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Sguardo basso e nascondimento: gli occhi della vergogna e del fastidio

Nel documento La Commedia degli sguardi (pagine 80-84)

5. Le anime: gli occhi della sorpresa, della sfida e della vergogna

5.4. Sguardo basso e nascondimento: gli occhi della vergogna e del fastidio

Scendere nel regno dell’Inferno significa fare i conti con la natura malvagia del peccato, con l’eternità di una dannazione alla quale non vi è rimedio, ma soprattutto è per Dante occasione di incontro con coloro che alle seduzioni del peccato non hanno saputo resistere. La reazione delle anime alla propria colpa e alla condizione di dannazione è diversa e risulta trasformarsi nel corso della discesa nelle profondità del regno. Se, infatti, ai peccati meno gravi, puniti nell’Antinferno e nei primi cerchi infernali, corrisponde generalmente un atteggiamento di contrizione, nostalgia e rimpianto nei confronti della vita terrena e soprattutto della beatitudine perduta, ben diverse sono le reazioni dei dannati più colpevoli, relegati nel basso Inferno. Man mano che si procede verso le profondità del regno, infatti, le anime mostrano un atteggiamento bivalente: in molti casi mostrano rancore, furia distruttiva, rabbia nei confronti di sé stessi e di Dio, ma più in generale vi è una realtà dominante, che è quella della vergogna e del nascondimento.

I peccatori meno gravi dei primi cerchi rievocano spesso con nostalgia la vita precedente, accusando le loro mancanze e chiedendo talvolta al pellegrino Dante di fare da tramite col mondo dei vivi, raccontando e portando notizie (qualcosa di simile accadrà nel Purgatorio, dove le anime confideranno nella possibilità dei suffragi dei vivi per diminuire la loro espiazione e desidereranno di essere ricordati presso le proprie genti).

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Completamente diverso è invece ciò che riguarda i peccatori gravi del profondo Inferno: il loro radicamento al male è talmente forte da non chiedere più contatto con il mondo, se non forse per vantare le proprie imprese malvagie. Per il resto, la nota dominante risulta essere la vergogna profonda, non tanto per la consapevolezza delle proprie colpe e il pentimento, ma per il puro fatto di essere colti da occhi estranei in tale condizione abietta.

La vergogna del basso Inferno – occhi che sfuggono. In questo senso è

esemplare l’incontro di Dante con il ruffiano Venedico Caccianemico. Quando si accorge della presenza del pellegrino, questi finge di non vederlo e abbassa lo sguardo per distogliere l’attenzione da sé; ma Dante lo apostrofa, appellandosi proprio al suo gesto di nascondimento, obbligando il peccatore a presentarsi

Per ch'ïo a figurarlo i piedi affissi; e 'l dolce duca meco si ristette,

e assentio ch'alquanto in dietro gissi. 45 E quel frustato celar si credette

bassando 'l viso; ma poco li valse,

ch'io dissi: «O tu che l'occhio a terra gette, 48 se le fazion che porti non son false,

Venedico se' tu Caccianemico. (Inf. XVIII, 43-50)

Segno inequivocabile è quel bassando ‘l viso, gesto che si incontra qui per la prima volta nell’Inferno, ad indicare che le anime qui presenti non desiderano più di essere riconosciute e ricordate nel mondo (come era accaduto durante i primi incontri del pellegrino Dante nel primo regno): il volto dell’uomo tende qui a volersi celare, per la vergogna di così vili peccati.48

Il fastidio di uno sguardo indagatore – i volti della stizza. In molti casi, poi, alla

vergogna si accompagna il risentimento nei confronti del poeta che osserva, anzi, più precisamente nei confronti del suo sguardo indagatore, che suscita il fastidio di anime come quella dell’adulatore Alessio Interminelli, lucchese

La Commedia degli sguardi

Potenza evocativa e comunicativa degli occhi nel poema dantesco

82 E mentre ch'io là giù con l'occhio cerco, vidi un col capo sì di merda lordo,

che non parëa s'era laico o cherco. 117 Quei mi sgridò: «Perché se' tu sì gordo

di riguardar più me che li altri brutti?». (Inf. XVIII, 115-119)

La stizza nasce dalla vergogna di essere riconosciuto tra queste anime che scontano una pena ripugnante, immersi negli escrementi come in un porcile, come evocato dal v.116, nel quale trovano spazio quel plurilinguismo ed espressionismo che caratterizzano in molte occasioni la lingua dantesca.

Si noti, in particolare, la dinamica di sguardi instauratasi tra i due interlocutori: quello ghiotto e curioso di Dante, sì gordo di riguardar, e quello stizzito, irato e vergognoso che, come possiamo immaginare, si delinea nel volto dell’adulatore colto nel frangente di tale pena indecorosa.

Procedendo ancora nella discesa verso il basso Inferno ci si trova di fronte ad un incontro molto toccante, quello con l’anima di Caifa, il sacerdote capo del Sinedrio, ricordato tra i colpevoli della condanna a morte di Cristo. L’atmosfera di attesa e tensione è creata dall’autore con una sapiente gestione teatrale del momento, nel quale interrompe improvvisamente le parole del pellegrino, per lasciare spazio all’apparizione che attirerà intensamente il suo sguardo. L’occhio si sposta, così, sulla figura di Caifa, sorpreso nella posizione di crocifissione

Io cominciai: «O frati, i vostri mali... »; ma più non dissi, ch'a l'occhio mi corse

un, crucifisso in terra con tre pali. 111 Quando mi vide, tutto si distorse,

soffiando ne la barba con sospiri; (Inf. XXIII, 109-113)

Di grande suggestione è la descrizione dell’atteggiamento del dannato che, crocifisso a terra, rendendosi conto di essere osservato da Dante si contorce e soffia con rabbia impotente per la vergogna di essere visto in quella posizione indecorosa.

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Una superbia mai sconfitta – lo sguardo che sfida. Successivamente anche il

dialogo con il ladro Vanni Fucci si apre all’insegna della vergogna, ma stavolta l’anima non cerca di nascondersi e alza piuttosto lo sguardo al pellegrino, lasciando trasparire l’amarezza del sentimento

E 'l peccator, che 'ntese, non s'infinse, ma drizzò verso me l'animo e 'l volto,

e di trista vergogna si dipinse; 132 poi disse: «Più mi duol che tu m'hai colto

ne la miseria dove tu mi vedi,

che quando fui de l'altra vita tolto. 135 (Inf. XXIV, 130-135)

Si noti in particolare l’aggettivo usato per definire la vergogna, «trista perché nasce da superbia, per dispetto di esser colto in tale stato; mentre ve n’è una buona, che

fa l’uom di perdon talvolta degno (Purg. V, 21), perché nasce dal pentimento».49

Una vergogna, quindi, di ben altro statuto rispetto a quella mossa dal pentimento e che si nutre solamente di superbia, tanto che il dannato risulta più amareggiato dal fatto di essere colto nel suo miserevole stato piuttosto che dalla morte stessa e dalla sua condanna.

La superbia è, infatti, il carattere dominante di gran parte delle anime dannate incontrate da Dante. In alcuni casi, addirittura, essa non provoca l’abbassamento dello sguardo per vergogna, ma l’ostentare del viso in alto, in segno di sfida.

Così, oltre al caso appena descritto, si veda anche l’esempio dell’alchimista Capocchio, che addirittura invita il pellegrino a guardarlo e riconoscerne le capacità di falsario in vita

Ma perché sappi chi sì ti seconda contra i Sanesi, aguzza ver' me l'occhio,

sì che la faccia mia ben ti risponda: 135 sì vedrai ch'io son l'ombra di Capocchio,

La Commedia degli sguardi

Potenza evocativa e comunicativa degli occhi nel poema dantesco

84 che falsai li metalli con l'alchìmia;

e te dee ricordar, se ben t'adocchio, 138

com' io fui di natura buona scimia». (Inf. XXIX, 133-139)

In questo caso si assiste ad un comportamento che, spinto dall’estrema superbia, supera persino la vergogna, esibendo un singolare compiacimento nella sfida. Il tutto sottilmente comunicato attraverso la potenza dello sguardo, come sottolineato dalla presenza in rima di termini quali occhio, adocchio e dall’invito esplicito all’incontro degli sguardi di quel aguzza ver’ me l’occhio.

Nel documento La Commedia degli sguardi (pagine 80-84)