunitense e le sue radici» [Mann, 1979, p. 300].

L’immigrazione assume le vesti di un vero e proprio problema sociale, e questo dovrebbe far riflettere soprattutto se si pensa al fatto che, come detto, «tutti gli Americani, fuorché gli Indiani, sono immigrati o discendenti di immigrati» [Nevins, Commager, 1980, p. 336]. È come se si volesse dimenticare la propria realtà di un tempo, imponendo un controllo dell’oblio che, dal canto suo, appare come lo strumento di potere più spietato e disumano: «Dimenticare può essere comodo, assolve chi opera nel presente, lo sottrae spesso a memorie scomode per l’oggi, permette di riscrivere la storia per coloro che generazionalmente ieri non l’hanno vissuta, o, ancora più devastante, di tacere l’accaduto, apre a orientamenti comportamentali che quel ricordo non permetterebbe perché spesso contrapposto, oggi, alle proprie radici o al proprio ieri» [Rauty, 2000, p. 23].

Dunque la chiusura delle frontiere porta con sé un pregiudizio sul sottosviluppo mentale, fisico, economico, culturale di popolazioni «troppo distanti da una società che si avviava a grandi passi (pur all’interno di enormi sacche di povertà) verso la dinamica esistenziale di quegli anni venti centrati sulla costruzione sociale del desiderio e del consumo e che dunque non poteva sopportare l’ingresso di altre povertà, più o meno politicizzate, provenienti da paesi devastati dalla guerra, e troppo in contraddizione con il mito americano del successo individuale» [Ibid., pp. 23-24].

Un discorso di questo tipo non è condiviso, come si è già avuto modo di accennare, dai pensatori appartenenti alla scuola di Chicago. Sarà soprattutto Thomas a considerare le differenze intellettuali delle popolazioni immigrate come aspetti sociali e non insiti nella natura biologica: «Il suo approccio antievoluzionista lo fa infatti essere tra i primi a criticare ogni ipotesi di differenze intellettive e dunque disuguaglianze sociali legate alle eterogeneità razziali» [Faris, 1967, p. 16]. Lontano da ogni forma di positivismo biologico, l’attenzione di Thomas è per i tipi concreti, «per le pieghe dell’esistenza, quelle quasi impercettibili lungo le gerarchie culturali e normative della quotidianità, ma che pure segnano silenziosamente e profondamente

l’azione, le relazioni e le aspettative degli individui, per cui il problema non è la normalità o l’anormalità di un comportamento, ma piuttosto le condizioni del suo manifestarsi» [Rauty, 2000, p. 14-15]. La voglia di analizzare le interazioni tra gli individui riflette la convinzione che c’è un retroterra teorico specifico e sostanziale in grado di condizionare inevitabilmente le scelte compiute. Il problema centrale e connesso, legato all’imprevedibilità di una serie di comportamenti, «non è quello della società di essere protetta, ma piuttosto il diritto anche dell’individuo antisociale di essere reso utile» [Thomas, Znaniecki, 1968, vol. II, p. 70]: la devianza stessa non può essere vista come un motivo di esclusione ma come un elemento processuale sul quale indagare al fine di costruire una maggiore attenzione intorno all’individuo. Si è di fronte a un’analisi maggiormente accurata dei processi che costruiscono la vita dei soggetti nella loro quotidianità, anche perché l’insediamento urbano, oltre a essere il punto più avanzato cui giunge l’individuo, è anche quello nel quale si vivono maggiori contraddizioni e le aree metropolitane statunitensi rappresentano, dal canto loro, l’emblema di densità, eterogeneità e disorganizzazione complessiva della popolazione34.

Questa sua maggiore sensibilità (interpretativa, oltre che metodologica) affonda molto probabilmente le radici nella condizione esistenziale dello stesso autore: «Thomas, nato nella vecchia Virginia, in un ambiente simile a quello del XVIII secolo, diventa uomo della metropoli, consapevole di avere vissuto, lungo la propria modernizzazione, “attraverso tre secoli”; il che, sommato alle esperienze sul mondo dei contadini (polacchi) raccolte durante i suoi viaggi in Europa, ne condiziona gli orientamenti» [Rauty, 2000, p. 15].

Non solo, ma Thomas vive sulla sua pelle tutte le contraddizioni di processi di controllo esterni, coercitivi, aspetto più evidente del clima di repressione sociale e morale presente negli Stati Uniti e all’origine del Mann Act. Questo, emanato nel 1910, «era il prodotto di una campagna tesa a stroncare la “schiavitù bianca”, la prostituzione, sempre più diffusa, ma anche a strutturare un controllo senza precedenti delle attività sessuali esterne alla famiglia» [Ibid., p. 8]. Un Atto, dunque, fondato sulla condanna: «Ogni persona che consapevolmente trasporterà, o aiuterà a trasportare, ai fini di commercio al di fuori dello stato o all’estero, una donna o una

34 «Il numero dei gruppi etnici presenti in questa fase a Chicago (ben 35) costituisce di per sé un

ragazza con lo scopo di prostituzione o corruzione, o per ogni altro fine immorale, con l’obiettivo di indurla, adescarla o spingerla a praticare la prostituzione o la corruzione o ogni altra pratica immorale sarà punita» [Langum, 1994, p. 261]. È evidente che le pratiche immorali cui faceva riferimento l’atto, oltre a non considerare la consensualità delle donne, avevano come fine prioritario quello di colpire ogni rapporto esterno ai processi istituzionali strutturati. «Alla base del Mann Act non c’era solo la paura che le nuove realtà sociali contaminassero la radice etnica statunitense e diffondessero “corruzione” e dissoluzione morale: l’obiettivo era più ampio, legato alla percezione del venire meno dei confini nelle relazioni tra gli individui tracciati dalla cultura vittoriana nel corso del nuovo strutturarsi dei rapporti di potere tra i sessi e l’emergere di una inedita autonomia comportamentale (soprattutto da parte delle donne)» [Rauty, 2000, p. 8]. Il processo di controllo dell’identità femminile si mostrava solo apparentemente sensibile alla tutela della donne oneste (da proteggere rispetto a quelle corrotte) ma tendeva in sostanza, limitando drasticamente la loro mobilità, a frenare le novità emergenti.

L’attività di ricerca espone Thomas, a differenze di molti suoi colleghi accademici, a stretto contatto con mondi marginali che comportano «rapporti con prostitute, ladri e ubriaconi. (Un lavoro che) implica la possibilità di essere visti in posti e con persone che non si ritengono parte del tuo ambiente (…). Ho incontrato molte donne in molti luoghi che sarebbe stato facile definire compromettenti» [Thomas, 1918]. È un tipo di ricerca che gli permette di conoscere in prima persona realtà contraddittorie e forme drammatiche di disorganizzazione che le popolazioni immigrate «si trovano ad affrontare nella transizione dal vecchio continente al nuovo, tra inserimento nel contesto sociale e culturale d’arrivo e crisi delle vecchie tradizioni» [Rauty, 2000, p. 11]. L’immigrato, sostiene Thomas, si trova «fuori dalla vecchia società di appartenenza senza essere pienamente inserito nella nuova, ed è in una situazione dolorosa: nessuna identificazione in nessun gruppo» [Thomas, 2000, p. 115].

È in questo modo che egli delinea la figura dell’uomo marginale, sviluppata in un secondo momento da Park. «Un individuo di questo tipo, nella definizione di Thomas, si struttura non solo attraverso una comparazione tra la sua comunità e quella statunitense, ma anche lungo l’umiliazione che vi sperimenta a causa del

proprio retroterra» [Rauty, 2000, p. 27]. L’immigrato, dice Thomas, «arriva dalla sua comunità contadina, un’organizzazione primaria (…), in America, una società al secondo stadio di organizzazione, basata sull’impresa commerciale e incarnata dallo Stato» [Thomas, 2000, p. 73]. Anche se i cambiamenti possono essere parziali e lenti, dal momento che l’immigrato ha comunque la possibilità di vivere a stretto contatto con suoi connazionali stabilitisi negli Stati Uniti prima di lui, «la situazione più seria nasce dalla perdita di posizione sociale e dalla conseguente riduzione del senso della propria personalità che si verificano quando l’immigrato entra in contatto con le condizioni di vita americane» [Ibid., p. 75]. Ognuno porta con sé abitudini, costumi, tradizioni35, un vero e proprio bagaglio che in patria permetteva di avere un proprio status (il riconoscimento da parte del gruppo) ma anche il senso della propria personalità (riconoscimento del proprio ruolo nel gruppo). In altri termini, l’immigrato porta con sé:

1. «Una coscienza di sé, che è coscienza della propria posizione all’interno del gruppo;

2. una coscienza del gruppo, che è coscienza della posizione del proprio gruppo rispetto agli altri;

3. una coscienza nazionale, che è coscienza della posizione del proprio gruppo nazionale rispetto agli altri.

La sua percezione della personalità dipende da questo insieme di concetti» [Ibid., pp. 75-76].

La marginalità dell’immigrato, pertanto, non consiste soltanto nel fatto che quando arriva in America deve lasciarsi alle spalle quella comunità che costituiva il fondamento della sua personalità e della sua dignità, quanto in quello che «gli stessi tratti distintivi della sua personalità (vestiti, lingua e così via), che in patria erano i simboli della sua dignità, qui vengono considerati con disprezzo e divengono il pretesto per umiliarlo» [Ivi]. Le realtà marginali, che in questo periodo e in questo contesto rappresentano il bersaglio preferito di chi costruisce processi di controllo, si nutrono di speranze svanite, sogni infranti, e si rischia di non prendere in dovuta considerazione un aspetto di fondamentale importanza, anche in un’ottica legata allo stesso controllo: l’immigrato abbandona il suo gruppo originario per inseguire nuove

opportunità, ma la constatazione di una sua mancata accettazione da parte della maggioranza finisce per isolarlo, privandolo, come si è detto, del proprio status all’interno di ciascuno dei gruppi. «Un processo simile, col fallimento dell’inserimento sociale, può determinare un ritorno ai vecchi legami, questa volta surrogati da una spinta nazionalistica, assolutizzazione determinata in qualche modo dal “tradimento” di una promessa di realizzazione personale nella quale quel soggetto aveva avuto tanta fiducia da indursi a una transizione culturale constatata poi invece come impossibile» [Rauty, 2000, p. 27].