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Le conseguenze delle leggi del 1938 sulla vita delle persone

SULL’INEFFABILITÀ DANTESCA IN “SE QUESTO È UN UOMO”

1. L’ombra del Limbo

Nel magistrale commento a SQU condotto nel 2012 per l’edizione della Grande Letteratura Italiana Einaudi, lo storico Alberto Cavaglion si sofferma a lungo e con ragione su una frase del primo capitolo, “Il viaggio”. In essa, il narratore rievoca la tragica veglia del 21 febbraio 1944 nel campo di detenzione e smistamento di Fossoli. Secondo una costante stilistica che Mengaldo ha ben evidenziato nella prosa leviana, al grado massimo di economia linguistica corrisponde il grado massi-mo di intensità emassi-motiva:

E venne la notte, e fu una notte tale che si conobbe che occhi umani non avrebbero dovuto assistervi e sopravvivere.

Cavaglion scorge in queste parole «il primo esempio di preterizio-ne, di ascendenza dantesca» (nota 11), osservando che questa

diven-5 Delle affinità strutturali, viceversa, non farò che rapida menzione ove il contesto

lo imponga. Ci tengo però a ricordare l’importanza dello “schema concentrico” segna-lato da Cesare Segre (Lettura di Se questo è un uomo, oggi in Un’antologia della critica, cit, pp. 55-75) e del «principio di retroazione», ossia dello schema di un viaggio verso il basso che, una volta toccato il fondo, si rovescia in una risalita, più volte segnalato

da Enrico Mattioda (ad es. in l. dei, Voci dal mondo per Primo Levi, Firenze, 2007,

p. 128).

terà una costante del libro. Passa dunque ad argomentare quanto già suggerito in un articolo di venti anni precedente 7: che, cioè, il «model-lo concettuale» di questo procedimento sia da riscontrarsi nel

Paradi-so, in particolare nell’incandescenza e ineffabilità della visione divina.

Ne conclude che, in SQU, la preterizione dantesca risulta «capovolta di segno», dal sommo Bene al sommo Male; analogamente peraltro ad ogni altro testo menzionato nel «mondo rovesciato» del Lager, con la sola eccezione della Bibbia.

Non si può non notare come, nella tesi dello studioso, si intreccino tre diversi livelli: quello della difficoltà di percezione; quello della dif-ficoltà espressiva; quello del timore di non essere creduto o compreso dal lettore 8. A ben vedere, nessuna di queste tre fonti di preterizione risulta nella Commedia esclusivo appannaggio della terza cantica, seb-bene in essa si verifichi un indubbio salto di qualità.

Atteniamoci, per il momento, alla dimensione percettiva. Se in Pa-radiso è la soverchia intensità della luce – irradiata dagli occhi di Be-atrice, dalle anime beate, finalmente dalla persona stessa di Dio – a

precludere in prima battuta la visione 9; in Inferno è la sua totale man-canza (io venni in loco d’ogni luce muto, V, 28) a produrre inverse ma non minori difficoltà. Vero è che queste vengono via via superate per l’adeguarsi all’oscurità degli occhi del pellegrino (oltreché per la pre-senza di fonti di luce secondarie, fiamme ad esempio), ma altrettanto avviene in Paradiso, in forza del progressivo avvalorarsi della sua vista (Pd XXXIII, 112) e, beninteso, dell’anima.

7 Il termitaio, in «L’Asino d’oro», n. 4 (1991), pp. 117-121; oggi in Un’antologia della critica, cit, pp. 76-90.

8 Cavaglion allude, a quest’ultimo proposito, a Pd XVII 112-120, un po’

libera-mente parafrasando i dubbi che assalgono Dante dopo aver ascoltato le parole di Cac-ciaguida: «Sarò mai creduto? Come posso rendere ciò che ho visto e vissuto?». Le esitazioni del pellegrino, tuttavia, vertono sull’opportunità, non già sulla possibilità, di comunicare in poesia ciò ci cui è stato testimone. Egli sa che, dovesse scriver tutto,

a molti fia sapor di forte agrume (v. 117), e rischierebbe di precludersi la possibilità di

trovare asilo. In altri termini: Dante non teme, in Pd XVII, di non essere creduto; teme piuttosto di esserlo!

9 Lo schema è costante, numerosissime le occorrenze. Dante-pellegrino giunge a

un temporaneo accecamento (Pd XXV, 118-120) nel tentativo di scorgere il corpo di S. Giovanni Evangelista, rimasto in realtà sulla terra. Ma già in Purgatorio, ogni qual-volta un ministro celeste gli si para innanzi, egli è costretto dalla soverchia luminosità ad abbassare o stornare lo sguardo: è il caso, ad esempio, dell’angelo nocchiero in Pg II, 37-39.

Nel brano sopra citato, Levi rievoca «la notte» che seicentocin-quanta persone, ebrei di tutte le età, trascorsero in attesa della depor-tazione, cioè della morte certa. Fra di essi, il narratore: la notte ch’io

passai con tanta pièta (If I, 21). L’oscurità, che da fisica si fa metaforica,

ricorre nel primo capitolo di SQU a connotare la condizione dei

depor-tati: «a notte alta, in mezzo a una pianura buia e silenziosa» si ferma definitivamente il convoglio (p. 18); «la notte li inghiottì, puramente e semplicemente» (p. 20) è detto delle donne, dei bambini, degli anziani: di tutti coloro che furono con un rapido sguardo giudicati inabili al lavoro. E poco oltre: «Li vedemmo un po’ di tempo come una massa oscura all’altra estremità della banchina, poi non vedemmo più nul-la.» (p. 21). La difficoltà di vedere, in questi passi, non allude affatto, rovesciandoli, ai celestiali bagliori della terza cantica; si limita a ripro-durre, con tetra analogia, lo sforzo che Dante-pellegrino compie per penetrare con lo sguardo le tenebre infernali. Nella bolgia dei ladri, ad esempio:

Io era volto in giù, ma gli occhi vivi non potean ire al fondo per lo scuro (If XXIV, 70-71)

Gli “occhi vivi” di Dante corrispondono agli “occhi umani” di Levi: quelli, per l’appunto, che non avrebbero dovuto sopravvivere. Il viag-gio stesso verso il campo è definito, con doppia ripresa testuale dai ver-si citati, un «viaggio all’ingiù, verso il fondo» (p. 16: ma sull’immagine converrà ritornare). Il conducente dell’autocarro che trasporta da Au-schwitz a Monowitz una trentina di maschi adulti è definito in chiusa di capitolo «il nostro caronte» (p. 22), con tanto di citazione del guai

a voi, anime prave! (If III, 84) ma senza lettera maiuscola: a togliere al

grigio funzionario dell’orrore nazista qualsiasi vestigio di alone mito-logico. Caronte, si ricorderà, traghetta le anime dannate nelle tenebre

etterne, in caldo e in gelo (If III, 87): e quanto profondamente questo

verso, assieme al suo “fratello” Pg III, 31, fosse impresso nell’animo di Levi, può constatarsi in almeno tre palesi riscritture, distanti per tema, per genere, per data di composizione. Una è saggistica: «Quando ero chimico in servizio effettivo soffrivo caldi, geli e paure (...)» (La lingua

dei chimici II in L’altrui mestiere, Torino, Einaudi, 1985, p. 127); due

(Epigrafe, 1952, v. 13) e “Ho sofferto la frusta / e caldi e geli e la dispe-razione del giogo” (Autobiografia, 1980, vv. 20-21).

Chiedo venia per attardarmi in una serie di noiosi riscontri lessicali. Essi sono a mio avviso dirimenti, nel caso di un autore tanto spesso citato “par cœur”. Fin dalla prima lettura, mi ha colpito nel brano «si conobbe che occhi umani non avrebbero dovuto assistervi e sopravvi-vere» la ripresa di una forma verbale schiettamente dantesca, che non dal fulgido Paradiso proviene ma da un luogo d’ombra: conobbi che

in quel Limbo eran sospesi (If IV, 45). Nell’identica e rara (anche nella Commedia) accezione di “comprendere”, “rendersi conto”;

nell’iden-tica e rarissima (anche nella Commedia!) funzione di reggente di una subordinata oggettiva, il verbo “conoscere” esprime nei due testi una tragica presa d’atto del narratore; ed enuncia la sua straziata partecipa-zione al dolore di cui, da personaggio, è stato testimone: gran duol mi

prese al cuor quando lo ‘ntesi (v. 43). Si noti tuttavia, da parte di Levi,

il passaggio dalla dimensione individuale a quella corale implicita nel passaggio al soggetto impersonale “si”.

Ovunque, in Inferno, Dante pellegrino dovrà apprendere a repri-mere i moti di pietà che lo assalgono, onde conformare il suo sentire all’infallibile sentenza divina: qui vive la pietà quand’è ben morta, lo rimbrotta famosamente Virgilio nella bolgia degli indovini (If XX, 28). Tale sarà, ma per quanto differenti motivi, il destino degli Häftlinge: «Bisogna risalire la corrente; dare battaglia ogni giorno (...) resistere ai nemici e non avere pietà per i rivali; aguzzare l’ingegno, indurare la pa-zienza, tendere la volontà. O anche, strozzare ogni dignità e spegnere ogni lume di coscienza, scendere in campo da bruti contro altri bruti» (p. 116: e si ricordi il ripetuto termine “bruti”) 10.

Ovunque, dicevo, ma non nel Limbo. Virgilio stesso, che di quella condizione è partecipe, è tutto smorto (v. 14) per la pietà (v. 21), quando si tratta di scendere nel primo cerchio. Le anime che lo abitano hanno

10 L’idea della sopravvivenza dei peggiori, spietatamente enunciata in I sommersi

e i salvati, Torino, Einaudi, 1986, pp. 24-52, ha scatenato aspri dibattiti e ferito tante

sensibilità (quelle, ad esempio, di Shlomo Venezia e di Elie Wiesel). Essa era tuttavia già espressa nel capitolo omonimo di SQU, ed esplicitata ogni oltre possibile dubbio nelle note d’autore apposte all’edizione scolastica Einaudi del 1972, poi perfezionata nel ‘76. Vi si legge: «salvato: Il termine, che compare anche nel titolo di questo capi-tolo, ha un valore aspramente ironico. In Lager non si salva il virtuoso, ma l’uomo che “si organizza”, che opprime o soppianta il suo prossimo, che offusca in sé ogni moto di carità o solidarietà».

vissuto virtuosamente, non si sono macchiate di colpa alcuna (ei non

peccaro, v. 34), anzi, nella fattispecie del castello degli spiriti magni,

sono addirittura definite gente di molto valore (v. 44). Benché la loro rettitudine li esenti dai tormenti della “poena sensus”, la mancanza di fede e di battesimo li condanna alla “poena damni” di un desiderio (la visione divina) che non potrà mai realizzarsi: sanza speme vivemo in

di-sio. Si pensi, ora, quale potenza potevano avere questi versi, se

rievoca-ti (anche inconsciamente) nel campo di Fossoli, a dire l’indicibile notte in cui, pur sanza speme, le madri non dismettono il disio della salvezza: e si prendono amorosamente cura dei loro bambini, e scrupolosamente li preparano per un viaggio che sanno senza ritorno.

Spero non scandalizzi osservare che, in If IV, le anime dei giusti condotti in Paradiso da Gesù risorto sono tutte e solo anime di ebrei; e che è a loro proposito che Virgilio pronuncia la celebre frase e vo’ che

sappi che, dinanzi ad essi / spiriti umani non eran salvati (vv. 62-63) 11. Da questi versi, non dalla terza cantica, è tratto il termine che, con l’altrettanto dantesco sommersi (If VI, 5; XX, 3), era fra i titoli proposti dall’autore per la sua prima opera: e diverrà titolo, in effetti, sia del suo capitolo centrale che dell’ultimo, tormentatissimo libro pubblicato in vita 12.

Più volte si è scritto che il campo di Fossoli sarebbe «una sorta di Limbo» 13. È noto che, nel testo di SQU, la “zona grigia” del primo cerchio è esplicitamente citata una sola volta, senza maiuscola, a pro-posito dell’infermeria: «La vita del Ka-Be è vita di limbo» (p. 60). Una menzione corsiva e per così dire estrinseca, riferita alla temporanea sospensione (If II, 52; IV, 45) della “poena damni” del lavoro e delle

11 Sono, col progenitore Adamo, Abramo, Davide, Giacobbe (Israel con lo padre e

co’ suoi nati, v. 59), Rachele e altri molti: il famoso “Limbo dei Patriarchi”. Non una

parola, ad esempio, su Marco Porcio Catone, che pure dal Limbo proviene e sarà, nei primi due canti del Purgatorio, investito di una dignità tale (lui, pagano e suicida) da

far tuttora scandalo tra gli esegeti: si veda fra i molti r. hollander, Purgatoio II: Cato’s

rebuke and Dante’s scoglio, in Italica, vol. 52, n. 3, 1975, pp. 348-363.

12 Si sa che il titolo Se questo è un uomo è stato scelto da Franco Antonicelli, pri-mo editore del testo per la torinese Da Silva. L’origine limbicola e non paradisiaca né

purgatoriale, del titolo I sommersi e i salvati, era già stata notata da v.m. traverSi,

Per dire l’orrore: Primo Levi e Dante, in Dante. Rivista internazionale di studi su Dante Alighieri, V, 2008, pp. 109-125.

13 Così Cavaglion (Il termitaio, cit., p. 76) e sulla sua scorta, tra gli altri, Sabrina Peron, Dante ad Auschwitz: la poetica di Dante nell’opera di Primo Levi, in Itinera, n. 3, 2012, p. 75.

percosse. Numerose, e spesso sottilmente rivelatrici, sono al contrario

le citazioni implicite, talora inconsapevoli.

Ricorre, sia in Dante che in Levi, una speciale forma di preteri-zione che potremmo chiamare “di riserbo”: si tratta dei casi in cui il narratore sceglie di non far parte al lettore di quanto ha visto, udito o detto, non perché ciò sia impossibile da riferire, ma perché riterrebbe indiscreto o inopportuno farlo. Due importanti esempi si trovano nel capitolo “Il viaggio”. Il primo corona il breve paragrafo sulla

«collet-tiva incontrollata follia» che colse all’alba i prigionieri in procinto di essere deportati: «Molte cose furono allora fra noi dette e fatte; ma di queste è bene che non resti memoria» (p. 15) 14. L’altro, a poche pagine di distanza, rievoca il commiato da una donna, (l’innominata Vanda

Maestro), che fu per Primo compagna di studi, di Resistenza, di prigio-nia, di deportazione. Ma non di ritorno:

Ci dicemmo allora, nell’ora della decisione, cose che non si dicono tra i vivi. Ci salutammo, e fu breve; ciascuno salutò nell’altro la vita. Non avevamo più paura.

Le parole scambiate tra un uomo e la donna timidamente amata al momento della definitiva separazione devono restare tra loro. Il letto-re, come qualsiasi persona viva cui non difetti la speranza di rimanere tale, non ha titolo a varcare quella soglia. Non di ineffabilità si tratta, semmai di discrezione. Di ciò non tiene conto Cavaglion, che nella prima delle tre note (31-33) dedicate al commovente passo, parla di un «esempio di preterizione modellato sul dantesco Trasumanar significar

per verba/non si poria (Pd I, 69-70)». Ma in quei celeberrimi versi si

dichiara (con ampio corredo di neologismo, troncamento, latinismo integrale, rejet) l’assoluta indicibilità di un’esperienza mistica che tra-valica l’umano: la distanza di senso, di lessico e di registro dal brano di

SQU è molto, troppo marcata. 15 Credo anch’io, beninteso, che la fonte

14 Fedele al partito preso paradisiaco, Cavaglion cita in nota Pd XXXIII, 57: e cede

la memoria a tanto oltraggio. Approssimandosi la visione suprema, Dante insiste, a più

riprese, su indicibilità e immemorabilità di quanto ha avuto il privilegio di contempla-re. Nel passo di Levi, al contrario, il narratore ricorda fin troppo bene atti e parole cui la disperazione spinse quegli innocenti: e decide di non riferirli. Il termine “memoria”, che nel verso significa “capacità di ricordare”, vale in Levi senz’altro “testimonianza”.

15 Analogamente può dirsi, nella comunque preziosa nota 32, per l’osservazione: «Il

Bea-della reticenza sia dantesca, ma non mi pare necessario arrampicarsi fin lassù per scovarla:

parlando cose che il tacere è bello sì com’era il parlar colà dov’era (If IV, 104-105) 16

Il reiterato verbo “parlare”, equivalente al reiterato “dire” di Levi, regge l’identico oggetto “cose”, nell’un brano come nell’altro specifi-cato da una relativa che non vale “indicibili” ma “irripetibili”. Anima entrambi i contesti narrativi il senso di un sodalizio (la bella scola, nel

caso di Dante) sul punto di infrangersi per sempre: votato il narratore al ritorno; all’eterna permanenza l’interlocutore (i poeti pagani sono confinati al primo cerchio; Vanda, come troppi altri, non uscirà viva dal campo). Pure, un barlume di speranza irradia da quelle parole ta-ciute, che dà forza ai personaggi di vincere, momentaneamente alme-no, il terrore dello sconfinamento cui si accingono. Eccoci, dunque, di nuovo nel Limbo: e in un momento liminale che ben si addice al commiato struggente, al capolinea dell’infame tradotta. Si sprofonda, varcato questo limite, nell’Inferno propriamente detto. 17

trice»: i due non si salutano affatto in Pd XXXI, tant’è che il pellegrino stupisce (veder

credea Beatrice e vidi un sene v. 59) nello scoprirsene separato. Alla sublime orazione che

indi le scioglie in guisa di ringraziamento (dove salute, v. 80, non vale “saluto” ma

“sal-vezza”), quella risponde silenziosa, con un breve sorriso e un breve sguardo (vv. 91-92).

16 Cui può aggiungersi, reminiscenza secondaria: parlando più assai ch’io non ridico (If VI, 113).

17 Notoriamente intrisa di Dante è la breve poesia 25 febbraio 1944: “Vorrei credere qualcosa oltre / Oltre che morte ti ha disfatta / Vorrei dire la forza / Con cui deside-rammo allora / Noi già sommersi, / Di potere ancora una volta insieme / Camminare liberi sotto il sole” Il v. 2 è prelevato dall’antinferno (ch’io non averei creduto / che morte

tanta n’avesse disfatta, If III, 56-57: con inopinato passaggio dall’innumerevole dantesco

al singolare “ti”); del termine-chiave sommersi si è già detto (ma è notevole che, qui, al v. 3, esso accomuni piuttosto che distinguere l’io “salvato” e il tu della donna); il dolce

mondo, infine, viene dal congedo di Ciacco in If VI, 88 (il cerchio dei golosi è connesso

all’ossessione del “fango” che pervade SQU, in specie il capitolo Il lavoro) ma anche dal

se ottativo di Farinata (If X, 82), modello di dignità. Perfino l’anadiplosi di oltre, vv. 1-2,

che dice la velleità di scavalcare con la fede le colonne d’Ercole della morte (ed è l’unica occorrenza di questa figura, assai frequente in prosa, nell’opera poetica di Levi) credo provenga da acciò che l’uom più oltre non si metta (If XXVI, 110), che sarà l’unico verso di ben sei terzine (vv. 103-117) ad affiorare alla memoria di Primo nel capitolo Il canto

di Ulisse. Nel capitolo Cromo di Il sistema periodico, rievocando l’effetto salvifico

Il viaggio non durò che una ventina di minuti. Poi l’autocarro si è fer-mato, e si è vista una grande porta, e sopra una scritta vivamente illumi-nata (il suo ricordo ancora mi percuote nei sogni): ARBEIT MACHT FREI, il lavoro rende liberi.

L’antecedente letterario di queste righe è talmente chiaro, talmente noto, da renderne superflua la citazione. Appena un paragrafo dopo, la conferma: «Questo è l’inferno. Oggi, ai nostri giorni, l’inferno deve essere così (...)» (p. 23). Il raffronto con le parole di colore oscuro che Dante vide sulla porta di If III, 1-9, s’impone immediatamente sul pia-no della suggestione, molto mepia-no sul piapia-no testuale: il verbo “vedere” è nei due brani, ma in diverso tempo, con altro soggetto e altro oggetto; l’avverbio “sopra” traduce in lingua d’uso l’aulico al sommo di (pro-cedimento raro nella prosa di Levi, che di arcaismi, specie se dante-schi, fa largo uso); scritte si nominalizza in “una scritta”; Dante infine, malgrado l’abbondante transito di anime, non dice “grande” la porta dell’Inferno; anzi, non la aggettiva affatto. A reprimere, o quantomeno a moderare, il pur trasparente impulso citazionista, dev’esser stato il ri-cordo della seconda terzina di If III, che all’origine divina della voragi-ne infernale è dedicata. Nessuna giustizia, infatti, mosse ad Auschwitz i disumanizzati carnefici; nessuna sapienza li abitava se non fanatica-mente distorta; nessun amore infine, ma un odio feroce, irredimibile. Al rigoroso ordine morale che dalla Sacra Trinità procedeva, subentra in Lager un’assurda casualità; il criterio che presiedeva alla dispensa di castighi e ricompense risulta, nonché ignorato, sovvertito 18.

Una volta di più, la parentesi è rivelatrice. Vi spicca un uso del verbo “percuotere”, potentemente metaforico perché in dipendenza da un sogget-to immateriale (“il cui ricordo ancora mi percuote nei sogni”) che diverrà negli anni caratteristico della prosa leviana 19. L’origine mi pare indubbia:

tratto il mondo intorno a me, ed esorcizzato il nome e il volto della donna che era discesa agli inferi con me e non era tornata.» (Torino, Einaudi, 1975, p. 157). Il ricordo di Dante permea (quasi nostalgia di un’altra lingua, di un’altra vita possibile) il ricordo di Vanda.

18 Ineccepibili, al riguardo, le osservazioni di G. aGamben, Quel che resta di

Au-schwitz. L’archivio e il testimone, Torino, 1998, p. 96 e passim e di f. SuSteric, cit., p. 61. Ma già C. Cases, nel 1987, definiva l’inserimento di Dante in Auschwitz come: “il baluginare dell’ordine linguistico nel mondo del caos e del nulla” (L’ordine delle cose e

l’ordine delle parole, in Primo Levi: un’antologia della critica, cit., p. 14).

19 Si veda, a titolo di esempi, da Il sistema periodico, Potassio: «la notizia mi percos-se le midolla» (p. 57); Cerio: «percossi di angoscia fino in fondo alle midolla.» (p. 147);

Ora incomincian le dolenti note a farmisi sentire, or son venuto