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Natura della responsabilità e onus

2. L’ONERE DELLA PROVA IN AMBITO CIVILISTICO ED AMMINISTRATIVO

Tra i cambiamenti che si possono avere sul regime processuale, a seconda della interpretazione sulla natura della responsabilità (amministrativa, penale o tertium genus) degli enti all’interno del decreto 231\2001, assume particolare importanza il regime dell’onere probatorio; si può notare infatti come l’adozione (o meno) dei principi costituzionali inerenti all’ordinamento penale all’interno del processo agli enti possa condurre a variazioni che si riflettono profondamente sull’assetto processuale delle prove.

Prima di addentrarci nella questione, occorre fornire alcune precisazioni terminologiche basilari: con il termine “prova” si intende

etichette» davvero innocua?, in Rivista trimestrale di diritto penale dell’economia, 2002

86 V MAIELLO, La natura (formalmente amministrativa, ma sostanzialmente penale)

della responsabilità degli enti nel d. lgs. 231\2001: una «truffa delle etichette» davvero innocua?, op. cit., p. 901: «In questo senso, allora, si può dire che diritto penale e processo (penale) rappresentano poli di una relazione dialettica necessaria, fondata su nessi di reciprocità, sia strutturale che funzionale: se infatti il primo ha bisogno del secondo per la implementazione di parte significativa delle proprie funzioni di tutela (in pratica, di tutte quelle che seguono la commissione del reato), il secondo presuppone logicamente la vigenza del primo.

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innanzitutto lo strumento che occorre fornire al giudice per sapere se eventuali fatti siano effettivamente venuti ad esistenza; è con tale mezzo che si può acquisire (laddove idoneo a tal fine), quella certezza necessaria a convincere il giudice di quanto affermato dalle parti all’interno del processo87. Occorrono dunque prove idonee per far

accertare ad un giudice la fondatezza dei fatti rilevanti ai fini della controversia, prove che necessitano inoltre di essere correttamente acquisite nel processo stesso: solo così il giudice potrà applicare la regola di giudizio più appropriata per il caso concreto, giungendo in tal modo alla decisione finale.

A tal proposito, al termine dell’iter probatorio, le vicende processuali che possono verificarsi sono fondamentalmente due: o tali fatti rilevanti sono positivamente accertati, ossia viene di questi accertata l’esistenza a posteriori; oppure al contrario tali fatti non sono accertati, ossia non risultano esistenti sulla base delle prove disponibili. Il mancato raggiungimento della prova di un fatto può verificarsi in vari casi; in particolare, ciò può riscontrarsi:

1) quando su quel fatto non sono state dedotte prove dalle parti, o non sono state ammesse; né sono state disposte prove su iniziativa del giudice;

2) quando sul quel fatto sono stati ammessi o disposti mezzi di prova, ma essi non hanno avuto esito perché la loro assunzione è per qualche ragione fallita;

3) quando sul quel fatto sono state assunte delle prove, ma nonostante ciò permangono dubbi sull’esistenza del fatto (cioè non è stato raggiunto il pieno convincimento del giudice).

Sono questi i casi in cui sorge un importante problema di decisione, in quanto l’inesistenza (poiché a contrario non viene accertata l’esistenza) di un fatto giuridicamente rilevante, impedisce di applicare la norma di diritto sostanziale che trova proprio in quei fatti

87 F. P. LUISO, Diritto processuale civile, volume II: il processo di cognizione,

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mancanti il presupposto e la condizione necessaria per poter essere utilizzata nel caso di specie dall’organo decidente.

A ciò fa da contraltare l’obbligo del giudice di pronunciarsi nel merito della controversia: è infatti un tratto proprio degli ordinamenti moderni l’impossibilità di ammissione di una pronuncia di non liquet, la quale si tradurrebbe de facto in un sostanziale diniego di giustizia88.

Appare dunque nella sua chiarezza come sia necessaria una regola di giudizio, un criterio di decisione, il quale non può essere identificato con la regola di diritto sostanziale, che consenta al giudice di poter emettere una decisione, anche in assenza della prova della verità di un fatto giuridicamente rilevante; e tale criterio risulta essere costituito, in ogni ordinamento che possa dirsi moderno, dal principio dell’onere della prova.

Un tale principio svolge una doppia funzione: da una parte ripartisce l’onere di provare i fatti rilevanti per la soluzione del caso concreto tra le parti; dall’altra conferisce al giudice il potere di emettere una decisione in ogni caso, ossia anche laddove, nonostante l’attività probatoria delle parti, egli è rimasto nel dubbio circa la verità dei fatti accaduti89.

Ciò che conta chiarire, a tal proposito, è che il giudice, decidendo in applicazione del menzionato principio, non ha un obbligo di presunzione di inesistenza dei fatti non provati, o provati in maniera insufficiente a convincerlo; in altre parole, egli non “deve” ritenere

88 A tal proposito, si veda l’art. 2 della legge 13 aprile 1988, n. 117, al cui primo

comma afferma: «Chi ha subito un danno ingiusto per effetto di a) un comportamento,

b) di un atto

c) o di un provvedimento giudiziario

posto in essere dal magistrato con dolo o colpa grave nell’esercizio delle sue funzioni ovvero per diniego di giustizia può agire contro lo Stato per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e anche di quelli non patrimoniali».

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inesistenti tali fatti, ma, al contrario, egli non “può” ritenerli esistenti. Il principio dell’onere della prova si dimostra dunque, a ragion veduta, un principio logico, enucleabile nella formula: «nessuno può logicamente affermare l’esistenza di un fatto se di esso non esistono prove sufficienti»90.

La regola generale di ripartizione dell’onere probatorio in sede civile è espressa nell’art. 2697 c.c. e ripresa (più o meno) fedelmente dal processo amministrativo. Sebbene la stessa norma appaia di immediata comprensione e frutto di una chiara e limpida applicazione dei principi logici più elementari91, va subito detto come invece essa abbia dato vita ad una grande varietà di problemi.

Di ciò danno testimonianza i differenti modi con cui la questione dell’onere della prova è stata affrontata all’estero: negli ordinamenti di common law, ad esempio, non vi sono norme specifiche che risolvano le possibili controversie sull’onere della prova, divenendo quindi la giurisprudenza il soggetto deputato a sciogliere le questioni che sorgono al riguardo, attribuendo molto spesso all’attore il dovere di provare i diritti o le situazioni di fatto che fondano l’azione, ed al convenuto il dovere di provare i corrispettivi diritti o situazioni di fatto fondanti l’eccezione, ma anche apportando al regime generale numerose deroghe92; oppure le corti possono decidere caso per caso (come avviene negli Stati Uniti) su chi addossare l’onere probatorio secondo criteri diversi e diverse variabili nelle varie materie93: il giurista anglo-americano, che non può fondarsi, nella maggioranza dei casi, su una norma giuridica sostanziale che abbia una “veste

90 G. VERDE, L’onere della prova nel processo civile, Napoli, 1974, p. 112

91 Art. 2697 c.c. «Onere della prova – Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve

provare i fatti che ne costituiscono il fondamento.

Chi eccepisce l’inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti su cui l’eccezione si fonda»

92 J. O’HARE – K. BROWNE, Civil litigation, Londra, 2003, p. 559

93 S.BAICKER-MCKEE, W.M. JANSSEN, J. B. CORR, A student’s Guide to the Federal

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espressiva stabile”, finisce col sentire che la determinazione degli oneri probatori dipende da ragioni che attengono alla specificità del caso. Egli dichiara di far ricorso, a tal fine, a regole di probabilità, a valutazioni d’equità o a comparazione degli interessi in conflitto, talvolta prendendo in considerazione questi criteri isolatamente e talatra mescolandoli insieme.

In molti ordinamenti di civil law, a rifarsi da quello tedesco, vi sono al contrario numerose disposizioni regolanti l’allocazione dell’onere probatorio, mancando invece una norma generale al proposito, che la dottrina ha cercato di ricostruire, elaborando uno svariato numero di teorie in merito (prima tra tutte la Normentheorie di Rosenberg)94.

Nell’ordinamento italiano infine, il problema viene affrontato con una norma di portata generale, insieme a norme specifiche, riguardanti casi particolare.

L’art. 2697 c.c. invero non pare possedere contenuti originali, collocandosi nel solco di una millenaria tradizione, testimoniata dai brocardi latini: «actori incumbit probatio» e «ei incumbit probatio qui dicit, non qui negat»; la dottrina ritiene che la menzionata disposizione contenga la c.d. “semplificazione analitica della fattispecie”95, proprio

perché ripartisce gli oneri probatori in base alle posizioni (di attore e convenuto) assunte dalle parti nel processo.

94 L. ROSENBERG, Die Beweislast: auf der Grundlage des Bürgerlichen Gesetzbuchs

und der Zivilprozeßordnung», Monaco, 1952: Secondo la Normentheorie una norma può essere applicata soltanto quando sussistono tutti i presupposti di fatto richiesti dalla norma stessa per il verificarsi delle conseguenze giuridiche che essa prevede e disciplina. L’onere di provare questi presupposti di fatto grava sulla parte che dall’applicazione della norma riceverebbe effetti favorevoli. Essa, di conseguenza sopporta lo svantaggio derivante dal permanere del dubbio circa la situazione di fatto.

95 M. TARUFFO, voce “onere della prova”, in Digesto delle discipline privatistiche,

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A fronte di ciò, l’articolo 2697 c.c. ha però il difetto di essere una norma meramente formale, che non rivolge la sua attenzione alla pratica, non essendo perciò idonea a determinare da sola la soluzione della controversia a favore dell’una o dell’altra parte: occorrerà sempre far riferimento ad una norma di carattere sostanziale per capire chi realmente vince la controversia96. Tali argomentazioni hanno condotto autorevole dottrina a parlare dell’art. 2697 c.c. come di una “norma in bianco”97, o addirittura a domandarsi quale sia la natura della norma

stessa, sostanziale o processuale.

Quello che in questa sede interessa è però un altro aspetto. A ben vedere, il legislatore non ha limiti formali che gli impediscano di elaborare una modifica sostanziale specifica del criterio di rango legislativo dell’onere della prova espresso in sede civile; infatti, l’unica norma di rango costituzionale in grado di opporsi ad una inversione legislativa dell’onere della prova è quella dell’art. 3 della Costituzione, ovvero il principio di uguaglianza, in particolare nel suo corollario del principio di ragionevolezza98.

Il principio di ragionevolezza esige che le disposizioni normative contenute in atti aventi valore di legge siano adeguate o congruenti rispetto al fine perseguito dal legislatore; si ha dunque violazione della ragionevolezza quando si riscontri una contraddizione all'interno di una disposizione legislativa, oppure tra essa ed il pubblico interesse perseguito.

Il principio in esame costituisce dunque un limite al potere discrezionale del legislatore, che ne impedisce un esercizio arbitrario; la verifica della ragionevolezza di una legge comporta l'indagine sui suoi presupposti di fatto, la valutazione della congruenza tra mezzi e

96 G.A. MICHELI, L’onere della prova, Padova, 1966

97 R. SACCO, Presunzione, natura costitutiva o impeditiva del fatto, onere della

prova, in Rivista di diritto civile, 1957, p. 420

98 per tutti, R. BIN, Ragionevolezza e divisione dei poteri, in AA.VV. Corte

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fini, l'accertamento degli stessi fini, ed a tal fine, si ricorre spesso ai lavori preparatori della legge, alle circolari ministeriali esplicative, ai precedenti storici dell'istituto. Nel caso si accerti l'irragionevolezza della legge, essa sarà affetta dal vizio dell'eccesso di potere legislativo, e, in quanto tale, potrà essere ritenuta costituzionalmente illegittima dalla Corte costituzionale.

Nel processo amministrativo vige il medesimo principio dell’onere della prova sancito per il processo civile; tale regola generale viene così implicitamente richiamata all’interno del codice del processo amministrativo dall’art. 63 comma I°: “Fermo restando l’onere della prova a loro carico, il giudice può chiedere alle parti anche d’ufficio chiarimenti o documenti”99. Rilevante è anche l’art. 64

del codice stesso, il cui primo comma dispone: “Spetta alle parti l’onere di fornire gli elementi di prova che siano nella loro disponibilità riguardanti i fatti posti a fondamento delle domande e delle eccezioni”.

A ben vedere, le regole di giudizio contenute nelle due norme del d. lgs. del 2 luglio 2010, n. 104 profilano un onere della prova per certi versi più flessibile di quello presente in ambito civilistico, ove le parti sono tenute, rispetto al diritto che intendono far valere, a “provare (in giudizio) i fatti che ne costituiscono il fondamento”, non già gli “elementi di prova che siano nella loro disponibilità”. Si potrebbe dunque parlare di un “criterio di disponibilità” , il quale risulta non lontano (ma comunque diverso) da quello di vicinanza100, adottato nel processo civile; tali criteri risultano avere grande importanza pratica,

99 A. TRAVI. Lezioni di giustizia amministrativa, XII edizione, Torino, 2016, p.264 100 D. ZONNO, I poteri del giudice amministrativo in tema di prove: intervento del

giudice nella formazione della prova, in www.giustizia-amministrativa.it, visitato il 22 giugno 2017: «la “disponibilità” del mezzo di prova esprime il principio della “vicinanza della prova” che impone che l’onere probatorio vada addossato alla parte che abbia disponibilità e che rappresenta la ratio ispiratrice del potere di intervento del Giudice nel processo, onde bilanciare la posizione di squilibrio processuale»

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soprattutto laddove vi sia una eventuale difficoltà di accedere alle fonti di prova in possesso della controparte. Il principio suddetto nasce per l’appunto dall’esigenza di individuare un punto di equilibrio tra il diritto di provare o far accertare in giudizio l’esattezza delle proprie affermazioni di cui all’art. 24 della Costituzione da una parte, e l’ordinaria difficoltà a reperire il materiale probatorio relativo. Tale caratteristica è propria del processo che annovera, tra le parti in causa, una Pubblica Amministrazione: il ricorrente si trova sovente in evidente stato di difficoltà in merito al reperimento del materiale probatorio, il quale è spesso posseduto dall’Amministrazione che ha adottato il provvedimento.

E’ proprio per questo che gran parte della dottrina sostiene l’inesistenza, all’interno del processo amministrativo, di un vero e proprio onere della prova in senso pieno, ma piuttosto dovrebbe parlarsi di un onere della prova in senso depotenziato, “degradato”: una sorta di principio di prova o semiplena probatio101. In tal caso infatti, una volta dato avvio all’iter istruttorio, il giudice avrà il ruolo fondamentale di sopperire alla disparità tra le parti, acquisendo ex officio altri elementi e\o documenti di cui gli sarà stata prospettata l’esistenza: questo dato si evince dal comma III° dello stesso art. 64, il quale recita: «Il giudice amministrativo può disporre, anche d’ufficio, l’acquisizione di informazioni e documenti utili ai fini del decidere che siano nella disponibilità della pubblica amministrazione».

3. LA PRESUNZIONE DI INNOCENZA COME REGOLA DI