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Olimpia Calì

Nel documento Nuovi sguardi sulle scienze cognitive (pagine 60-69)

Università di Messina

L’idea che l’atto del narrare abbia il duplice ruolo di istruire e de-

lectare il suo pubblico è ben radicata nella civiltà umana sin dai suoi

albori. Da quando infatti l’uomo, dopo aver iniziato a padroneggiare quello che possiamo assimilare ad uno strumento esattamente come un utensile, si è reso conto che l’uso della fantasia e dell’immaginazione era paragonabile ad un bisogno fisiologico e che lo aiutava a com- prendere meglio il mondo. La narrazione può essere descritta come quella funzione della mente che permette di fare ordine nel bagaglio di esperienze che avvengono sia nel mondo esterno, sia nell’interiorità dell’individuo. Il cervello reagisce agli stimoli simulati come se questi fossero veri: esperimenti che hanno coinvolto la corteccia motoria mostrano infatti che leggere o vedere azioni di movimento ci porta ad un processo di immedesimazione grazie al quale il movimento viene interiorizzato e diventa “nostro” (Boulenger, Hauk, Pulvermüller 2009). La letteratura di ogni tempo e luogo si è riempita di personaggi che subivano il fascino della narrazione, a dimostrazione del potere suggestivo che questa ha sulla mente: pensiamo ad esempio a Paolo e Francesca, gli amanti sfortunati che scoprono il loro amore leggendo le avventure di Lancillotto o Ginevra, o a Sheherazade, la principessa che raccontando storie riesce a tenere viva l’attenzione del sultano suo marito e a rimandare la sua morte per mille e una notte.

In modo più o meno diretto, la magia della narrazione è dunque in grado di influenzare la nostra mente nel profondo (Gottschall 2013), fino ad arrivare a modificare le nostre credenze e il nostro modo di rapportarci alla realtà. Questo meccanismo si attiva in seguito allo sca- tenarsi delle emozioni e del processo di empatia nel momento in cui ci si approccia ad un’opera di finzione. La narrazione, attraverso il suo offrire la possibilità di addentrarsi in mondi diversi e ai quali non sa-

rebbe altrimenti possibile avere accesso, offre al cervello la possibilità di costruire schemi mentali per situazioni risolvibili sia nell’imma- ginario (ad esempio indovinare il colpo di scena finale di una storia, ma anche il semplice acquisire nozioni) sia nella realtà, come la co- struzione di ipotesi sul comportamento altrui e anche sul proprio (ciò che viene chiamata anche metacognizione). Inoltre in quelli che Eco (2011) aveva definito boschi narrativi la mente, oltre a mettere in atto il meccanismo di sospensione dell’incredulità, che permette di credere alla storia narrata senza porsi eccessivi dilemmi circa la realisticità dei fatti, opera quella che Gallese (2011) definisce simulazione incarnata liberata. In questo processo la mente si libera dalle norme del mondo reale e può approcciarsi all’oggetto senza dover rendere conto di freni morali o etici. Ogni emozione è permessa, perché ci si trova in un territorio sicuro, all’interno del quale nulla di pericoloso può accadere e perché anche le emozioni più negative o moralmente sconsigliabili (simpatizzare ad esempio con un personaggio cattivo) possono essere gestite senza che ci siano conseguenze nel mondo reale. Il politically

correct non è (più) considerato una caratteristica necessaria affinché

la narrazione sia considerata godibile e anzi a volte capita che siano gli anti-eroi a catturare l’attenzione di chi fruisce delle loro storie. Si tratta quasi di sfidare sé stessi e affrontare un pericolo che non esiste e godersi il brivido della sensazione di poter interagire con personaggi e situazioni che solitamente non si sarebbe in grado di affrontare. Nessuno di noi andrebbe a cena con Hannibal Lecter conoscendo i suoi gusti culinari, ma è innegabile che il suo personaggio eserciti un fascino ambiguo sulle nostre menti e sull’immaginario collettivo. L’interazione parasociale con questo tipo di personaggi avviene in un luogo sicuro, l’immaginazione, nel quale, nonostante gli scenari descritti e le emozioni suscitate, abbiamo la certezza di non correre pericoli concreti. Inoltre, fra i motivi per cui le narrazioni ambigue riescono comunque ad affascinarci e a catturare la nostra attenzione, va ricordato il fatto che, nella maggior parte dei casi, non esistono per- sonaggi che incarnano davvero il male assoluto. Persino il già citato Hannibal Lecter mostra tratti che ce lo fanno trovare perversamente affascinante e incredibilmente carismatico (Smith 1999) e che per un attimo ci sollevano dal ricordo che si tratti di un individuo molto pe- ricoloso.

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I processi di immedesimazione e empatia con le storie avvengono a prescindere dal valore estetico che si attribuisce alle stesse. È vero che la bravura di chi racconta sta nel saper stimolare la mente di chi leggerà, ascolterà o vedrà la storia, e questo accade più di frequente quando l’universo narrativo è complesso e ricco di sfumature. D’altro canto però, la vera magia della narrazione sta nel suo essere in grado di suscitare emozioni forti, nel richiamare sensazioni inconsce nelle quali immedesimarsi. In questo modo la narrazione non è più solo in- trattenimento, ma diventa una vera e propria esperienza che aggiunge significato alla nostra esistenza e la arricchisce di senso e contenuto. Se così non fosse, non sarebbe possibile spiegare come a volte il pub- blico si appassioni a prodotti narrativi che la critica specializzata non ritiene essere di alto spessore culturale, creando un distinto divario fra valore estetico e valore affettivo.

L’esperienza della narrazione ha luogo ad ogni livello, sia che la narrazione sia composta di poche battute, sia che riguardi un prodotto talmente perfetto da essere considerato arte, sia che si tratti di una narrazione pensata per puro intrattenimento. Questa visione delle cose permette di allargare l’analisi dell’effetto della narrazione sulla mente a tutte le sue manifestazioni, trascendendo dalla forma che essa assume. Grodal (2014) utilizza la definizione di “pacchetti funzionali” per indicare quegli archetipi che, attingendo ad emozioni e sensazioni profondamente radicati nell’animo umano, fanno presa sullo stesso e lo stimolano ogni qual volta vengono rielaborati sotto forma di rac- conto. I pacchetti funzionali prescindono quindi dal “genere” di storia raccontata, ovvero possono essere presenti in qualsiasi tipo di narra- zione, senza che ad essa debba per forza essere attribuito un giudizio estetico. Questo ci porta quindi a prendere in considerazione narra- zioni che, fino a qualche decennio fa, per il loro essere considerate “di massa” venivano automaticamente tacciate di non avere alcun valore artistico e dunque non erano ritenute degne di essere prese in conside- razione nonostante il forte impatto che avevano sul pubblico.

Una delle narrazioni che, nel corso degli ultimi decenni, è stata in grado di liberarsi dall’etichetta di prodotto dozzinale e dal valore trascurabile per assumere notevoli tratti di complessità e ricercatezza stilistica ed estetica, è senza dubbio la serialità televisiva. Sfruttando il fatto di aver a che fare con un racconto che dovesse protrarsi nel

tempo, infatti, gli autori delle serie televisive hanno avuto la possi- bilità di creare non solo trame complesse e intrecciate fra di loro, ma anche personaggi approfonditi sia nelle storie sia nelle loro psicologie. La serialità televisiva coniuga da un lato le tecniche del cinema e del racconto per mezzo di immagini e suoni, dall’altro l’idea di dividere la sua struttura in episodi come era comune nel romanzo d’appendice. Quest’ultima caratteristica, quando sapientemente sfruttata, è quella che ha la capacità di avvincere lo spettatore e di suscitare in lui la curiosità di sapere come va avanti la vicenda raccontata. Il pilot ha il compito di mettere in campo le questioni che stanno alla base del

concept della serie e di suscitare curiosità sospendendo la narrazione

al momento giusto. Per richiamare uno degli esempi fatti all’inizio di questo saggio, è esattamente lo stratagemma utilizzato da Sheherazade per rimandare la sua morte notte dopo notte. Il personaggio del sultano non è nient’altro che la rappresentazione simbolica del lettore (o spet- tatore) che subisce il fascino della narrazione e che viene sopraffatto dalla curiosità di sapere come questa va avanti.

La struttura della serialità televisiva è diventata, specialmente negli ultimi decenni, sempre più complessa e articolata (Mittell, 2013) sia nella struttura narrativa e nelle tecniche di realizzazione, sia nell’im- pegno che richiede allo spettatore per essere seguita adeguatamente. L’intrecciarsi di trame orizzontali (ovvero che trovano il loro sciogli- mento all’interno dell’episodio, come può essere ad esempio un caso di omicidio in Criminal Minds) a trame verticali (le vicende perso- nali dei protagonisti che spesso si dipanano di episodio in episodio) mantengono viva l’attenzione. Inoltre, come già accennato, l’effetto del posporsi dello scioglimento dell’intreccio e di conseguenza della risoluzione finale, è quello di costringere il pubblico ad un continuo rielaborare le informazioni ricevute di episodio in episodio, aggiun- gendo dettagli che permettono di avere un quadro mentale chiaro di quello che succede e orientarsi all’interno dell’universo narrativo. La complessità dunque è una sorta di sfida alla mente, che viene stimolata a trovare delle soluzioni a dei problemi (solitamente standardizzati, ovvero appartenenti a quei pacchetti funzionali sopra citati) e a diven- tare parte attiva nell’esperienza di visione che, a questo punto, non è più solo passiva, ma diventa attiva. Uno degli esempi più importanti (e forse anche abusato) di narrazione seriale complessa degli ultimi quin-

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dici anni è senza dubbio Lost. Per anni, infatti, questa serie ha educato gli spettatori a stare attenti ad ogni dettaglio e ad orientarsi in una linea temporale scandita da continui flashback e flashforward, in modo da ricostruire i pezzi di una trama che era letteralmente un mosaico. Di episodio in episodio, il cervello impara a categorizzare ed elaborare una grande quantità di materiale narrativo e, ricorrendo alla prece- dente esperienza e a ciò che già sa sul genere della storia, impara a ge- stire tutte le informazioni in modo da ricostruire quello che è avvenuto e quello che potrebbe avvenire successivamente. L’intrattenimento of- ferto dalla serie televisiva non si esaurisce dunque con la visione degli episodi, anzi: essi sono un punto di partenza per assimilare esperienze

altre e renderle parte della nostra quotidianità. La serialità televisiva

ci offre uno stimolo continuo a mettere in discussione ciò che sap- piamo del nostro mondo (e di quello di finzione) ed è una delle tante declinazioni tramite le quali la narrazione ci permette di avventurarci in mondi paralleli e interagire (anche se a senso unico) con personaggi e vicende per le quali finiremo per provare un senso di familiarità e affettività (Bruun Vaage 2014).

L’engagement di carattere cognitivo è dunque lo strumento che per- mette all’individuo di muoversi mentalmente all’interno dell’universo narrativo, memorizzando e in seguito richiamando alla mente fatti e personaggi, fino a familiarizzare con essi. Questo tipo di processo pro- ietta il soggetto all’interno della narrazione e, attraverso l’empatia, lo rende in grado di interiorizzare ciò che la visione ha da offrirgli e di confrontarlo alla sua esperienza. In questo modo è possibile com- prendere a pieno quanto si è visto, esattamente come se si trattasse di un’esperienza vissuta e non mediata dallo schermo. In questo senso, dunque, la narrazione seriale allena la nostra mente a confrontarsi non solo con ciò che ci mostra lo schermo, ma anche a riflettere, con- sciamente o meno, su come gli schemi archetipici proposti siano in qualche modo ispirati alla realtà e su come possano fornire pattern e soluzioni per approcciarsi ad essa.

Le serie televisive considerate cult per il grande impatto che hanno sul pubblico, riescono anche ad entrare nel linguaggio e nei modi di comportarsi degli spettatori: alcune frasi del nostro linguaggio quo- tidiano sono mutuate da serie televisive e fanno in modo che il col- legamento ad esse sia immediato quando uno di questi inside jokes

viene pronunciato. Ad esempio una delle frasi più celebri della serie televisiva Game of Thrones (HBO 2011– in corso) «L’inverno sta ar- rivando» è d’uso comune fra i fan che, attraverso il suo utilizzo, si riconoscono come appartenenti alla stessa comunità di spettatori che, più o meno impazientemente, attende di conoscere le sorti dei pro- tagonisti della serie e che, molto spesso, crea vere e proprie dimen- sioni di post–entertainment (quello che viene chiamato comunemente

fandom) per metabolizzare l’attesa. Quando infatti una serie diventa

un appuntamento fisso (perlopiù settimanale) si può parlare di una vera e propria ritualità, di un tempo scandito dall’attesa e dall’idea che esista un momento ben preciso durante la settimana durante il quale si potrà staccare la spina dal mondo reale e immergersi in quello imma- ginario. Bisogna puntualizzare che in realtà la visione è ormai una pra- tica fortemente personalizzata, grazie alla presenza di strumenti (come lo streaming on demand di canali come Netflix o la piattaforma online di Sky o ancora il download) che permettono allo spettatore di sce- gliere il proprio palinsesto e di gestire il contenuto multimediale come meglio crede, mettendolo in pausa, mandandolo avanti e indietro, riguardando le sue scene preferite etc. Inoltre, altro comportamento ormai assai diffuso è quello del commento live della serie (avallato peraltro anche dalle stesse emittenti televisive, che in questo modo cercano l’interazione e il riscontro immediato nei gusti dei telespetta- tori), che quasi sdoppia la mente e la trasporta su due dimensioni: da un lato quella della visione del contenuto, dall’altro quella social della condivisione di commenti e interazione sui social network. In questo modo, la fruizione diventa un processo collettivo nel quale l’individuo non interagisce solo con la storia e i suoi protagonisti, ma anche con altri individui che possono condizionare la sua interpretazione ed ela- borazione della stessa.

Quando analizziamo l’impatto che una serie televisiva ha sul nostro sistema cognitivo, è importante anche prendere in considerazione quali sono i risvolti che la fruizione può avere sul comportamento dell’in- dividuo. Si è già accennato a come la narrazione possa contribuire ad influenzare le credenze e il pensiero del soggetto, ma sono anche altri i risvolti da prendere in analisi. La serialità televisiva infatti, ancor più che una narrazione non prolungata nel tempo, permette l’interazione con personaggi e situazioni spesso lontane al modo di vivere dello

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spettatore. Sebbene si tratti di interazioni parasociali, ovvero a senso unico e che non prevedono un reale scambio, ma in realtà offrono modelli che possono essere replicati nelle relazioni sociali col mondo esterno. Considerata la ciclicità con cui ci si sottopone alla visione di una serie televisiva, tali modelli narrativi hanno anche la capacità di essere persistenti e di rimanere in memoria per più tempo dopo la visione. Inoltre, sembra che immagini che dimentichiamo di aver visto possano radicarsi a fondo nella nostra memoria ed essere categoriz- zate non come cose che abbiamo visto, ma come cose che abbiamo realmente vissuto, diventando false memorie e influenzando di fatto le nostre credenze (Johnson 1993). L’esposizione di un campione di individui alla visione di serie tv che veicolavano contenuti di accet- tazione verso l’Altro (intesa come categoria sociale diversa e vittima di pregiudizi proprio a causa della sua presunta diversità) ha infine fatto emergere che questi, dopo la visione, si dimostravano più aperti mentalmente e disposti a mettere in discussione credenze e pregiudizi negativi (Murrar, Brauer 2017). Esistono tuttavia degli studi che ave- vano cercato di dimostrare l’esatto contrario, ovvero che il compor- tamento potesse essere influenzato in maniera negativa a causa della visione di prodotti di finzione (Appel 2008). Prendere una posizione netta sull’argomento non è semplice, in quanto entrambe le correnti di pensiero possono, a loro modo, essere avallate da esempi concreti di comportamenti positivi o negativi in seguito alla visione di prodotti di finzione. Inoltre c’è da dire che lo stesso contenuto può, in base alle credenze pregresse dell’individuo che viene sottoposto alla sua visione, assumere connotati positivi o negativi. Di conseguenza, a fare la differenza, è l’esperienza pregressa dell’individuo a determinare il modo in cui giudicherà ad esempio una serie televisiva. Per fare un esempio concreto, è purtroppo difficile che una persona che presenta forti pregiudizi nei confronti dell’Altro (inteso come minoranza X generalmente discriminata a causa di razza, religione o orientamento sessuale) decida di guardare una serie televisiva che affronti questa te- matica. Inoltre, nel caso dovesse farlo (per errore o perché sottoposto ad un ipotetico esperimento come quello già citato di Murrar e Brauer) non è semplice ipotizzare che il long engagement al prodotto finirebbe per fargli cambiare i suoi pregiudizi, in quanto questi sono solitamente fin troppo radicati. È anzi probabile che finisca per criticare quei con-

tenuti (gli stessi che magari un’altra fetta di pubblico ha ampiamente apprezzato) e accusare la narrazione di essere un’operazione di in- dottrinamento forzato e di cercare di influenzare negativamente gli spettatori.

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Un’architettura robotica per l’honest

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