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I motivi della scelta finale

6. La scelta del bicameralismo nell’Assemblea costituente Il compromesso bicamerale.

6.2 I motivi della scelta finale

L’analisi politica delle diverse fasi del processo costituente relativo alla formazione del Senato evidenzia come la fisionomia definitiva di tale organo, e con essa l’assetto parlamentare, siano dovuti alla convergenza di posizioni tra partiti di sinistra e gruppi conservatori di ispirazione liberale, che consentì ad un blocco tanto eterogeneo di isolare democristiani e repubblicani prima nella Commissione dei 75 e dopo in Assemblea generale.

Se inizialmente comunisti e socialisti erano in netta minoranza, così che le altre forze politiche riuscirono a far passare l’approvazione del

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sistema bicamerale e della parità di attribuzioni delle camere, nelle battute finali la situazione si capovolse e le sinistre riuscirono a realizzare buona parte del proprio disegno: affiancandosi ai partiti conservatori, i comunisti, con grande abilità e notevole realismo, riuscirono ad impedire la creazione sia di un “Senato di categoria” che di un “Senato delle Regioni”.

Di certo, l’accordo fra forze politiche contrapposte del Parlamento venne facilitato dalla tenacia e dall’ostinazione con cui la DC difendeva il principio della rappresentanza di interessi: l’istanza corporativa le impedì di ottenere l’appoggio delle sinistre, alienando altresì le simpatie dei repubblicani.

Spaccati poi sul tema del regionalismo, i democristiani non riuscirono a far leva neanche su tale argomento per recuperare consensi, oscillando tra una concezione riduttiva delle regioni, declassate a semplici ambiti territoriali, e un’idea che, prediligendo un sistema misto, collegava il Senato alle autonomie locali e alle forze produttive. Il riferimento regionalistico invece costituì un altro collante del compromesso tra conservatori e sinistra: il rifiuto del regionalismo, particolarmente accentuato nei liberali, corroborò la chiusura nei confronti di un Senato regionale72.

Infine, l’accordo si suggellò in seguito all’adesione, seppur tardiva, del PCI al sistema del collegio uninominale, a scapito delle originarie istanze proporzionaliste73, così da appoggiare la proposta dei liberali

che, insieme ad altri esponenti di partiti minori, si erano aperti alla possibilità dell’elezione mediante suffragio universale diretto per buona parte dei senatori74.

72 Comunisti e socialisti diventarono più autonomisti quando si accorsero del ruolo che le Regioni avrebbero potuto svolgere in un mutato quadro politico (cioè nel caso in cui fossero in minoranza); ciò non toglie che essi puntarono a ridurre, se non eliminare, ogni riferimento regionalistico, perché loro obiettivo primario rimaneva quello di stabilire una composizione non troppo dissimile per le due camere.

73 Il sistema uninominale caldeggiato dai liberali venne, com’è noto, tradito da comunisti e democristiani quando, al momento di varare la legge elettorale per il Senato nei primi mesi del ’48, l’emendamento Dossetti trasformò un sistema immaginato e costruito come uninominale e maggioritario in una forma di proporzionale personalizzata (con collegi in cui si elegge un solo candidato, ma tutti collegati tra loro ai fini di un riparto strettamente proporzionale dei seggi): il trionfo dei partiti di massa. Cfr., C. FUSARO, La lunga ricerca di un bicameralismo

che abbia senso, in www.forumcostituzionale.it, 06 febbraio 2008.

74 Pur di ottenere una seconda camera il più possibile omogenea alla prima, le sinistre si dimostrarono disponibili ad abbandonare le tradizionali posizioni proporzionaliste per sostenere il collegio uninominale espresso dalla proposta avanzata dai gruppi di ispirazione

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Anticorporativismo, ostilità nei confronti di una “camera delle Regioni”, avversione verso il proporzionalismo furono, in sostanza, le componenti che avevano cementato il connubio tra le due ali contrapposte, segnando la sconfitta dei partiti più autonomisti dello schieramento parlamentare, cioè democristiani e repubblicani, e la conseguente scomparsa dal definitivo testo costituzionale del richiamo ad una quota di senatori eletti direttamente dai consigli regionali. In sostanza, le considerazioni tattiche erano prevalse sulle questioni di principio: per superare gli stalli sulla composizione della seconda camera, era inevitabile (ed indispensabile) un’intesa tra gruppi parlamentari, in quanto la stessa loro consistenza numerica richiedeva, per l’approvazione delle disposizioni costituzionali, l’aggregazione di forze ideologicamente contrastanti.

L’abilità della sinistra fu allora quella di sfruttare una convergenza “in negativo” con le posizioni dei liberali (oltre a qualche esponente di gruppi minori, quali il Fronte democratico liberale dell’uomo qualunque e l’Unione democratica nazionale) che si risolse nell’approvazione di una seconda camera molto lontana dalle aspirazioni autonomiste di cattolici e repubblicani.

Di certo, le norme consacrate nel testo costituzionale risentono dell’ambiguità e della strumentalità di quegli accordi e la disciplina normativa del bicameralismo risulta alquanto eterogenea proprio a causa della duplicità, o meglio triplicità, di ispirazione politica, stante l’influenza che, in diversa misura, ebbero nel processo costituente relativo al Senato l’ideologia cattolica, quella marxista e quella tradizionale di tipo liberale75.

liberale (firmata in particolare da Grassi e Bozzi dell’Unione democratica nazionale, Marinaro del Fronte democratico liberale dell’uomo qualunque, Cevolotto e Molè della Democrazia del lavoro e dal liberale Einaudi) che disponeva l’elezione di 1/3 dei senatori da parte dei Consigli regionali ed il resto a suffragio universale diretto uguale e segreto con una circoscrizione per ogni senatore. Il compromesso tra forze politiche contrapposte resse nel seguito del dibattito e sfociò nell’approvazione dell’o.d.g. Nitti (Unione democratica nazionale), che coniugò direttamente l’elezione a suffragio universale diretto con il collegio uninominale, sancendo così la definitiva prevalenza della rappresentanza politica. Cfr. G. RIVOSECCHI, La “lezione”

dell’Assemblea costituente sui processi di rappresentanza: verso un’integrazione della rappresentanza politica?”, op. cit., pag. 176 e ss.

75 F. S. REGASTO, La forma di governo parlamentare fra “tradizione” e “innovazione”, Giuffrè, Milano, 2008, pag. 178 e ss.

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Se da un lato, l’espressione “base regionale” ex art. 57, 1° comma, Cost., e la fissazione di un numero minimo di senatori per ogni regione costituivano il risultato degli sforzi democristiani per salvaguardare qualche elemento del vecchio progetto (che affidava ai consigli regionali l’elezione di un terzo dei senatori), l’elezione a suffragio universale diretto, la scelta del collegio uninominale (seppur non menzionato espressamente in Costituzione) e la mancata previsione di specifiche categorie di eleggibili rappresentavano una sostanziale vittoria delle sinistre e dei partiti conservatori (appoggiati da una componente cattolica).

Pertanto, la “base regionale”, concepita dalla DC in funzione di una successiva esplicitazione della partecipazione regionale, si era ridotta a mero strumento classificatore di collegi e circoscrizioni76, vanificando

così l’ultimo serio tentativo di differenziazione tra le due camere. Si era venuto a comporre un mosaico con tasselli variabili, che celava, dietro un formale bicameralismo perfetto, la più autentica fisionomia di Assemblea unica divisa semplicemente in due distinte sezioni operative che andavano a comporre un “giuoco di specchi”77.

Il bicameralismo perfetto italiano nella sua genesi si lega, più che ad un modello ragionato ed aderente ad una precisa ideologia nell’edificazione della Repubblica democratica, ai dissensi registrati in seno alla Costituente tra i principali gruppi politici ed al “casuale formarsi di questa o quella estemporanea maggioranza”78; da ciò

deriva la sua caratterizzazione (anche rispetto alle coeve esperienze europee), in quanto risulta perfettamente paritario sul piano funzionale, non molto differenziato sul piano strutturale e solo embrionalmente agganciato ad una prospettiva (incompiuta) di decentramento territoriale79.

76 Sulla portata riduttiva della base regionale, si veda, tra gli altri, C. MORTATI, Considerazioni su alcuni aspetti e finalità dell’ordinamento regionale, in “Comitato nazionale per la celebrazione del primo decennale della promulgazione della Costituzione”, Studi sulla Costituzione, Milano, 1958, pag. 412.

77 M. S. GIANNINI, Senato e Camera: un giuoco di specchi, “Mondo Operaio”, 1948, 2, pag. 17 e ss.

78 L. PALADIN, Tipologia e fondamenti giustificativi del bicameralismo. Il caso italiano, in Quaderni costituzionali, n° 2/1984, pag. 231 e ss.

79 E. CHELI, voce Bicameralismo, in Digesto delle discipline pubblicistiche, vol. II, Utet, Torino, 1987, pag. 323.

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L’abbandono ultimo dell’idea di integrare in Senato le rappresentanze territoriali si rivelò tuttavia funzionale all’esigenza di offrire al Paese una nuova identificazione democratica ed unitaria ed il dibattito sulla sovranità territoriale non risultò vano, avviando comunque la difficile trasformazione strutturale dello Stato accentrato unitario in uno Stato fondato “su basi di autonomia” (seppur con moduli organizzativi allora ancora acerbi e spesso inefficaci)80.

7. Il vigente bicameralismo perfetto e le differenziazioni tra

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