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Lavoro di ricerca qualitativa sugli studenti del corso di IC cinese-italiano – Cdl ITES, Università Ca’ Foscar

3.4. Raccolta dei dat

3.4.4 Osservazione delle lezioni di IC del secondo anno

Passiamo, invece, a illustrare come mi sono incamminata sull’altra strada del bivio, quella intrapresa per proseguire la raccolta di materiale riguardante gli interpreti del secondo anno. Sapevo che il percorso in questo caso sarebbe stato un po’ meno ripido, perché avendo ricevuto fin da subito un maggiore supporto, avevo raccolto molto più materiale e partivo con le idee più chiare sia sui maggiori problemi incontrati fino a quel momento, sia sulla direzione che avrei dovuto prendere per continuare la ricerca. In questo caso ho utilizzato come spunto due diverse attività legate al corso di interpretariato dal cinese all’italiano. La prima corrispondeva alle lezioni stesse tenute dal professor Zanini, che anche per noi si affiancavano alle esercitazioni della professoressa Zhu Xuemei, ma sono state pensate in modo assai diverso dalle lezioni del primo anno. Una volta appresi i principi dell’interpretariato a livello teorico, che comprendevano le caratteristiche del buon interprete, il suo ruolo, l’importanza delle sue capacità comunicative per una buona riuscita dell’interpretariato e i vari contesti in cui esso si svolge, siamo passati a mettere in pratica tutte queste conoscenze attraverso lezioni di natura pratica, svolte in forma di workshop costante.

Ciò vuol dire che nel corso delle lezioni simulavamo di volta in volta una mini conferenza, che si teneva in classe con noi studenti divisi in sei gruppi da cinque o sei persone, all’interno di ognuno dei quali vi erano almeno un oratore e almeno un interprete. L’oratore o gli oratori avrebbero esposto un testo in cinese della durata di circa 2-3 minuti e all’interprete sarebbe toccato il compito di prendere nota dei concetti chiave ed eseguire una resa in italiano il più possibile fluida e persuasiva davanti al resto della classe, il pubblico di un ipotetico convegno. L’argomento veniva scelto di volta in volta in modo da essere in qualche modo correlato al tema che stavamo studiando con la professoressa Zhu, per una maggiore coordinazione e per agevolarci nella preparazione dei glossari, ciò che corrisponde alla reale preparazione che l’interprete svolge prima dell’interpretariato.

Prima di sedersi a prendere appunti, all’interprete veniva chiesto di presentare alla classe le conoscenze sull’argomento prima in italiano e in seguito in cinese. Il compimento di

questa operazione includeva due vantaggi. Il primo corrispondeva alla verifica delle conoscenze pregresse dell’interprete che lo avrebbero aiutato nel corso dell’interpretariato, mentre il secondo corrispondeva a un fondamentale esercizio di public speaking. Anche se questa potesse essere ritenuta un’attività ansiogena e stressante, e di fatto lo era, aveva lo scopo di creare una condizione di pressione tale a quella in cui si trova costantemente l’interprete mentre lavora.

Anche di fronte a un contesto del tutto realistico e plausibile come quello appena esposto, mi si presentava un’occasione importante per il proseguimento dell’osservazione dell’interpretariato strutturato in questo modo e l’annotazione degli aspetti più rilevanti che potevano emergere da ogni lezione. Inoltre, al termine di ogni sessione di interpretariato, il professore chiedeva un commento a caldo su come fosse andata sia all’oratore, sia, soprattutto, agli interpreti. Poteva così comprendere meglio quali fossero le maggiori difficoltà, fare osservazioni su aspetti positivi e verificare in entrambi i casi se vi fosse una corrispondenza con la risposta dell’interprete. Mi sembrava che tutta l’attività svolta nel contesto delle lezioni, comprese le domande che il professore poneva agli interpreti subito dopo l’interpretariato, fosse in piena linea con l’obiettivo della ricerca e ho deciso, quindi, di seguire le lezioni, che erano programma d’esame anche per me, osservandole allo stesso tempo con quell’occhio critico e un po’ distaccato mi era necessario per portare avanti la ricerca.

Ho quindi deciso di registrare anche le lezioni del professor Zanini, ma in questo caso ho commesso un errore di cui mi sono resa conto a posteriori. Non ho capito da subito l’importanza che le lezioni, strutturate sotto forma di conferenza, seppur informale e interna alla classe, potessero avere ai fini della ricerca, come potessero essere sfruttate per ottenere ulteriori dati ricchi di dettagli, impressioni subitanee degli interpreti e per questo più autentiche e senza filtri. Non ho registrato le lezioni e non le ho osservate con l’obiettivo di fare ricerca fin da subito, ma ho cominciato a registrarle dopo circa un mese dall’inizio del corso. Penso che questa scelta, rivelatasi non troppo vincente, fosse dovuta al fatto che anch’io seguivo le lezioni da studentessa, al pari degli altri. Una volta iniziato il corso, come era accaduto per le lezioni della professoressa Zhu del secondo anno, non pensavo affatto di possedere capacità tali per esimermi dall’esercizio di ascolto e presa di appunti e per dedicarmi soltanto all’osservazione di ciò che succedeva intorno. Al contrario, il più delle volte mi sentivo meno sicura degli altri, pensavo che se fosse toccato a me fare l’interprete quel giorno non me la sarei cavata bene come chi stava interpretando in quel momento.

Da qui nasceva l’incertezza legata alla contemporanea azione su due piani diversi, cioè la frequenza e l’osservazione delle lezioni. Pensavo che sarebbe stato meglio continuare a

svolgere l’osservazione durante le lezioni del primo anno e procedere con l’esercizio durante le lezioni del secondo anno. In realtà avrei potuto fare entrambe le cose e il che sarebbe stato molto più vantaggioso, come di fatto è stato. Infatti, se avessi focalizzato l’attenzione sui problemi che riscontravo negli altri studenti, sarei riuscita a capire se le stesse problematiche appartenessero anche a me e su quali punti avrei potuto migliorare. Avrei condotto, così, un’analisi che racchiudeva anche un’autoanalisi, che mi avrebbe resa molto più consapevole di quali fossero le mie difficoltà e degli strumenti adatti ad affrontarle. Con questa idea in mente, a metà di un percorso in crescita anche per me, ho portato avanti un metodo per la raccolta dei dati che si è diviso tra le registrazioni delle lezioni e la loro successiva trascrizione e conservazione, integrate a loro volta con appunti di osservazioni personali scritte ascoltando gli interpeti e successivi commenti e suggerimenti del professore. In casi secondo me molto significativi ho anche posto una breve intervista agli interpreti.

Prima di tutto, ciò che si chiedeva sempre all’interprete era una domanda di carattere molto generale, da cui si prendeva spunto per tutte le successive considerazioni, ovvero “Com’è andata secondo te?”. La risposta era in quasi tutti i casi piuttosto negativa e veniva motivata parlando di ciò che aveva tolto sicurezza all’interpretariato. La stessa domanda veniva poi posta anche al resto della classe, al pubblico della conferenza, “E come sono andati secondo voi?”. Di solito la percezione negativa dell’interprete veniva smentita, perché i compagni il più delle volte rispondevano di aver ascoltato una buona resa, se non del tutto aderente all’originale, comunque scorrevole e persuasiva. In questo modo era sempre possibile avere un confronto tra il parere soggettivo dell’interprete, potremmo dire interno all’evento stesso, e uno oggettivo, dei compagni, che vedevano il tutto dall’esterno. Se il professore notava particolari incertezze o momenti di insicurezza, spiegava a cosa potessero essere dovuti e dava suggerimenti su come si potrebbe fare per arginarli, a fronte della sua esperienza personale.

Anche in questo caso sono stata pronta ad annotare tutto sul blocco per avere anche il parere e la visione di un interprete professionista, che mi ha fornito importanti linee guida allo svolgimento della ricerca. Per fare degli esempi generali sul tipo di domande e osservazioni che venivano fatte durante queste mini interviste, alla prima domanda generica ne seguivano altre. In un caso, ad esempio, alla domanda iniziale la riposta è stata, com’era frequente, “non è andata benissimo perché ho perso qualche pezzo”. In seguito, il professore ha posto la stessa domanda alla classe “Secondo voi ha perso pezzi?” e rispondeva all’interprete, dicendo che questo è un fattore quasi inevitabile. L’abilità più importante per un interprete è il “confezionamento” di ciò che si è capito con un attitudine quanto più possibile serena e sicura.

Durante un’altra lezione, invece, siccome ci trovavamo nel caso di un’intervista a un regista cinematografico, l’interprete ha mostrato qualche esitazione sia sulla posizione da assumere rispetto all’intervistatore e all’intervistato, sia sui tempi dell’inizio dell’interpretazione. Si chiedeva, cioè, se dovesse cominciare a parlare subito dopo la domanda in cinese o se avesse dovuto aspettare anche la risposta, per tradurre tutto il blocco ascoltato in una volta. È stato chiarito che sarebbe meglio fermare l’intervistato dopo la domanda, prima che cominciasse a rispondere in cinese, in modo da avere il tempo necessario per interpretare la domanda e agevolare il pubblico nella comprensione di cosa stesse accadendo in sala. È emerso il problema della mancata comprensione del contenuto di una domanda e dell’incapacità di renderla in modo corretto in italiano. Si è detto in questo caso che se la domanda non è stata compresa a pieno, la strategia migliore da utilizzare è quella di cercare di individuare almeno il nucleo centrale della domanda e chiedere “Cosa pensa riguardo a…?” oppure “Cosa mi dice di…?”, in modo che qualsiasi fosse la domanda iniziale la risposta potesse essere pertinente.

Anche a livello di resa in italiano, grazie all’attività della lezione si potevano osservare ed esaminare molti comportamenti interessanti, che venivano verificati con altre domande, ad esempio “Ti sei sentito/a nervoso/a mentre interpretavi? Sei una persona che si agita a parlare di fronte a un pubblico?” La risposta in molti casi era positiva: veniva detto, infatti, di essere persone molto ansiose, che si trovavano in difficoltà in situazioni in cui doveva stare al centro dell’attenzione. Oltre alle affermazioni degli studenti, era possibile osservare se l’agitazione fosse presente e a quale livello osservando l’interprete e notando se c’erano movimenti del corpo, spesso involontari, come il tremolio delle mani, non sempre visibile dal pubblico, o della voce, o il movimento dei piedi sul pavimento ecc. Un altro metodo di ricerca molto utile a verificare l’esistenza di questi aspetti sarebbe stata la video-registrazione, che avrebbe permesso di rivedere l’interprete, esaminarne i comportamenti e a fronte di questi ricavare dati altrettanto significativi.