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Gli occhi ridenti dei beati: lucerne accresciute nella Carità dell’incontro

Nel documento La Commedia degli sguardi (pagine 191-195)

5. La corte del cielo: beati e creature angeliche, gli occhi innamorati del divino

5.1. Gli occhi ridenti dei beati: lucerne accresciute nella Carità dell’incontro

La parte più consistente della corte celeste è costituita dalla moltitudine dei Beati. Di essa fanno parte tutti gli uomini che sulla terra si resero meritevoli di raggiungere la meta celeste e contemplare il divino grazie alla loro condotta, alla fede e alle opere di carità compiute.

La sostanza prima di cui sono formati questi spiriti è la luce, tanto che in molti luoghi del testo sono detti lumi, lucerne, fulgori. Lo splendore di cui le anime beate sono costituite aumenta via via che si procede dai cieli più bassi fino alle dimore più elevate dell’Empireo; così, se il pellegrino riesce a scorgere, anche se a fatica, i contorni evanescenti degli spiriti del Cielo della Luna o del Cielo di Mercurio, tale possibilità andrà scomparendo nei cieli superiori, dove il fulgore che adorna le anime è tale da impedire alla vista di scorgere una qualche forma.

La Commedia degli sguardi

Potenza evocativa e comunicativa degli occhi nel poema dantesco

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La luce di Dio sorrisa con gli occhi. Ciò che colpisce in modo particolare il

nostro interesse è soprattutto come tale luminosità trovi il suo mezzo di espressione proprio nello sguardo degli spiriti beati, che trasmettono, dunque, la gioia della beatitudine attraverso gli occhi. A notarlo è lo stesso Dante, quando si rivolge all’anima splendente che si rivelerà essere quella dell’imperatore Giustiniano

«Io veggio ben sì come tu t'annidi

nel proprio lume, e che de li occhi il traggi,

perch' e' corusca sì come tu ridi; 126 (Par. V, 124-126)

Il pellegrino nota che lo spirito è avvolto nel suo lume, il quale proviene proprio dagli occhi che, sorridendo, permettono alla luce interiore, che deriva da Dio, di sprigionarsi al di fuori. L’autore riesce qui, attraverso l’abile espediente del corpo luminoso, unico mezzo di espressione degli spiriti beati, a dare concretezza al rapporto esistente tra la gioia spirituale delle anime e il fervore della luce che le avvolge.

Amore arricchito dalla gioia dell’incontro. Occhi ridenti, dunque, sono quelli

dei Beati, che traggono gioia dalla loro condizione di beatitudine. Ma non solo questo è il motivo della felicità che traspare dai loro sguardi: se da un lato la possibilità di contemplare Dio è causa suprema di letizia, allo stesso modo lo è però anche la possibilità di aumentare l’Amore che governa il Paradiso, attraverso azioni che di tale ardore di carità siano diretta espressione. E la presenza di Dante pellegrino, quale ospite privilegiato del mondo celeste, sembra prestarsi perfettamente a tale scopo. In questo modo si assiste continuamente a manifestazioni di curiosità, di fervore e gioia delle anime beate alla vista di Dante, nel quale riconoscono la concreta possibilità di accrescere con l’azione l’Amore supremo di cui fanno parte.

Si noti ad esempio la reazione degli spiriti del Cielo di Mercurio, che, avvicinatisi rapidamente a Dante, esprimono la gioia luminosa per l’incontro

Come 'n peschiera ch'è tranquilla e pura traggonsi i pesci a ciò che vien di fori

per modo che lo stimin lor pastura, 102 sì vid' io ben più di mille splendori

193 trarsi ver' noi, e in ciascun s'udia:

«Ecco chi crescerà li nostri amori». 105 E sì come ciascuno a noi venìa,

vedeasi l'ombra piena di letizia

nel folgór chiaro che di lei uscia. 108 (Par. V, 100-108)

Come di consueto l’apparire delle anime beate è improvviso e rapido, come realisticamente descritto attraverso la similitudine con i pesci nella peschiera che, attirati da un evento esterno che credono essere cibo, si avvicinano con un rapido guizzo. La scena rende con efficacia l’idea della moltitudine di anime che affollano il Cielo di Mercurio e allo stesso tempo della velocità del loro muoversi. Ma di altrettanto grande rilievo è la frase pronunciata al v.105, in cui le anime riconoscono gioiosamente nella presenza di Dante la possibilità di accrescere l’Amore del cielo, accontentando le sue richieste e palesando così il loro affetto. E il pellegrino può riconoscere chiaramente tale

letizia, che trova piena espressione all’esterno in quel folgór chiaro, nello splendore

aumentato di ognuno di essi.

Così, ad ogni richiesta o dubbio del pellegrino a cui i beati possono in qualche modo dare accoglienza si assiste all’aumento straordinario di luce, corrispondente all’accrescimento dell’ardore di carità, di cui tale luminosità è dunque espressione.

Si veda ancora il caso dell’anima di Giustiniano, a cui vengono richieste delucidazioni sull’identità e sulla sua collocazione tra gli spiriti di Mercurio

Questo diss' io diritto a la lumera che pria m'avea parlato; ond' ella fessi

lucente più assai di quel ch'ell' era. 132 (Par. V, 130-132)

O ancora la gioia esternata dall’anima di Cunizza, a cui il pellegrino si appella nel Cielo di Venere

Ed ecco un altro di quelli splendori ver' me si fece, e 'l suo voler piacermi

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Potenza evocativa e comunicativa degli occhi nel poema dantesco

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Leggere il pensiero di Dante nel riflesso della mente di Dio. La condizione

privilegiata di cui godono i beati trae necessariamente origine, come si è detto, dal contatto con il divino, che, attraverso la contemplazione, essi possono continuamente sperimentare. In questo senso, dunque, proprio come accadeva per Beatrice (in quanto essa stessa beata), le anime dei Beati appaiono come innumerevoli riflessi della luce suprema di Dio. Nei loro stessi occhi si specchia l’immagine del divino e, viceversa, in essi Dio vede ogni cosa.

Da questo fatto straordinario deriva un’altra qualità sovrannaturale che avvicina ancor più i Beati a Dio, ovvero la possibilità di leggere la mente di ogni creatura e quindi dello stesso Dante. Ecco, dunque, che Beatrice conosce e scandaglia perfettamente ogni pensiero del suo allievo e così ogni spirito che il pellegrino incontra. Si veda l’esempio di San Tommaso, che legge nella mente il dubbio di Dante rispetto a due affermazioni pronunciate poco prima, senza che l’allievo debba palesarlo

«Così com' io del suo raggio resplendo, sì, riguardando ne la luce etterna,

li tuoi pensieri onde cagioni apprendo. 21 (Par. XI, 19-21)

Guardando nella luce eterna di Dio, Tommaso può vedere i pensieri di Dante là dove traggono origine, ovvero nel profondo della sua mente: è la luce divina che, riflettendosi nella vista del beato, gli permette di distinguere, come se fossero suoi, i pensieri dell’altro, come in un gioco di specchi.

Allo stesso modo nel momento dell’incontro di Dante con il suo antenato Cacciaguida, quest’ultimo gli chiede di palesare comunque la sua curiosità, che potrà così meglio accrescere la carità compiuta rispondendo, nonostante la natura beata gli abbia già mostrato il contenuto dei pensieri del poeta

Tu credi 'l vero; ché i minori e ' grandi di questa vita miran ne lo speglio

in che, prima che pensi, il pensier pandi; 63 ma perché 'l sacro amore in che io veglio

con perpetüa vista e che m'asseta

195 la voce tua sicura, balda e lieta

suoni la volontà, suoni 'l disio,

a che la mia risposta è già decreta!». 69 (Par. XV, 61-69)

Si noti l’elaborazione retorica del v.63 sui termini pensi, pensier, che sembra riprodurre anche linguisticamente il gioco dello speglio, cioè la mente di Dio, nella quale il pensiero dell’uomo, prima ancora di prendere forma, è già manifesto e perciò conoscibile ai Beati che in esso miran.

Una natura splendente, dunque, e dotata di incredibili facoltà è quella dei Beati, la cui grazia trae origine da uno sguardo, quello di Dio, e trova al contempo possibilità di espressione attraverso il sorriso dei loro stessi occhi.

Nel documento La Commedia degli sguardi (pagine 191-195)