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Le conseguenze delle leggi del 1938 sulla vita delle persone

SULL’INEFFABILITÀ DANTESCA IN “SE QUESTO È UN UOMO”

2. I seminatori di odio

Consideriamo ora il secondo e più pregnante livello di preterizione: il topos dell’ineffabilità.

Il personaggio-poeta che, con l’autore della Commedia, condivide

sente, fino all’ultimo istante di vita, la possibilità di un pentimento.

21 In L’altrui mestiere, cit., pp. 109-114. Sul finire del canto del Limbo, ci si im-batte in una preterizione che potremmo dire quantitativa: io non posso ritrar di tutti a

pieno / però che sì mi caccia il lungo tema / che molte volte al fatto il dir vien meno (IV,

145-147). Pochi passi si adattano con tanta precisione a quel “termitaio” di ritratti, spesso abbozzati, talora precisissimi, che è SQU. Appunto in ciò risiede il mio parziale disaccordo dalla tesi di Pertile sopra ricordata (nota 2): la vita del Lager costituisce anche, per Levi, una «gigantesca esperienza biologica e sociale» (p. 109) capace di far emergere precise indicazioni sulla natura umana e sulle tendenze individuali. Si ricordi che la stessa distinzione fra i “sommersi” e i “salvati” esiste già nella «vita comune», ancorché con minore evidenza (p. 110). Questa paradossale funzione di reattivo può essere accostata al ruolo, spietato, che l’Inferno dantesco svolge nell’inchiodare ciascu-na anima ad un suo peccato prevalente, estremizzandone il carattere e facendo di ogni individuo, reale o fittizio che fosse, un exemplum morale.

il nome di Dante Alighieri, non fa che tentare di richiamare l’imme-morabile alla memoria; di comprendere ciò che travalica le soglie del comprensibile: ma soprattutto di esprimere, in un volgare che “et mu-liercule” possano intendere, ciò che non può, neppure approssimati-vamente, essere espresso 22. Non sorprende che, tra le memorie liceali, questa abbia più di ogni altra “percosso” il giovane Levi, quando si

trovò sbalestrato in un luogo inconcepibilmente “altro”, cui si accede-va lasciando ogni speranza e al quale ogni contatto col dolce mondo dei vivi e dei liberi era ferocemente precluso:

Noi non ritorneremo. Nessuno deve uscire di qui, che potrebbe por-tare al mondo, insieme col segno impresso nella carne, la mala novella di quanto, ad Auschwitz, è bastato animo all’uomo di fare dell’uomo

La prima e fondamentale impossibilità che lega SQU alla

Comme-dia, è dunque la sussistenza stessa dell’opera: il fatto che l’autore sia

tornato, e che possa far parola.

Si afferma comunemente (cfr. sopra, l’autorevole opinione di Ca-vaglion) che Primo Levi avrebbe invertito di segno la preterizione dantesca, considerata in prevalenza, quando non esclusivamente, ap-pannaggio del Paradiso. Come il poeta cristiano si dichiarò incapace di comunicare le gioie estatiche della visione divina, così lo scrittore ebreo constatò l’insufficienza della lingua di fronte all’eccesso del do-lore, dell’umiliazione, dell’annientamento fisico e morale. È questo un

luogo comune della critica leviana, sedimentato e indiscusso 23.

Rileggiamo dunque il brano, dal capitolo “Sul fondo”, in cui più esplicitamente è dichiarata l’indicibilità del Lager:

Allora per la prima volta ci siamo accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa: la demolizione di un uomo. In un attimo, con intuizione quasi profetica, la realtà ci si è rivelata: siamo arrivati al fondo. Più giù di così non si può andare: condizione umana più misera non c’è, e non è pensabile.

22 Tra i numerosi studi sulla preterizione dantesca, mi permetto di segnalare come

indispensabili: m. colombo, Dai mistici a Dante: il linguaggio dell’ineffabilità, Firenze,

1987 e, soprattutto, G. ledda, La guerra della lingua. Ineffabilità, retorica e narrativa

nella “Commedia” di Dante, Ravenna, 2002.

23 Si veda, tra i molti, Traversi (cit, p. 122), che aveva peraltro ottimamente notato la dipendenza della “mala novella” leviana dalla sconcia novella di If XVIII, 57.

Si suole accostare a questo passo il primo canto del Paradiso, e in particolare: Nel ciel che più della sua luce prende / fu’io, e vidi cose che

ridire / non sa né può chi là su discende (Pd I 4-6). Talora si aggiungono,

ad abundantiam, Pd XXXIII, 106-108: Ormai sarà più corta mia favella

/ pur a quel ch’io ricordo, che d’un fante / che bagni ancor la lingua a

la mammella 24, e Pd XXXIII, 121-122: O quanto è corto il dire e come

fioco / al mio concetto 25.

L’accostamento, per canonico e variamente declinato che sia, appa-re filologicamente debole. Malgrado l’accumularsi e il ripetersi delle citazioni, i riscontri lessicali scarseggiano: in Pd XXXIII, 108 figura, è vero, la parola “lingua”, ma in accezione inequivocabilmente anato-mica.

Fatto si è che il topos dell’ineffabilità figura fin dai primissimi versi

del poema: chi non ricorda Ahi quanto a dir qual era è cosa dura (If I, 4), riferito non allo splendore paradisiaco, ma all’oscurità della selva della perdizione? E più volte ricorre, anche nella prima cantica, per intensificarsi via via che ci si avvicina alla Giudecca.

È mia convinzione che la fonte specifica (consapevole o meno: e tanto più significativa se inconsapevole) del brano sopra citato sia l’at-tacco del canto XXVIII dell’Inferno:

Chi porria mai, pur con parole sciolte dicer del sangue e delle piaghe appieno ch’io ora vidi, per narrar più volte? Ogne lingua per certo verria meno per lo nostro sermone e per la mente ch’hanno a tanto comprender poco seno.

I riscontri, stavolta, sono di immediata evidenza. Al sintagma “la nostra lingua” di Levi corrisponde sul piano del significante ogne

lin-gua; su quello del significato lo nostro sermone. L’insufficienza delle

possibilità espressive è posta, nell’uno testo come nell’altro, in termini categorici e negativi: al “mancare di parole” di Levi corrispondono in Dante, sul piano del significante, le parole della prosa (sciolte dai vincoli del metro e della rima); su quello del significato l’inadeguatezza (verria meno) di ogni possibile modulo espressivo e la scarsa capienza

24 Così Susteric, cit., p. 70, nota 5.

(poco seno) sia della lingua che dell’intelletto umano (mente, che altro-ve nella Commedia vale “memoria”). Persino le locuzioni avaltro-verbiali si rispondono: “allora” corrisponde a ora (storicizzato dal vidi); “per la prima volta” riecheggia l’inanità di più volte.

Nessuna inversione ha luogo, ma una tragica equivalenza, sul piano del compito comunicativo. Rendere conto appieno del sangue e delle

piaghe di cui è stato testimone in un passato che non cessa di rivivere,

è appunto ciò che Levi, da narratore, sta facendo: dicendoci, come Dante, di non poterlo dire.

Il parallelo, si noti, funziona nei due sensi: è precisamente “la demo-lizione di un uomo” plurale che viene messa in scena nel canto XXVIII dell’Inferno 26. Non per metafora: fisicamente. Con spietata tecnica co-mica, e largo ricorso a termini schiettamente plebei, la poesia di Dante indugia nella descrizione di corpi dilaniati, sbudellati, postumani. La deambulante galleria di atrocità è annunciata (vv. 7-21) da un tortuoso periodo ipotetico che declina, per iperbole, l’incommensurabilità di quello spettacolo con ogni atrocità che la storia avesse fino allora espe-rito. Quand’anche riuscissimo a riunire tutte le vittime che i conflitti antichi e moderni hanno prodotto nella fortunata terra / di Puglia (vv. 8-9: e ammettiamo per brevità che l’espressione valga, pars pro toto, “Italia meridionale”), e ciascuna ostentasse impudica le proprie ferite e amputazioni (e qual forato suo membro e qual mozzo / mostrasse, vv. 19-20), non avremmo del modo della nona bolgia sozzo (v. 21) che una pallidissima idea. Il contesto che innerva questa smisurata preterizione è dunque bellico, concentrazionario, putrido: da fossa comune. Ed im-plica, appo le vittime, una totale perdita di dignità.

Il canto culmina con la spettrale apparizione di un guerriero e poe-ta provenzale: il più poe-talentuoso, entusiaspoe-ta, aristocratico cantore delle armi che la letteratura medievale ricordi. Bertran de Born, ovviamen-te, che dopo essere stato parodiato nel testo, viene, da personaggio,

26 Non si dimentichi che “demolizione” è anche termine della chimica organica, che indica il «passaggio da un composto a un altro contenente un diverso gruppo funzionale e un minore numero di atomi di carbonio nella molecola.» (Dizionario En-ciclopedico Treccani, ad vocem). Appunto ad un atomo di Carbonio è dedicato l’ulti-mo, splendido racconto di Il sistema periodico, dove è spesso questione di indicibilità. Sappiamo da molte fonti, tra cui il Jean Samuel di cui converrà tra poco parlare, che «il romanzo sull’atomo di C» è stato tra i primi progetti letterari di Levi, precedente la deportazione (Mi chiamava Pikolo, Frassinelli, 2008, pp. 82-83).

eternamente decapitato 27. Nell’introdurre la tremenda visione, il poeta esita, temendo che essa tolga credito alle sue parole: e vidi cosa ch’io

avrei paura / sanza più prova, di contarla solo (vv. 113-114).

Raggiungia-mo così, senza bisogno di sconfinamenti celesti, il terzo livello di pre-terizione identificato da Cavaglion: il timore di non essere creduto 28. Le memorabili parole con cui il visconte decollato si presenta: or vedi

la pena molesta / tu che, spirando, vai veggendo i morti: / vedi s’alcuna

è grande come questa (vv. 130-132) anticipano la citata constatazione:

«condizione umana più misera non c’è, e non è pensabile». 29 Si ricor-derà che, nei versi introduttivi del canto, allo scacco del nostro sermone si associava quello della nostra mente.

A chi, non persuaso, esigesse conferma della rilevanza nell’imma-ginario di Levi del canto XXVIII dell’Inferno, lasciamo sia l’autore a rispondere. Nella prefazione a La ricerca delle radici (Einaudi, 1981) si legge: «A metà del cammino mi sono sentito nudo, e in possesso delle opposte pulsioni dell’esibizionista (...) e del paziente sul lettino in atte-sa che il chirurgo gli apra la pancia; anzi, in atto di aprirmela io stesso, come Maometto nella nona bolgia e nell’illustrazione del Doré (...)»

27 Visconte di Hautefort in Guascogna, vissuto nella seconda metà del sec. XII, fu uno dei maggiori trovatori di lingua provenzale. Dante, nel De Vulgari Eloquentia (II, ii 9), gli accorda la palma di sommo tra i cantori dell’armorum probitas, il meno elevato tra i tre argomenti (gli altri essendo l’amore e la morale) adatti alla poesia volgare; nel

Convivio (IV, xi 14) lo loda per la sua liberalità. Due sue canzoni fanno da ipotesto

a questo canto: Be’m plaz, che in toni estatici descrive la bellezza delle battaglie, dei corpi feriti e mutilati, dei tronconi di lancia confitti nei cadaveri; Si tuit li dol, in morte del del giovane re Enrico d’Inghilterra, da cui è tratta l’iperbolica ipotesi dell’incipit. Non essendo questa la sede per argomentare la mia convinzione che di parodia si tratti,

rinvio all’ancora eccellente studio di M. Picone, I trovatori di Dante: Bertran de Born,

in «Studi e problemi di critica testuale» 19 (1979), pp. 71-94, che ampiamente ne do-cumenta la presenza nelle opere dantesche.

28 Il caso più noto è l’episodio di Gerione, in cui la preoccupazione di non trovar credito presso il lettore spinge il poeta ad un’apostrofe con tanto di giuramento e in-cidentale definizione del poema: per le note / di questa Comedìa, lettor, ti giuro / s’elle

non sien di lunga grazia vote / ch’io vidi... (If XVI, vv. 128-129). Chi non ricorda, in SQU, l’incubo ricorrente e comune di tornare, raccontare e non essere neppure

ascol-tati (nel cap. Le nostre notti, pp. 74-75)? Il volo in groppa a Gerione figura peraltro, acutamente commentato da Levi, nell’articolo L’uomo che vola (Opere II, cit, 974-975).

29 Il lemma “misero” compare ventidue volte nella Commedia: quattordici in

In-ferno; una sola, comprensibilmente, in Paradiso. È associato all’aggettivo “offeso” (si

ricordi che «questa offesa» è l’oggetto dell’ineffabilità leviana) a proposito dei lamenti che fuoriescono dagli avelli infuocati degli eresiarchi: che ben parean di miseri e d’offesi (Inf IX, 123).

(Opere II, p.1362) 30. Con spregiudicata autoironia, Levi paragona il proprio tentativo di stabilire un canone delle letture influenti al gesto

sconcio, di palese ascendenza carnevalesca, di colui che fa da cicerone nella bolgia (Inf XXVIII, 22-63). Maometto, nella tendenziosa

tradi-zione accolta da Dante, non come il profeta dell’Islam era presentato ma come un predicatore cattolico, frustrato nelle ambizioni cardina-lizie (quando non senz’altro papaline) e per ripicca scismatico 31. Egli definisce con esattezza seminator di scandalo e di scisma (v. 35) se stesso e i compagni di pena: coloro che, predicando odio, hanno lacerato la comunità civile e/o ecclesiastica. La menzione dell’edizione illustrata da Doré («con cui sono venuto a collisione da bambino», ricorda Levi in Paura dei ragni) 32 lascia inferire si tratti di un’impressione remota, primigenia. Non sfugge, confido, come l’incipit stesso della Commedia sia parodiato nell’attacco “A metà del cammino…”

In un articolo intitolato Lo scriba, 33 Levi citò integralmente il verso che (dalla bocca scorporata di Bertran) chiude il canto: così s’osserva in

me lo contrappasso. Si tratta, è noto, dell’unica occorrenza nel poema

di un suo termine-chiave, quello appunto che definisce la relazione tra colpa e castigo vigente in Inferno e sconvolta nei Lager. Spicca, di nuovo, il gusto per l’accostamento dissacrante: il ruolo che il computer

era venuto assumendo nella sua prassi scrittoria, (specie in poesia) è il

contrappasso per aver commesso, venticinque anni prima, il «racconto

30 Ancora nel 1991, Lorenzo Mando si chiedeva se si fosse notata l’assenza di Dante

tra gli autori citati in La ricerca delle radici (in G. ioli, Primo Levi: memoria e

inven-zione, Atti del convegno internazionale, San Salvatore Monferrato, 1995, p. 225). La

si era notata: e l’autore aveva preventivamente chiarito, nel «Notiziario Einaudi» del giugno 1981: «Io non ho inserito nell’antologia opere troppo famose e scontate: Dante, Manzoni, ecc.» (Opere, III, p. 221). Gustosamente, in una conversazione di appena un mese dopo con Giovanni Tesio, aveva argomentato: «se li avessi messi, sarebbe stato come se, in un documento d’identità, sul rigo “segni particolari” si scrivesse “due occhi”» (ivi, p. 222). La parola di Dante, come giustamente osservava Mondo, è però ben presente nell’opera; ad esempio, nell’inciso “come altrui piace”, che fa il verso al Canto di Ulisse a proposito degli umili personaggi di Carlo Porta.

31 In alcune versioni della leggenda, che il Medioevo latino ereditò dalla polemica bizantina contro il profeta largamente e variamente integrandola, è un personaggio eminente della curia (ora Sergio, ora Nicolao, ora Pelagio) ad aizzare contro di essa il giovane Maometto, mettendo il suo talento per il proselitismo al servizio del proprio

livore. Cfr. f. Gabrieli, “Maometto”, in Enciclopedia Dantesca.

32 L’altrui mestiere, cit., p. 140.

poco serio» Il Versificatore 34. Ecco: se di rovesciamento della parola dantesca vuole parlarsi, occorrerà cercare altrove, nella ricca messe di testi leviani che non concernono il Lager. I risultati, credo, sarebbero sorprendenti.

Ma ci porterebbero lontano. A noi tocca, dietro al pellegrino Dante e all’antico poeta che lo guida, scendere fino al nono e ultimo cerchio, la ghiaccia di Cocito. Il cimento che attende chi si proponga di cantare quella vasta, irreale desolazione è propriamente inaudito. Per questo, il canto XXXII si apre con un prologo in piena regola, quasi che i tre canti che chiudono l’Inferno costituissero un poema a sé stante:

S’io avessi le rime aspre e chiocce come si converrebbe al tristo buco sovra ‘l qual pontan tutte l’altre rocce, io premerei di mio concetto il suco più pienamente; ma perch’io non l’abbo non sanza tema a dicer mi conduco; ché non è impresa da pigliare a gabbo discriver fondo a tutto l’universo,

né da lingua che chiami mamma o babbo.

Mette conto notare la modalità di preterizione qui escogitata: il po-eta si mostra in grado di immaginare, persino di definire, una lingua adatta all’impresa che lo attende, ma dichiara di non possederla. Sor-prende che, ipotizzando fonti dantesche per il capitolo Sul fondo, e per

le numerose riprese del termine in SQU, si sia omesso di menzionare

questa occorrenza, di gran lunga la più probante 35. Cos’altro è stato Auschwitz, anus mundi, se non il fondo a tutto l’universo?

Il verbo “descrivere”, che mai figura in Paradiso e in tutto l’Inferno qui soltanto, compare nel capitolo Storia di dieci giorni (che chiude

SQU ma fu il primo ad essere scritto) in tema, per l’appunto, di

inef-fabilità: «Quello che vedemmo non assomiglia a nessuno spettacolo ch’io abbia mai visto o sentito descrivere» (p. 199). La spettrale visione

34 Dapprima concepito come radiodramma, poi confluito in Storie naturali, Torino, 1966, pp. 19-41. Non pochi postumi estimatori lo definiranno “profetico”: ma nessuno più di Levi diffidava dei profeti.

35 Cavaglion cita (Il viaggio, nota 20) If XVIII, 25 e, stranamente, il verso 117 di questo canto, che del v. 8 è ripresa dialogica, parziale, limitativa.

che si dispiega davanti ai malati che, esclusi dalla “marcia della morte” e salvati da un improvviso bombardamento, osano far capolino fuori

della loro baracca, pone il narratore nella stessa posizione di scacco della lingua per assoluta novità del referente, che fu di Dante giunto al centro del cosmo, al cospetto di Dite, il Male assoluto 36.

Sul Lager «appena morto e già decomposto» si avventano bombe, turbe di famelici infermi, soprattutto «il vento» e «il gelo» dell’inverno polacco: «uscimmo nel vento di una gelida giornata di nebbia» (p. 199); «finestre e porte sfondate sbattevano nel vento»; «sul terreno indurito dal gelo» (p. 200). Ora, il gelo e il vento, l’uno prodotto dall’altro, sono le costitutive caratteristiche di Cocito (If XXXIII, 103; XXXIV, 4-6, dove si nomina persino la nebbia): è il vento disperatamente muli-nato dalle ali di Lucifero, la creatura ch’ebbe il bel sembiante (XXXIV, 18), dal quale Dante dovrà ripararsi dietro al corpo aereo di Virgilio (XXXIV, 8-9), a congelare la palude che imprigiona i traditori. La terra ghiacciata di Monowitz ripete Cocito, con non meno macabri effetti: «La terra era troppo gelata perché vi si potessero scavare fosse; molti cadaveri furono accatastati in una trincea, ma già fin dai primi giorni il mucchio emergeva dallo scavo ed era turpemente visibile dalla nostra finestra.» (p. 209) Si ricorderà la vertiginosa fossa comune immaginata in If XXVIII, 7-21.

«Giacere sul fondo», nel capitolo che appunto Sul fondo si intitola, è una delle due espressioni evocate ad esemplificare la distanza che separa la lingua dei deportati da quella degli uomini liberi; «campo di

annientamento» è l’altra (p. 30). Nel sollecitare il lettore a riflettere su

cosa resti di un uomo privato di tutto, finanche del nome, il narratore commenta: «Noi sappiamo che in questo difficilmente saremo com-presi, ed è bene che sia così. Ma consideri ognuno...». Il verbo

“con-siderare”, imperativo appena ingentilito dalla terza e anonima perso-na, modula l’anafora portante della poesia posta in epigrafe dell’opera (Considerate se questo è un uomo / Considerate se questa è una donna),

36 Nel medesimo canto, If XXXII, in mezzo a tanto gelo fisico e morale, compare, a designare la strana postura di anime che, dalla lastra di ghiaccio, sporgono con la testa soltanto, l’incongruo paragone con la rana, che mette la testa fuori dall’acqua per gracidare, evidentemente in estate (vv. 31-33). Non escluderei che questa reminiscenza sia la fonte del celebre verso di “Shemà”, come una rana d’inverno, oggi titolo di un volume in cui Daniela Padoan ha raccolto tre testimonianze femminili della Shoah: quelle di Liliana Segre, di Gothi Bauer, di Giuliana Tedeschi (Milano, 2004).

a sua volta derivata dalle parole dell’Ulisse dantesco: Considerate la

vostra semenza.

Il tema della incommensurabilità delle due lingue sarà sviluppato, pur nella consueta sobrietà, nel capitolo Ottobre 1944. In esso, l’esi-genza di comunicare, di far sapere e di farsi capire, è prepotente al punto da far sgorgare dalla penna del reduce l’inconcepibile ipotesi:

Se i Lager fossero durati più a lungo, un nuovo aspro linguaggio sareb-be nato; e di questo si sente il bisogno per spiegare cosa è faticare l’in-tera giornata nel vento, sotto zero, con solo indosso camicia, mutande, giacca e brache di tela, e in corpo debolezza e fame e consapevolezza della fine che viene

L’aggettivo “aspro”, di cui non sfugge la portata, proviene dall’in-cipit sopra citato: S’io avessi le rime aspre e chiocce. La piega

sintat-tica, un’ipotetica dell’irrealtà, è sovrapponibile. Nell’un caso come

nell’altro, la lingua paradossalmente invocata è più ruvida, più torbida, più sozza di quelle reali, poiché incomparabilmente peggiore di tutto quanto sia dato esperire è ciò che tale lingua varrebbe a designare. Levi, come Dante, ha presentito ma non posseduto lo strumento atto a modulare in forma linguistica l’assolutezza del male.

Nella parca esemplificazione dei termini considerati inadatti per