Queste brevi note, da cui emerge un bicameralismo solo formalmente paritario, essendo evidente il sostanziale divario tra la funzione attribuita al Senato e quella effettivamente svolta, consentono di meglio interpretare le numerose proposte di riforma del Parlamento, e in specie del Senato, espresse già dal 1848 negli ambienti politici, in quelli senatoriali e nella pubblicistica subalpina, nel tentativo di avviare un meccanismo dinamico volto a consentire un “moto continuo” delle istituzioni37.
Gli accadimenti storici degli ultimi decenni del XIX secolo condizionarono inevitabilmente il sistema politico-istituzionale del Paese e quindi le ideologie tendenti ad una riforma del Senato.
Il progressivo avvento della società di massa e della Sinistra aveva consolidato un nuovo blocco di potere in cui, alla tradizionale coalizione di interessi terrieri e commerciali-bancari, andavano via via aggiungendosi le categorie degli industriali, dell’aristocrazia
36 L’espressione fu coniata da L. PALMA, in Corso di diritto costituzionale, vol. II, Tip. franco- italiana, Firenze, 1877-1880, pag. 265.
37 In tal senso si era espresso lo stesso Cavour che congegnava il Senato non come forza di mera resistenza, ma quale elemento moderatore nei confronti dell’Assemblea popolare che rappresentava invece l’elemento acceleratore; proprio per questo proponeva l’introduzione del sistema elettivo. Cfr., Benso C., conte di Cavour, La riforma del Senato, ne “Il Risorgimento”, 27 maggio 1848, pag. 130 e ss.
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finanziaria, della borghesia clientelare del Meridione e soprattutto i ceti popolari: la nuova coalizione governativa che dominava la camera bassa si trovava pertanto a confliggere con un Senato conservatore ed antidemocratico e a ricorrere in modo sempre più massiccio a continue infornate per creare anche nella camera alta una maggioranza meno ostile38.
In sostanza, le numerose proposte di riforma del Senato provenienti tanto dalla borghesia liberale che dai conservatori nonché dalle correnti di sinistra, volte ad affermare un bicameralismo pieno attraverso l’introduzione del metodo elettivo anche per la camera alta, subivano una battuta d’arresto per le logiche politiche che, indotte dagli avvenimenti contingenti, conducevano a privilegiare comunque la strada dell’ingerenza diretta con le c.d. infornate di esponenti validi e fidati, mantenendo al Senato un ruolo strumentale alle strategie di governo39.
Di indubbio rilievo fu l’estensione del suffragio elettorale del 1882, che segnò l’inizio di un regime parlamentare (formalmente) più democratico e in grado di spezzare quell’omogeneità tra eletti ed elettori che aveva connotato i governi della Destra e della Sinistra: si aggravava tuttavia lo sbilanciamento tra la camera bassa più marcatamente progressista ed un Senato retrivo e filomonarchico. Queste tensioni continuavano ad animare il dibattito sulle istituzioni durante il periodo di crisi dello Stato liberale di fine Ottocento e nei primi anni del Novecento, mentre i tentativi di riforma del Parlamento trovavano nuova linfa anche grazie alla discussione sulla tradizionale separazione dei poteri alla luce della molteplicità delle forze sociali e politiche emergenti ed al riconoscimento della rappresentanza degli interessi come elemento cardine del rapporto eletti - elettori, e quindi della stessa rappresentanza politica.
In tale prospettiva il Senato si configurava come luogo di rappresentanza degli interessi nazionali, con l’alto compito di tutelare i
38 P. AIMO, Bicameralismo e Regioni, Edizioni di comunità, Milano, 1977, pag. 35 e ss. 39 Si consideri che Depretis e Crispi, pur dichiarandosi più volte favorevoli al metodo elettivo, non avviarono alcuna riforma in tal senso durante i rispettivi governi. Cfr. G. ARANGIO-RUIZ,
Storia Costituzionale del Regno d’Italia, La Nuova Italia, Firenze, 1898, pag. 421 e ss.;
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fini supremi e gli interessi permanenti dello Stato e la sua rivisitazione non rappresentava un problema isolato e di esclusivo rilievo tecnico- istituzionale, ma si collocava all’interno di una più vasta ristrutturazione della società civile e dell’ordinamento dello Stato che faceva perno sulla collaborazione organica delle diverse classi sociali. Di certo, nell’elaborazione della pubblicistica italiana era ormai acquisita l’idea di un chiaro collegamento con le realtà locali del Paese, soprattutto alla luce delle teorizzazioni sulla rappresentanza politico-parlamentare e sul ruolo del bicameralismo finalizzato a consentire una rappresentanza organica dei reali interessi dell’Italia, in un’ ottica pluralista ed integrazionista.
Il meccanismo che si andava delineando individuava nelle assemblee locali (in particolare nei consigli provinciali o in prospettiva regionali) le vedette “poste dovunque incaricate di constatare quello che avviene in tutti i punti del territorio per avvertire i membri della camera alta”40,
consacrando a quest’ultima un rinvigorito ruolo di “camera moderatrice”, espressione dei vari interessi locali, sociali e professionali.
Pertanto, pur nell’eterogeneità delle soluzioni proposte, e a fronte di correnti contrarie ad una modifica della camera bassa41, le direttrici
lungo cui si snodarono i tentativi di riforma del Senato nel dibattito
40 L’idea di una rappresentanza di tipo territoriale ha radici lontane e fu proposta per la prima volta da Luigi Palma nell’ambito della Commissione Saredo del giugno 1894, nominata allo scopo di elaborare proposte di riforma del Senato sabaudo. Palma, che aveva subito l’influenza di Tocqueville e della sua Democrazia in America , elaborò un progetto di seconda camera eletta a suffragio censitario su base provinciale, così da tentare di creare un rapporto di tipo rappresentativo tra Senato amministrazioni locali, nella convinzione che tale collegamento avrebbe allargato l’elettorato e democratizzato la composizione della seconda camera. Di avviso diverso era invece Brunialti, che era favorevole alla modifica del Senato per consentire una rappresentanza professionale o corporativa. Cfr. L. PALMA, Del potere
elettorale degli Stati liberi, op. cit., pag. 85 e ss; nonché A. BRUNIALTI, Il diritto costituzionale e la politica, vol. I, Utet, Torino, 1896, pag. 660 e ss.
41 Posizioni contrarie ad una riforma del Senato vennero espresse dai senatori Rossi, Carafia d’Andria e Foà nel timore che altrimenti potessero andare annullate le sue peculiarità istituzionali, divenendo un inutile doppione della Camera bassa, col rischio aggiuntivo di agitazioni politiche al suo interno ed antagonismi di classe. In tal senso, si era espresso anche Gaetano Mosca, che, pur auspicando un Senato connotato dagli “elementi più colti ed indipendenti della nazione” (rappresentanti dei laureati, dei commercianti, della piccola borghesia, dei professori universitari...), si dichiarava favorevole solo a modifiche di carattere secondario volte a rendere “l’azione del Senato più energica ed attiva”: escludendo ogni metodo elettivo, Mosca proponeva da un lato la distinzione tra senatori attivi e non attivi (questi ultimi erano quelli che non partecipavano alle sedute per tre anni e così, pur conservando le prerogative personali, avrebbero perso il diritto di presenziare alle sedute e di votare), dall’altro la fissazione di un numero massimo di senatori. Cfr. Mosca G., La riforma
del Senato italiano, in “Rivista di diritto pubblico e della Pubblica Amministrazione in Italia”,
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sviluppatosi nei primi anni del XX secolo involgevano tanto l’introduzione del metodo elettivo per l’individuazione anche parziale dei senatori, che il collegamento con collegi elettorali locali (anche attraverso il temperamento del doppio grado e della ripartizione per province o future regioni), nonché la consacrazione del sistema delle “categorie” cui attingere nell’attribuzione dei seggi senatoriali per garantire l’eterogeneità nella rappresentanza degli interessi42.