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Le conseguenze delle leggi del 1938 sulla vita delle persone

SULL’INEFFABILITÀ DANTESCA IN “SE QUESTO È UN UOMO”

3. Come la voce di Dio

Nessun capitolo di SQU quanto “Il canto di Ulisse” (l’undicesimo dell’edizione definitiva, ma il secondo ad essere composto, nel febbra-io 1946) ha fatto scorrere fiumi di inchfebbra-iostro. Se mi permetto di farne parola in questa sede, non è certo nell’illusione di avere qualcosa da aggiungere, ma solo per rendere pubblico omaggio a una pagina che considero tra le più alte del nostro Novecento, che periodicamente rileggo con rinnovata e crescente emozione; che puntualmente, da in-segnante di lingua, infliggo ai miei attoniti studenti.

Si è col tempo addensata, attorno a quelle pagine, una “leggenda della spontaneità” non dissimile (ma specialmente accentuata) da quel-la che aleggia sull’intero libro. Levi stesso ha contribuito a edificar-la, rievocando in più occasioni lo stato di febbrile esaltazione in cui aveva composto i vari segmenti della sua prima opera: «Scrivevo di getto, senza un sistema e senza neppure la consapevolezza che stavo scrivendo un libro (...) Scrivevo la notte, nell’intervallo del pranzo di mezzogiorno: ho scritto quasi tutto il capitolo Il canto di Ulisse nella mezz’ora da mezzogiorno e mezzo all’una» 40. In un ricordo di tre anni successivo, congedata l’attenuazione del “quasi”, si aggiunge il mito-logema del ne varietur: «(...) ho mangiato in fretta e furia in un quarto d’ora quello che mi serviva la mensa [di fabbrica, ad Avigliana] e poi

39 Sul piano dell’ideologia dantesca, ciò che esce dalla porta di questo canto rientra abbondantemente dalle finestre di Par XVIII e del trattato De Monarchia. Se la violenza mirante alla divisione è duramente condannata, specularmente san-tificata è la violenza di segno opposto, intesa a ripristinare l’unità del corpo civile e della compagine religiosa. Avviene, tuttavia, che la poesia superi la poetica: e mentre l’inumanità delle gesta (e dei gesti) marziali è smascherata in Malebolge

con comica icasticità e feroce dovizia di dettagli (si ricordino almeno Inf XXI,

118-139 e XXII, 1-12); nulla di esse che non sia remoto accenno, traslato, figura-zione retorica compare nel resto del poema: men che meno nel cielo di Marte, dove sperticate se ne cantano le lodi. Lo iato risulta evidente dagli studi di John Barnes, tesi peraltro a dimostrare una tesi diametralmente opposta a quella qui accennata:

cfr J.c. barneS - d. o’connell (a cura di), War and peace in Dante, 2015, in specie

pp. 11-32 e 73-94.

mi sono chiuso nella mia cameretta e ho scritto questo capitolo e l’ho scritto così com’è, non l’ho più ritoccato» 41.

Disponiamo oggi, grazie alle precoci indicazioni di Giovanni Tesio e allo straordinario lavoro che Marco Belpoliti è venuto negli anni per-fezionando intorno all’opera leviana tutta, di dati concernenti quattro distinte fasi di elaborazione 42. Ne emerge un quadro piuttosto diverso da quello delineato dell’autore: fatto di frequenti ripensamenti e di ag-giunte rilevanti (sul piano almeno dell’intertestualità) che tuttavia non alterano la struttura né il tono generale del testo. Si tratta, nelle parole di Belpoliti, di «uno dei capitoli più corretti» (Opere III, p. 1469).

Del resto, in una conversazione con Germaine Greer del novembre 1985, fu Levi medesimo a riconoscere: «Durante questi quarant’anni, ho costruito una sorta di leggenda attorno a quest’opera, affermando che l’ho scritta senza pianificazione, di getto, senza meditarci sopra. Ora che ci penso, capisco che questo libro è colmo di letteratura, lette-ratura che ho assorbito attraverso la pelle anche quando la rifiutavo e la disdegnavo» (Opere, III, p. 570).

Particolarmente “colmo di letteratura” sarà, per ovvie ragioni, il ca-pitolo che esplicita l’effetto (sconvolgente, e in certa misura salvifico) prodotto in Lager dalla parola dantesca.

Il capitolo è breve; due personaggi lo dominano: caso unico, con la parziale eccezione di Kraus, nel “termitaio” di SQU. Altrettanto chiara e bilanciata ne è la struttura: ad una prima parte che chiamerò “prolo-go”, di quattro pagine e a sua volta bipartita, fanno seguito le quattro pagine dell’episodio vero e proprio.

La transizione fra le due parti è brusca, sottolineata dalla spaziatura

41 maSSimo dini - pier mario faSanotti, Io e la mia famiglia, in Panorama, 26 aprile 1987.

42 G. teSio, Su alcune giunte e varianti di ‘Se questo è un uomo’, in Piemonte

let-terario dell’Otto-Novecento, Roma, 1991, pp. 173-196. Belpoliti, benemerito curatore

delle Opere complete, il cui terzo ed ultimo volume è uscito per Einaudi nel maggio di questo 2018, ha sviluppato nella “Nota al testo” di SQU (in Opere I, pp. 1455 ss.) le preziose osservazioni già contenute in Primo Levi di fronte e di profilo, Milano Guanda, 2015 (particolarmente utili le pp. 46-64). Quanto alle fasi di elaborazione menzionate, si tratta di: un dattiloscritto inviato dall’autore a sua cugina Anna Yona, nata Foa, nei primi mesi del ’47 (studiato da Belpoliti e in gran parte corrispondente alle bozze dell’edizione Da Silva dello stesso anno, menzionate da Tesio); un quaderno autografo dal titolo “Per Einaudi” contenente, oltre a testi destinati ad altre opere, le aggiunte pensate per l’edizione Einaudi del ’58 (citato da Tesio con perizia di dettaglio, ma purtroppo con parsimonia); le bozze dell’edizione stessa.

(al solito, due righe bianche); dalla punteggiatura (i tre paragrafi dell’o-pera che si aprono con i puntini di sospensione sono tutti qui: e tutti nella seconda parte); dalla rottura sintattica (un sintagma nominale che fa periodo a sé):

… Il canto di Ulisse. Chissà come e perché mi è venuto in mente: ma non abbiamo più tempo di scegliere, quest’ora già non è più un’ora.

Malgrado l’effetto di repentina folgorazione, molti dei temi che animeranno l’affannosa rincorsa memoriale del dettato dantesco sono discretamente annunciati nel prologo: indizio, questo, di raffinata co-struzione letteraria.

Nella sua prima parte, il prologo introduce i personaggi. Una ambi-valente atmosfera da interludio, di parziale, contrastato sollievo,

per-vade il capitolo fin dalle prime righe. Si è appena prodotto (in Esame

di chimica) il passaggio ad un lavoro meno duro, che contribuirà a

sal-vare la vita del narratore. I sei membri del Kommando chimico sono intenti a «raschiare e pulire una cisterna seminterrata»: se da un lato è un privilegio, perché sono soli, dall’altro l’ambiente «freddo e umido» è più ostile di quello del laboratorio. L’antitesi diviene, nel passaggio dall’edizione Da Silva (1947) alla prima einaudiana (1958), assai più marcata e consapevole. La giunta lapidaria «Era un lavoro di lusso», è abbondantemente compensata dalla nuova frase che chiude il paragra-fo: «La polvere di ruggine ci bruciava sotto le palpebre e ci impastava la gola e la bocca con un sapore quasi di sangue» (p. 138). Solo ades-so, per effetto di questa tetra allusione gustativa, ci accorgiamo che il «piccolo portello» che a stento illumina il vano ripete il breve pertugio della cella di Ugolino.

Al minimo segnale di intrusione (la corda che fungeva da scala si è mossa), i prigionieri si allarmano, ma una lieta sorpresa li attende: è Jean, il Pikolo, non uno degli aguzzini 43. Era il più giovane del Kom-mando 98, pur avendo già ventidue anni 44. Il dettaglio dell’età è di

43 Egli stesso ci informa, in un libro di memorie dettato a Jean-Marc Dreyfus dopo la morte di Levi, che «il termine Pikolo non apparteneva al vocabolario del campo, era

un’invenzione di Primo», J. Samuel, Il m’appellait Pikolo, trad. it. di Claudia Leonetti,

Mi chiamava Pikolo, Milano, 2008, p. 6. Nel dattiloscritto di Anna Yona, il termine era

scritto all’italiana: “Piccolo”, il che toglie ogni dubbio sull’origine aggettivale.

primaria importanza, giacché la funzione di aiutante del Kapo, molto spesso, era svolta da ragazzi tra i dodici e i sedici anni, i quali, nelle pa-role di Jean Samuel, «servivano anche per sfogare i loro bassi istinti». Esisteva un nomignolo, in campo, per questi schiavi sessuali: “Piepel”. Crearne uno nuovo, semplice e affettuoso, equivale a mondare il per-sonaggio di Jean da ogni sospetto di questa natura, nonché a sottrarlo all’aspro gergo del Lager. La stessa definizione che ne dà: «Pikolo, vale a dire fattorino-scritturale» (SQU, p. 138) è assai più benevola di quel-la fornita da Samuel stesso: «Ho fatto solo da assistente, segretario, ‘domestica’» (Mi chiamava, p. 26). Dopo aver affermato che la carica

costituiva «un gradino già assai elevato nella gerarchia delle Prominen-ze», Levi tiene a precisare come Jean non ne abusasse, anzi la eserci-tasse con discrezione, persino con umanità: «una sua parola, detta nel tono giusto e al momento giusto (...) già più volte era valsa a salvare qualcuno di noi dalla frusta o dalla denunzia alle SS» (p. 140). Traspare da queste parole l’intento di esentare l’amico dal giudizio globalmente negativo formulato sui “prominenti ebrei” giusto due capitoli prima 45.

È mia convinzione che il ritratto di Jean sia un mitologema: egli stesso, pur lusingato, non vi si riconosceva. Vi convergono, consape-volmente o meno, tratti associati fin dalla tradizione omerica al perso-naggio di Ulisse, che in qualche misura egli vale qui a prefigurare. L’a-stuzia, anzitutto, e la prestanza fisica; ma anche il coraggio, la generosi-tà verso i «compagni meno privilegiati», e soprattutto l’ostinazione con cui si oppone a forze oscure e quasi divine: «Era scaltro e fisicamente robusto, e insieme mite e amichevole: pur conducendo con tenacia e coraggio la sua segreta lotta individuale contro il campo e contro la morte (...)» (p. 139).

Il ruolo dell’antagonista, nel prologo, è svolto dal Kapo, Alex. An-che qui, il travestimento comincia dal nome (An-che secondo Samuel era Oscar). Naturalmente era analfabeta. Aveva ucciso, era stato condannato a morte: ma la condanna era stata commutata in ergastolo. Il ritratto che i due reduci ne danno corrisponde nella sostanza, ma le parole di Levi pongono la sprezzante espressione di Samuel («era un bruto ottuso e tronfio della propria superiorità razziale») su tutt’altro piano:

45 «I prominenti ebrei costituiscono un triste e notevole fenomeno umano. In loro convergono le sofferenze presenti, passate e ataviche, e la tradizione e l’educazione di ostilità verso lo straniero, per farne mostri asocialità e insensibilità.» (capitolo “I sommersi e i salvati”, p. 114).

Alex aveva mantenuto tutte le sue promesse. Si era dimostrato un be-stione violento e infido, corazzato di solida e compatta ignoranza e stu-pidità, eccezion fatta per il suo fiuto e la sua tecnica di aguzzino esperto e consumato. Non perdeva occasione di dichiararsi fiero del suo sangue puro e del suo triangolo verde (...)

Il personaggio di Alex ha tendenza, in SQU, alla trasposizione miti-ca; la sua figura sembra incarnare quella grottesca inversione dei prin-cipi morali che informa la vita e la gerarchia del Lager 46. Nel capitolo precedente era associato ai demoni dell’Inferno dantesco: «Alex vola gli scalini: ha le scarpe di cuoio perché non è ebreo, è leggero sui piedi come i diavoli di Malebloge.» (p. 136) 47. Si tratta, mette conto osserva-re, di una delle poche citazioni dantesche esplicite attestate in tutti gli stadi di lavorazione del testo. In un’intervista con la traduttrice france-se Catherine Petitjean dell’8 marzo 1980, Levi citerà questo parallelo come quello più immediato, aggiungendo di averne parlato ad altri reduci che avrebbero subito confermato: «sì, sì: era proprio come in Dante» (Opere III, p. 907).

Nel brano sopra citato, tuttavia, più che Dante fa capolino Ome-ro. (I Ciclopi, si ricorderà, sono detti “violenti” e “privi di leggi” fin dalla narrazione dello sbarco di Ulisse e compagni (Odissea, libro IX, vv. 106-107). La paradossale forza di Alex è la compattezza della sua “ignoranza” e della sua “stupidità”: ora, i Ciclopi ignorano l’agricoltu-ra, non sanno costruire navi né abitazioni, vivono isolati gli uni dagli altri in oscure spelonche, comandando da despoti su mogli e figli (vv. 114-115; 122-129; 187-189). Polifemo, in specie, si dimostra “fiero del suo sangue puro” nell’esclamare che i Ciclopi non temono Zeus né dio

46 «Fu la prima delusione: era ancora un ‘triangolo verde’, un delinquente profes-sionale, l’Arbeitsdienst non aveva giudicato necessario che il Kapo del Kommando chimico fosse un chimico» (Esame di chimica, p. 128).

47 Il riferimento è ad If XXI, 33: con l’ali aperte e sovra i piè leggero. Siamo nella quinta bolgia, quella dei barattieri (delinquenti professionali, per l’appunto): il diavo-lo in questione, evidente parodia angelica, scaraventa nella pece bollente un sommo magistrato di Lucca. Anche di questo rovesciamento della gerarchia sociale c’è un’eco nel ritratto di Alex, che sghignazza nel vedere umiliati gli intellettuali a lui sottoposti: «– Ihr Doktoren! Ihr Intelligenten!» (p. 139). Al danno, il vispo demone aggiunge l’i-ronico scherno: ognun v’è barattier fuor che Bonturo (v. 41, riferito alla città di Lucca). Ad analoga modalità di invettiva, ad analoga postura morale, pertiene l’altra citazione di If XXI (vv. 48-49), aggiunta nell’edizione del ’58 al capitolo “Sul fondo”: ...Qui non

alcuno «perché siamo molto più forti» (vv. 275-276): e sembrano pa-role hitleriane. Quanto al “mantenere le promesse”, espressione aspra-mente ironica, si ricordi che se Odisseo porta con sé l’otre di vino, e dispone di sorvegliare la nave, è perché immaginava «che avremmo trovato un uomo di gran forza / selvaggio e ignaro di giusti pensieri e di leggi» (vv. 214-215) 48. Ma Polifemo è anche stupido, o almeno non scaltro quanto Odisseo, che pure prova ad ingannare chieden-dogli dove avesse ormeggiato la nave (vv. 279-280). Finisce viceversa ingannato, con tanto di beffa squisitamente linguistica. Così, nella lun-ga schermaglia seduttiva che l’intero Kommando 98 segue con il fiato sospeso, è il “piccolo” Jean ad avere la meglio sul “bestione violento”: «alla fine la difesa dell’istrice fu penetrata, e Pikolo confermato nella carica, con soddisfazione di tutti gli interessati» (p. 140). Ricorderemo infine, e lo terremo a mente giungendo alla parte più controversa del capitolo, che i Ciclopi di Omero (diversamente da quanto riportato nella Teogonia di Esiodo) sono figli del solo Poseidone, lo Scuotiterra, divinità collerica e vendicativa.

Nella sua seconda parte, il prologo pone le premesse dell’evento. Primo viene scelto da Jean per la gradita “corvée” di distribuire il rancio: potrà, temporaneamente, uscire dalla cisterna. All’esterno, un ambiente finalmente propizio (il sole splendente, i Carpazi innevati in lontananza) e la paterna esortazione di Jean a non avere fretta, produ-cono un ulteriore sollievo. La via scelta da Pikolo per raggiungere le cucine è la più lunga tra le praticabili: ci sarà tempo, un’ora circa, per dare la stura a sentimenti normalmente preclusi. Anzitutto, e fra tutti il più odissiaco, la nostalgia: «Parlavamo delle nostre case, di Strasburgo e di Torino, delle nostre letture, dei nostri studi. Delle nostre madri: come si somigliano tutte le madri!» (p. 141).

Non mancano, come nel viaggio di Ulisse, incontri che potrebbero essere fatali: Rudi, la SS in bicicletta; Frekel, la spia che «fa il male per il male». Non mancano neppure gli incontri umani: Limetani, il romano, che scambia con Primo qualche parola. Non manca, soprat-tutto, la curiosità intellettuale, il persistente desiderio di seguire virtute

e canoscenza: Jean vorrebbe imparare l’italiano; Primo, assurdamente,

si offre di insegnarglielo. Lì, subito, in quella piccola ora di requie. Di

48 Cito dalla traduzione di G. Aurelio Privitera, pubblicata per la prima volta dalla Fondazione Lorenzo Valla nel 1981.

colpo, l’impossibile diventa possibile: «non possiamo? Possiamo.» I due giovani si sono ricordati della comune semenza.

È a questo punto che la transizione sopra ricordata si produce: soc-corre, misteriosa ispirazione, il ricordo scolastico del “Canto di Ulis-se”. Il personaggio di Primo non capisce, né ha tempo per pacatamente considerare, per quale motivo abbia pensato proprio a quel testo. Ma il narratore Levi lo sa, né mai potrà dimenticarlo: e alla rivelazione contenuta nell’orazion picciola ha sapientemente preparato il lettore.

Assistiamo, di lì in poi, ad una progressione vertiginosa, un folle

volo: alla pretesa di insegnare una lingua in quelle condizioni e in quel

poco tempo, si aggiunge quella di ricordare, tradurre e interpretare un intero canto della Commedia. Anzi, perché no, la Commedia stessa:

… Chi è Dante. Che cosa è la Commedia. Quale sensazione curiosa di novità si prova, se si cerca di spiegare in breve che cosa è la Divina Commedia.

Miracolosamente, Jean è «attentissimo». Col progredire della re-citazione, i vuoti di memoria si infittiscono; le difficoltà del tradurre («povero Dante e povero francese!») s’ingigantiscono: l’esaltazione, tuttavia, continua a crescere in proporzione. Al cospetto dei versi de-cisivi, è ben Primo, da maestro, ad implorare il suo allievo: «Ecco, attento Pikolo, apri gli orecchi e la mente, ho bisogno che tu capisca». Quando Jean gli chiede di ripetere, Primo commenta nell’unico modo possibile, ossia invertendo sul piano emotivo la relazione docente-di-scente: «Com’è buono Pikolo, si è accorto che mi sta facendo del bene» (p. 144). La frase seguente, giustamente celebrata, in cui il narratore ipotizza che Jean abbia «ricevuto il messaggio», e la cui squisita lette-rarietà risalta nell’anafora di un verbo-chiave del libro (dall’individuo: «lo riguarda», il suo oggetto si dilata: «riguarda tutti gli uomini in tra-vaglio», per subito restringersi al sottogruppo dei deportati ebrei: «e noi in specie» e, in esso, al sodalizio che sta nascendo: «riguarda noi due»), è stata aggiunta nell’edizione del ’58 49.

49 Si è parlato di calco dantesco al proposito del preziosismo “travaglio”, che Cava-glion (nota 16 al capitolo) definisce «parola-chiave» di SQU. Non è impossibile – an-che se occorre fare la tara della forma femminile, dovuta forse all’attrazione dei neutri plurali – che operi qui una reminiscenza di If VII, 19-20: Ahi giustizia di Dio! Tante chi

stipa / nove travaglie e pene quant’io viddi? (per l’adattamento al contesto del Lager,

Il libro pubblicato da Samuel e Dreyfus, a sessantuno anni di di-stanza dalla prima edizione di SQU, sembrerebbe peraltro smentirla. In esso trapela, pur rispettosamente rattenuto, lo stupore dell’uomo di solido buon senso di fronte all’importanza che un giovane depor-tato si permetteva il lusso di annettere al ricordo e all’interpretazione

di una poesia: «Un episodio della nostra storia comune essenziale nel suo libro e che pure, curiosamente, non lo è stato per me, che ne con-servo un ricordo differente (...)» (Mi chiamava, cit., p. 29). Per lui, assai più significativa era stata l’occasione del primo incontro: venti minuti di intimità e reciproche confidenze, che l’alsaziano rievoca con toni, e persino con contenuti, analoghi a quelli che Levi attribuisce alla passeggiata dantesca: «Ci siamo raccontati di noi, delle nostre origini, abbiamo parlato delle nostre famiglie (...) Per me è stato un momen-to fondamentale, indimenticabile» (ivi, p. 30). In SQU, al contrario, l’episodio non è menzionato che incidentalmente: «Da una settimana eravamo amici: ci eravamo scoperti nella eccezionale occasione di un allarme aereo (...)» (p. 140). Samuel ha dichiarato a Dreyfus di aver più volte chiesto all’amico, dopo la guerra, se si ricordasse di quei momen-ti. Non se ne ricordava.

Tali sono gli iati della memoria; tali le sue fallacie. Levi insiste in-dimenticabilmente, a proposito del verso ma misi me per l’alto mare

aperto 50, sull’esperienza marinara di Pikolo, ben conscio di ciò che si

prova «quando l’orizzonte si chiude su stesso, libero dritto e semplice, e non c’è ormai che odore di mare: dolci cose ferocemente lontane» (p. 143). Notevole, nel passo, il rovesciamento semantico del verbo “chiu-dersi”, per giunta “su se stesso”: attribuito al soggetto “orizzonte”, esso viene a significare apertura, annullamento delle barriere, incontra-stata libertà. Nella metonimia che apre la triade aggettivale, è appunto l’orizzonte (non colui che lo contempla) ad essere “libero”. Senonché, alla data in cui la conversazione si svolse, Jean Samuel non aveva mai visto il mare; né mai era stato in Liguria 51.

L’essenziale, tuttavia, non è sfuggito. E ha resistito alla prova degli

viene evocato il vortice sottomarino Cariddi, la cui attinenza con la figura di Ulisse, e con il naufragio che chiude canto e capitolo, mi pare superfluo sottolineare.

50 Quanto e con quanto acume risemantizzato, ha mostrato da par suo p. boitani,

L’ombra di Ulisse: figure di un mito, Bologna, 1992, p. 184.

51 Cfr. Mi chiamava Pikolo, cit, pp. 150-151; e in SQU, «È stato in Liguria un mese, gli piace l’Italia, vorrebbe imparare l’italiano» (p. 141).

anni. Rievocando l’episodio nel capitolo “L’intellettuale ad Auschwitz” de I sommersi e i salvati, cioè nel 1987, Levi fa il bilancio dei successivi