5. Definizione
5.2. La natura della scia
Tra le diatribe giuridiche maggiormente accese, sicuramente particolare rilievo riveste la questio iuris sulla natura giuridica e sulla funzione della d.i.a..
Secondo un’impostazione la ex d.i.a., oggi s.c.i.a., sarebbe un istituto di semplificazione111, al pari del silenzio assenso, per cui l’amministrazione, anche a seguito del termine previsto dalla norma, non perderebbe il potere di regolare l’attività.
Secondo l’impostazione maggioritaria, condivisa dall’Ad.
Plen 15/11, invece, saremmo dinnanzi ad un’ipotesi di liberalizzazione, in quanto il legislatore non ha creato una mera semplificazione normativa, ma ha voluto liberalizzare le attività sottoposte a s.c.i.a., prevedendo in capo alla pubblica amministrazione esclusivamente un potere inibitorio che interviene in una fase successiva rispetto alla presentazione dell’istanza.
111 Si consideri che la Corte Cost. 164/12 a proposito della s.c.i.a parla di semplificazione. Si legge, infatti, in sentenza che “nella disciplina dell'art. 19, legge n. 241/1990, come modificato dall'art. 49, comma 4-bis del D.L. n. 78/2010, la SCIA assicura la prestazione specifica di un'attività amministrativa circoscritta all'inizio della fase procedimentale, strutturata secondo un modello ad efficacia legittimante immediata che attiene al principio di semplificazione dell'azione amministrativa ed è finalizzata ad agevolare l'iniziativa economica, tutelando il diritto dell'interessato ad un sollecito esame, da parte dell'amministrazione competente, dei presupposti di diritto e di fatto che autorizzano l'iniziativa medesima.”
Strettamente collegato a tale inquadramento dogmatico era il problema della natura giuridica della ex d.i.a. oggi s.c.i.a..
Su tale dibattito è intervenuto anche il legislatore.
In particolare, prima del d.l. 138/11 si discuteva se la d.i.a.
dovesse ritenersi un atto privato ovvero un provvedimento amministrativo a tutti gli effetti.
Secondo tale ultima tesi, la d.i.a. si configurerebbe come una fattispecie a formazione successiva, assimilabile ad un atto amministrativo tacito che si determina a seguito di alcuni presupposti formali e sostanziali e per effetto del decorso del termine di legge previsto.
Tale tesi poggiava fondamentalmente sulla possibilità dell’amministrazione di intervenire in autotutela a seguito del decorso del termine di giorni 30 dall’istanza.
Si riteneva, infatti, che se l’amministrazione può agire in autotutela, vuol dire che alla base esiste un provvedimento di primo grado sul quale intervenire, provvedimento che, nel caso de quo, si formava tacitamente.
Si legge, infatti, in Tar Piemonte, sez. II, 1885/06 che “il legislatore, mediante l'espresso riferimento agli istituti dell'autotutela decisoria contenuto nell'art. 19 della l. n.
241/90, nel testo sostituito dall'art. 3 del d.l. n. 35/05 convertito con modificazioni nella l. n. 80/05, ha assunto una posizione specifica in ordine alla vexata quaestio della natura giuridica della d.i.a., nel senso che la previsione dell'adottabilità di provvedimenti di secondo grado sottende la qualificazione della d.i.a. come atto abilitativo tacito formatosi a seguito della denuncia del privato e del conseguente comportamento inerte della p.a.”
L’altra tesi, invece, riteneva che la d.i.a. fosse un mero atto privato cui la legge ricollegava l’effetto di abilitare l’istante a svolgere una determinata attività.
Tale tesi poggiava sul fatto che la d.i.a. proviene da un privato e non da una pubblica amministrazione; se ne deduceva, quindi, che il rinvio effettuato alle norme in materia di autotutela, dovesse intendersi come un rinvio relativo esclusivamente alla disciplina ed ai presupposti di
esercizio del potere di autotutela, non implicando la sussistenza di un provvedimento di primo grado oggetto del successivo potere di autotutela.
La questione relativa alla natura della ex d.i.a. è di particolare rilievo con riguardo alla tutela esperibile dal terzo, danneggiato dall’attività esercitata ed iniziata dall’istante.
Infatti, qualora si dovesse ritenere che la ex d.i.a., oggi s.c.i.a., sia un provvedimento implicito, ne deriverebbe che il terzo pregiudicato dovrebbe impugnare la stessa necessariamente nel termine di giorni 60 dal perfezionamento della denuncia o dall’avvenuta conoscenza.
Diversa la soluzione se si dovesse ritenere che la d.i.a.
abbia natura privata. Ed infatti, in tale ipotesi, non potendosi accedere alla tutela impugnatoria, la giurisprudenza ha indicato nel tempo diverse soluzioni differenti per garantire la tutela al terzo.
Secondo una prima tesi, quest’ultimo può esperire un’azione di accertamento dell’insussistenza dei requisiti previsti dalla legge per svolgere l’attività oggetto di d.i.a.; il tutto nel termine decadenziale di giorni 60, in quanto viene in rilievo comunque un interesse legittimo112. A seguito di
112 Tale tesi è stata sposata dal Consiglio di Stato nella sentenza 717/09 che ha sostenuto infatti che “la "dichiarazione di inizio di attività", quale strumento di liberalizzazione delle attività economiche private, si configura come atto di natura privata che abilita il dichiarante all'esercizio di un diritto riconosciutogli direttamente dalla legge, salvo il potere dell'amministrazione di vietare lo svolgimento dell'attività (e ordinare l'eliminazione degli effetti già prodotti) entro un ragionevole lasso di tempo, dopo aver valutato gli interessi in conflitto e sussistendone le ragioni di pubblico interesse.” Aggiunge la sentenza che “il terzo che si ritenga leso dagli effetti di una
"dichiarazione di inizio di attività" relativa alla costruzione di un immobile ben può esperire - nel termine di decadenza di sessanta giorni che decorre dal completamento dei lavori - l'azione di accertamento davanti al giudice amministrativo, intesa ad ottenere la declaratoria che non sussistevano i presupposti per svolgere l'attività sulla base della sola "dichiarazione di inizio di attività".”
tale sentenza positiva di accertamento, l’amministrazione sarebbe obbligata a privare di effetti la condotta posta in essere dal privato.
Secondo un altro orientamento, ormai pacificamente superato, l’azione di accertamento non sarebbe esercitabile dinnanzi al giudice amministrativo, per cui non sarebbe possibile seguire l’orientamento sopra esposto.
Secondo tale tesi, quindi, il privato potrebbe soltanto sollecitare i poteri di autotutela della pubblica amministrazione, attivando, poi, in caso di silenzio, la disciplina di cui all’art. 117 c.p.a.,113 e in caso di rigetto espresso impugnare quest’ultimo nel termine decadenziale. Secondo un’ultima tesi, il terzo, decorso il termine per l’esercizio da parte della pubblica amministrazione del potere inibitorio, dovrebbe stimolare non il potere in autotutela ma quello sanzionatorio, agendo in caso di inerzia con la disciplina in materia di silenzio. In tal modo, l’amministrazione non sarebbe vincolata ai limiti previsti in materia di autotutela, avendo l’obbligo di sanzionare il comportamento del privato, in mancanza dei presupposti di legge.
In tal senso si legga Tar Campania, Napoli, sez. IV, 3200/06, secondo cui “l'art. 19 comma 3 della L. n.
241/1990, introdotto dall'art. 3 del D.L. n. 35/2005, conv.
con L. n. 80/ 2005 non mette in crisi il prevalente orientamento giurisprudenziale secondo il quale la tutela del terzo passa necessariamente attraverso il ricorso avverso il silenzio dell'Amministrazione nell'esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi. La reale portata
113 Si ritiene, infatti, che in tale ambito non valga l’affermazione ripetuta in giurisprudenza secondo cui l’amministrazione non sarebbe obbligata a pronunciarsi con un provvedimento espresso in caso di istanza diretta a sollecitare i poteri di autotutela. Infatti, si ritiene che la ratio di tale affermazione vada ricercata nell’evitare che si eluda il termine decadenziale di giorni 60 dall’emissione del provvedimento.
Tale ratio però non sussiste in caso di d.i.a., in quanto manca un provvedimento di primo grado da impugnare, e quindi non vi sarebbe alcuna elusione.
innovativa della disposizione in esame consiste nell'aver attribuito piena rilevanza all'affidamento ingeneratosi nel denunciante per effetto del mancato esercizio del potere inibitorio dell'Amministrazione nel termine perentorio previsto dalla legge. La DIA non è altro che una comunicazione preventiva del privato che non vale né come provvedimento amministrativo, nè come titolo lato sensu abilitativo, perché la legittimazione ad eseguire l'intervento edilizio deriva direttamente dalla legge.”
Sul punto è intervenuta a dirimere il contrasto, l’Ad. Plen.
15/11 che esaminando la problematica ha dettato delle direttive valevoli anche per l’odierna s.c.i.a..
L’Adunanza Plenaria ha ritenuto che la d.i.a. vada ricompresa tra gli istituti di liberalizzazione dell’attività privata e non tra quelli di semplificazione, in quanto la stessa può essere attivata senza consenso dell’amministrazione; la d.i.a., quindi, rientra in un atto soggettivamente ed oggettivamente privato.
Si legge, infatti, in sentenza che “la denuncia di inizio di attività non è un provvedimento amministrativo a formazione tacita e non dà luogo in ogni caso ad un titolo costitutivo, ma riflette un atto del privato volto a comunicare l'intenzione di intraprendere un'attività direttamente ammessa dalla legge.”
L’Adunanza Plenaria, soffermandosi sulla tutela del terzo che si ritiene leso dall’attività intrapresa dall’istante, non condivide gli orientamenti sopra espressi; ritiene, infatti, che il privato debba impugnare nel termine decadenziale di giorni 60 il silenzio tenuto dall’amministrazione sull’istanza del privato che esercita l’attività oggetto di s.c.i.a..
Si impugna, quindi, il mancato esercizio da parte della pubblica amministrazione del potere inibitorio espressamente riservatole dall’art. 19 l. 241/90.
Ed infatti, tale silenzio, a differenza del mero silenzio inadempimento, conclude il procedimento amministrativo volto a disciplinare l’attività dell’istante, per cui lo stesso
acquisisce valore di provvedimento tacito negativo relativamente all’esercizio del potere inibitorio.
Si legge, infatti, in sentenza che “il silenzio osservato dall'amministrazione nel termine perentorio previsto dalla legge per l'esercizio del potere inibitorio a fronte della presentazione di una d.i.a./s.c.i.a. produce l'effetto giuridico di precludere all'amministrazione l'esercizio del potere inibitorio a seguito dell'infruttuoso decorso del termine perentorio all'uopo sancito dalla legge, qualificandosi pertanto come esercizio di potere amministrativo attraverso l'adozione di un provvedimento tacito negativo, equiparato dalla legge ad un, sia pure non necessario, atto espresso di diniego dell'adozione del provvedimento inibitorio.
Trattasi in definitiva, di un provvedimento per silentium con cui la P.A., esercitando in senso negativo il potere inibitorio, riscontra che l'attività è stata dichiarata in presenza dei presupposti di legge e, quindi, decide di non impedire l'inizio o la protrazione dell'attività dichiarata.”
L’Adunanza Plenaria si preoccupa altresì di individuare la tutela del terzo nel periodo che separa l’inizio dell’attività dell’istante (la presentazione della d.i.a. o s.c.i.a) dal decorso del termine per l’esercizio del potere inibitorio, ritenendo, in tale ipotesi esperibile l’azione di accertamento.
Precisa, infatti, la sentenza che “ove il terzo subisca una lesione in un arco di tempo anteriore al decorso del termine perentorio fissato dalla legge per l'esercizio dei poteri inibitori, non essendosi ancora perfezionato il provvedimento amministrativo tacito e non venendo in rilievo un silenzio-rifiuto, l'unica azione esperibile è l'azione di accertamento tesa ad ottenere una pronuncia che verifichi l'insussistenza dei presupposti di legge per l'esercizio dell'attività oggetto della denuncia, con i conseguenti effetti conformativi in ordine ai provvedimenti spettanti all'autorità amministrativa. In tal caso, l'assenza del definitivo esercizio di un potere ancora in fieri, afferendo ad una condizione richiesta ai fini della
definizione del giudizio, non preclude l'esperimento dell'azione giudiziaria anche se impedisce l'adozione di una sentenza di merito ai sensi del capoverso dell'art. 34 c.p.a. Di conseguenza, l'azione di accertamento proposta in via anticipata consente l'adozione di misure cautelari che, lungi dall'implicare una non consentita sostituzione nell'esercizio del potere di controllo, mira ad evitare che l'utilità dell'eventuale adozione della misura inibitoria adottata all'esito dell'esercizio del potere possa essere vanificata dagli effetti medio tempore sortiti dall'esplicazione dell'attività denunciata. Sono adottabili, a fortiori, misure cautelari ante causam, al fine di assicurare gli effetti della sentenza di merito, in presenza dei presupposti all'uopo sanciti dall'art. 61 del codice del processo amministrativo.”
La Plenaria conclude il suo ragionamento esaminando anche i possibili esiti del giudizio, nel caso in cui, nelle more del processo relativo all’azione di accertamento, la pubblica amministrazione emani un provvedimento di inibizione, ritenendo che in tale caso verrà dichiarata la cessazione della materia del contendere.
Qualora, invece, tale provvedimento inibitorio non venga emanato, “il giudice potrà pronunciarsi sul merito del ricorso senza che sia all'uopo necessaria la proposizione, da parte del terzo ricorrente, di motivi aggiunti, ex art. 43, c.p.a. poiché oggetto dell'accertamento invocato con l'azione iniziale non può essere solo la mera sussistenza o insussistenza dei presupposti per svolgere l'attività sulla base di una semplice denuncia ma, in coerenza con i caratteri della giurisdizione amministrativa come giurisdizione avente ad oggetto l'esercizio del potere amministrativo, la sussistenza o l'insussistenza dei presupposti per l'adozione dei provvedimenti interdittivi doverosi, e, quindi, la fondatezza dell'interesse pretensivo all'uopo azionato del terzo. Ne deriva che, in forza del principio di economia processuale, l'azione di accertamento, una volta maturato il termine per la
definizione del procedimento amministrativo, si converte automaticamente in domanda di impugnazione del provvedimento sopravvenuto. Resta comunque salva la facoltà dell'articolazione di motivi aggiunti suggeriti dalle risultanze dell'istruttoria svolta dall'amministrazione o dalla sopravvenienza di nuovi elementi, mentre la proposizione di motivi aggiunti è obbligatoria ed onerosa, pena l'improcedibilità del ricorso già presentato, nell'ipotesi in cui la pubblica amministrazione, all'esito del procedimento amministrativo inaugurato con la presentazione della d.i.a., adotti un atto espresso che evidenzi le ragioni della mancata adozione della determinazione inibitoria.”
Tale soluzione sposata dalla Plenaria, ha determinato astrattamente una decadenza prima non prevista, obbligando il terzo ad agire entro 60 giorni dallo spirare del silenzio formatosi sull’istanza del privato. L’introduzione di una tale decadenza ha portato una recente sentenza del Consiglio di Stato 5822/13 a ritenere che la stessa non si applichi alle azioni esperite precedentemente alla pronuncia dell’Adunanza Plenaria.
Ed infatti, ritiene il Consiglio di Stato che per applicazione della disciplina della rimessione in termini per errore scusabile della parte o in base ai principi dettati in materia di overruling processuale, comunque non può imporsi al soggetto una decadenza processuale prima non ritenuta sussistente dalla giurisprudenza.
Ed infatti, il Consiglio di Stato fa proprio il principio sposato dalla Cassazione in materia di overruling, secondo cui
“affinché un orientamento del giudice della nomofilachia non sia retroattivo come, invece, dovrebbe essere in forza della natura formalmente dichiarativa degli enunciati giurisprudenziali, ovvero affinché si possa parlare di
"prospective overruling", devono ricorrere cumulativamente i seguenti presupposti: che si verta in materia di mutamento della giurisprudenza su di una regola del processo; che tale mutamento sia stato imprevedibile in ragione del carattere lungamente consolidato nel tempo del
pregresso indirizzo, tale, cioè, da indurre la parte a un ragionevole affidamento su di esso; che il suddetto
"overruling" comporti un effetto preclusivo del diritto di azione o di difesa della parte."
Sussistendo i presupposti sopra esposti nel caso di impugnativa in materia di d.i.a., ritiene il consiglio di Stato di non poter applicare retroattivamente la pronuncia della Adunanza Plenaria, per cui sposa la tesi secondo cui “la decorrenza del termine decadenziale, in materia edilizia, non può essere di norma fatta coincidere con la data in cui i lavori hanno avuto inizio, in quanto, come la giurisprudenza ha già specificato per l'impugnazione dei titoli abilitativi edilizi, il termine inizia a decorrere quando la costruzione realizzata rivela in modo certo ed univoco le essenziali caratteristiche dell'opera e l'eventuale non conformità della stessa al titolo o alla disciplina urbanistica.
Ne deriva che, in mancanza di altri ed inequivoci elementi probatori, il termine per l'impugnazione decorre non con il mero inizio dei lavori, bensì con il loro completamento”.
Il legislatore del 2011, condividendo la tesi sposata dalla Adunanza Plenaria, espressamente prevede che la s.c.i.a.
non costituisce un provvedimento tacito direttamente impugnabile ma un atto di natura privatistica. Ed infatti, si legge nella pronuncia del T.A.R. Abruzzo L'Aquila Sez. I, 20/04/2016, n. 238 che “il comma 6 ter dell’art. 19 Legge n.
241 del 1990 ha chiarito la natura della d.i.a. (oggi s.c.i.a.) nel senso che si tratta non già di un provvedimento abilitativo tacito, bensì di un'ipotesi di legittimazione ex lege; in tal senso, l'affermazione circa la non impugnabilità diretta della d.i.a. (o s.c.i.a.) è perfettamente conseguente alla sua affermata natura di atto privato in relazione ad un'attività ormai liberalizzata (id est, legittimata in forza di legge, non più sulla base di un atto amministrativo abilitativo, seppur tacito).”
Proprio in quanto ritenuto un atto privato, la giurisprudenza ritiene che non sia necessaria la comunicazione di avvio
del procedimento o quella di cui all’art. 10 bis (T.R.G.A.
Trentino-A. Adige Bolzano, 18/07/2016, n. 233).
Stante la natura legislativamente dichiarata della S.C.I.A., la giurisprudenza ritiene che il richiamo ai poteri di autotutela non concerne la sussistenza di un provvedimento di primo grado su cui incidere. Si legge, infatti, in T.A.R. Campania Napoli Sez. VIII, 21/04/2016, n.
2106 che “a fronte della presentazione di una s.c.i.a., decorso senza esito il termine per l'esercizio del potere inibitorio, la P.A. dispone comunque del potere di autotutela ai sensi dell'art. 21-nonies della legge n. 241/90.
Il potere residuale di autotutela, previsto nel comma 4 dell'art. 19 della legge n. 241/1990, infatti, deve intendersi come potere sui generis, in quanto si differenzia dalla consueta autotutela decisoria perché non implica un'attività di secondo grado insistente su un precedente provvedimento amministrativo, ma che con l'autotutela classica condivide i presupposti e il procedimento.”
Il legislatore si discosta però dall’Adunanza Plenaria in relazione alle possibilità difensive del terzo.
Ed infatti, al comma 6 ter dell’art. 19 l. 241/90 stabilisce che l’unica azione esperibile dal terzo leso è quella diretta a sollecitare l’esercizio delle verifiche spettanti all’amministrazione, ed in caso di inerzia, agire avverso il silenzio formatosi su tale sollecitazione.
Il legislatore, quindi, ritiene impugnabile non il silenzio tenuto dall’amministrazione sull’istanza del privato, ma esclusivamente il silenzio tenuto sulla richiesta di esercizio dei potere di verifica.
In tal modo, però, si allungano i tempi di tutela processuale del terzo, dovendo quest’ultimo dapprima sollecitare l’amministrazione ad esercitare i propri poteri e solo successivamente, in caso, di silenzio potrà agire con il rimedio previsto.
Dinnanzi ad un’attività potenzialmente lesiva che può essere immediatamente iniziata, il terzo non dispone di una tutela rapida ed effettiva, dovendo prima sollecitare un
intervento dell’amministrazione in via stragiudiziale ritenuto prodromico all’azione giudiziale114.
Potrebbe ben accadere, però, che in tale arco temporale si verifichino delle modifiche irreversibili, rendendo inutile la tutela richiesta dal terzo, con un’effettiva lesione dei principi costituzionali in materia di pienezza ed effettività di tutela processuale.
114 In tal senso si legga T.A.R. Veneto Venezia Sez. III, 22/05/2014, n. 690 secondo cui “il vigente comma 6 ter dell'art. 19 della legge 7 agosto 1990, n. 241 esclude che la segnalazione certificata di inizio attività integri un provvedimento tacito ed individua esplicitamente i rimedi esperibili dai terzi interessati che lamentino la carenza dei requisiti o violazioni della disciplina applicabile rispetto all'iniziativa intrapresa dal dichiarante, precisando che possono esercitare l'azione sul silenzio di cui all'art. 31 D. Lgs. n. 104/2010 (CPA) dopo aver sollecitato "l'esercizio delle verifiche spettanti all'amministrazione", e in caso di inerzia di quest'ultima.”