4. Il disgusto e la paura
4.2 Osservazioni spazio-temporali della manifestazione della paura in Aristotele e Kolna
Le emozioni, oltre a essere dirette verso un oggetto intenzionale specifico che cambia di volta in volta, si distinguono in base al modo in cui “intenzionano” l’oggetto, cioè secondo la proprietà assiologica che gli attribuiscono. Ciascuna emozione, quindi, avrà un suo oggetto formale. Non è concepibile uno stato emotivo di paura che non faccia riferimento alla tipologia di oggetto a cui è concettualmente connesso, in questo caso il pericoloso. L’oggetto formale è ciò che sta in una relazione logica con l’emozione, ciò che stabilisce norme di coerenza interna che governano emozioni dello stesso tipo. È quindi ciò che determina il criterio normativo di intelligibilità delle emozioni, per cui è concettualmente impossibile un’esperienza di paura in cui l’oggetto della paura non venga considerato come pauroso o pericoloso.
L’oggetto concreto, che potrebbe essere comune a più emozioni se visto da punti di vista differenti, può essere un ragno che penso essere molto velenoso, una persona folle che comincia a urlare e a sparare, una strada in discesa, ripida e ghiacciata. In tutti questi casi l’emozione che questi oggetti fanno sorgere in me è di paura perché essa me li presenta come pericolosi.
L’oggetto formale della paura è quindi il pericolo. Tale oggetto formale si ritrova nella definizione che Aristotele dà della paura come «una forma di sofferenza o uno sconvolgimento che deriva dalla prefigurazione di un male
89 imminente che causa rovina o dolore»132. Dopo questa prima definizione generale, Aristotele inserisce delle postille per entrare sempre più nel dettaglio e specificare che cosa causi in noi paura. Noi proviamo paura solo se il dolore è di entità grave, quindi quando parliamo di cose seriamente e oggettivamente preoccupanti e solo se tali eventi dolorosi appaiono come imminenti – ossia vicini nel tempo e nello spazio – e non remoti.
Dunque la paura, come sua condizione esistenziale necessaria, ha bisogno di una distanza se pur minima tra la situazione spazio-temporale del soggetto percipiente e quella dell’oggetto percepito come pericoloso133
. Infatti Aristotele sottolinea che:
«Non si temono tutti i mali – ad esempio, essere ingiusti o lenti nel comprendere – ma solo quelli che possono comportare grandi sofferenze o rovina, e anche questi ultimi solo nel caso in cui non appaiono remoti, ma imminenti, tanto da sembrare sul punto di verificarsi. Gli uomini, infatti, non temono ciò che è estremamente remoto, perché tutti sanno che dovranno morire, ma, nella misura in cui la morte non è prossima, non se ne danno pensiero»134.
Sia per Aristotele che per Kolnai la reazione conseguente alla paura, ossia la fuga, l’allontanamento, lo scappare dall’oggetto, dalla situazione o dalla persona che genera in noi quell’emozione, può essere concreta ma anche astratta. Spieghiamo meglio: nel primo caso, quando si ha paura, ci si allontana fisicamente da ciò che causa paura – letteralmente ce la diamo a gambe – cioè poniamo una distanza fra noi e il pericolo. Nel secondo caso, invece, nonostante si rimanga immobili o comunque non si tenda a scappare, cerchiamo il modo di
132 Cit. Aristotele, Retorica, cit., 1382a21-22. 133
Cfr. Fussi A., Disgusto, paura, prossimità nell’analisi fenomenologica di Aurel Kolnai, cit., p. 268: «Tale emozione necessita dunque di una distanza non troppo grande fra la nostra situazione spazio-temporale e quella dell’oggetto, della persona o dell’evento che riteniamo rappresentino un pericolo».
90 sottrarci alla sfera d’influenza dell’oggetto o persona pericolosa attraverso sofisticate riflessioni. Cosa possiamo fare per evitare di essere un bersaglio o una vittima virtuale? Possiamo prendere decisioni volte a frequentare il meno possibile la persona che mi incute paura, o a vederla solo con la presenza di altre persone che possano eventualmente aiutarmi se avvertono un pericolo, posso cambiare numero di cellulare, posso ignorare la persona che mi minaccia sperando desista dall’oltraggiarmi o posso rivolgermi alle forze dell’ordine per denunciare eventuali percosse etc. Per quanto riguarda situazioni che generano paura e dalla cui sfera d’influenza vogliamo liberarci, possiamo ricordare l’agorafobia – la paura dei posti affollati – e la claustrofobia – la paura dei luoghi chiusi e angusti. In entrambi i casi, dal momento che saremmo fisicamente impediti e impossibilitati a scappare velocemente da ciò che ci crea disagio, evitiamo del tutto tali luoghi al fine di scongiurare spiacevoli conseguenze.
Aristotele pone la nostra attenzione sul fatto che a generare in noi la paura non siano tanto i pericoli naturali (terremoti, alluvioni etc.), né tanto meno, come si potrebbe pensare, animali feroci (lupi, serpenti etc.) bensì sono i nostri stessi simili: gli uomini con la loro malvagità, con la loro cattiveria producono dei mali che si ripercuotono su altri uomini. Le forme di timore di cui parla Aristotele traggono tutte l’origine dai rapporti sociali che gli uomini intrattengono, rapporti spesso sbilanciati a causa del potere che uno possiede e che usa a danno dell’altro in vista solo ed esclusivamente dei suoi scopi e dei suoi interessi: Homo homini lupus, come diceva il commediografo latino Plauto.
Inoltre Aristotele si sofferma sulla descrizione di coloro che possono divenire preda della paura: per provarla bisogna aspettarci di subire una sofferenza in un
91 futuro prossimo, sofferenza che abbiamo valutato rilevante. Per il filosofo ci saranno allora due tipologie di persone escluse dall’ambito di pertinenza della paura, ossia due categorie di persone esenti dal provare timore: in primo luogo coloro che si trovano in situazioni di grande prosperità grazie alla buona sorte, alla fortuna o al caso. Tale sistemazione, non essendo dovuta a sacrifici e duro lavoro, fa sì che la persona diventi arrogante, prepotente fino a pensare di non poter subire più alcunché. In secondo luogo coloro che ritengono di aver subito già tutti i mali possibili e di non poterne quindi subire altri. Come è possibile notare, queste due classi di persone sono diametralmente opposte e si situano alle estremità antistanti di una linea immaginaria:
«Se il timore è accompagnato dall’attesa di dover subire un qualche caso rovinoso, è evidente che nessuno di coloro che ritengono di non dover subire nulla avrà paura: gli uomini non hanno paura di cose che non pensano di subire, né di persone dalle quali non credono di soffrire, né in circostanze in cui non ritengono che ciò debba accadere. Inevitabilmente, dunque, hanno timore gli uomini che pensano di subire qualcosa, sia delle persone dalle quali si attendono ciò, sia di determinate cose, sia di certe circostanze. Non credono invece di poter subire alcunché sia coloro che si trovano, e ritengono di essere, in grande prosperità (per questo motivo sono arroganti, irrispettosi e insolenti, e a renderli tali sono la ricchezza, la forza, un gran numero di amici, la potenza), sia quelli che ritengono di avere già subito ogni possibile male e sono divenuti indifferenti verso il futuro, come coloro che sono ormai condannati a morte»135.
Un punto sul quale è necessario soffermare la nostra attenzione, dal momento che ci sarà utile quando confronteremo la paura al disgusto, è che la paura implica una certa speranza di salvezza dovuta al fatto che l’evento negativo si presenta come prossimo ma non immediato, permettendomi quindi in pochi istanti di poter pensare che scappando e fuggendo potrei per l’appunto salvarmi: «Per provare timore è necessario che, nella loro situazione di angoscia, rimanga una qualche
92 speranza di salvezza. Eccone la prova: la paura spinge a prendere decisioni, mentre nessuno decide a proposito di cose senza speranza»136.
Per Aristotele la paura è un’emozione ad alto contenuto cognitivo giacché ha il compito di valutare una cosa come pericolosa e agire di conseguenza per cercare di difendersi e salvaguardare la propria incolumità attraverso una decisione ragionata: «Condizione necessaria perché ciò avvenga, però, è che sia ancora possibile la speranza»137.
Dunque, il pericolo deve essere visto e considerato abbastanza vicino e sufficientemente grave: se anche solo uno dei due elementi venisse a mancare verrebbe meno con esso l’intera emozione; infatti, come si è visto, anche la morte, nonostante sia una cosa molto seria e importante, non produce la paura dal momento che consideriamo questo evento molto lontano nel tempo. Allo stesso modo potremmo prendere in considerazione un evento molto vicino a livello temporale ma non abbastanza importante da suscitare in me la paura. Tuttavia le condizioni affinché sia possibile provare paura non finiscono qui: il pericolo deve essere anche abbastanza lontano da permetterci una valutazione psicologica, mentale ma anche pratica e concreta e dopo tale analisi poter agire di conseguenza eseguendo nel miglior modo possibile i dettami e i calcoli forniti dalla ragione. Essa troverà la soluzione maggiormente compatibile con la nostra situazione e si assumerà la responsabilità di prendere una decisione ponderata sul da farsi.
Per esempio io potrei provare paura, angoscia o anche una certa ansia al solo pensiero di sapere che tra pochi mesi dovrò discutere la mia tesi; tale evento è
136 Ibidem, 1383a5-8.
137 Cit. Fussi A., Disgusto, paura, prossimità nell’analisi fenomenologica di Aurel Kolnai, cit., p.
93 indubbiamente importante e di grande considerazione per la vita di uno studente, è relativamente vicino ma anche abbastanza lontano da consentirmi di immaginare quale potrebbe essere il miglior comportamento da intraprendere, ossia quello di studiare e prepararmi nel migliore dei modi possibili confacenti alle mie capacità e, laddove dovessi realizzare tali propositi, la mia emozione svanirebbe sempre di più, in caso contrario rimarrebbe invariata o, nel peggiore delle ipotesi, aumenterebbe fino a raggiungere l’apice del terrore.
La paura ha quale ulteriore scopo quello di preparare l’individuo e di far sì che esso non venga colto alla sprovvista di fronte al pericolo nonché proteggerlo dal pericolo stesso. La tutela approntata dalla paura non è soltanto fisica ma anche psicologica: ci salvaguarda dal trauma che vivremmo se rimanessimo passivi e paralizzati davanti al dolore e al male. A rappresentare l’impedimento al regolare lavoro della paura è quindi il terrore, che inibisce le consuete reazioni e ostacola il normale funzionamento del meccanismo difensivo che ritarda le sue risposte o addirittura non le elabora.
Di terrore è anche la reazione di un genitore quando il proprio figlio è protagonista di accadimenti tremendi o quando è coinvolto in fatti orribili138. Il terrore, infatti, proibisce di provare nello stesso momento la pietà; inoltre quest’ultima si prova per le persone che si conosce, quando però non siamo legati a esse troppo strettamente: in questo caso l’emozione provata sarà più forte ed è come se il fatto stesse succedendo a noi e per questo motivo non c’è bisogno di immedesimarsi nell’altro perché si sente in prima persona ciò che l’altro individuo
138 Cfr. Aristotele, Retorica, cit., 1386a20: «Amasi non pianse per il figlio condotto a morte, come
si racconta, mentre pianse per un amico che chiedeva l’elemosina: quest’ultimo caso suscita compassione, il primo, invece, terrore».
94 prova. Anche un eccessivo timore impedisce di provare compassione dal momento che le persone atterrite sono troppo concentrate su se stesse e poco alla situazione penosa altrui139.
In linea con Aristotele, anche Kolnai evidenzia la relazione della paura con il pericolo140 e la sua esigenza di stabilire un minimo di distanza temporale e spaziale fra soggetto e oggetto.
Kolnai sottolinea soprattutto l’elemento cognitivo della paura giacché riconosce a questa emozione la possibilità di modificarsi e di essere sopita, sedata e moderata dal pensiero razionale che calcola per nostro conto le mosse migliori da fare per scampare al pericolo imminente. Inoltre Kolnai nota come l’emozione della paura si apra e accolga in sé le nostre convinzioni e il nostro sistema di conoscenze portando l’esempio dello zoo: «Il comportamento dell’uomo di fronte a una gabbia di animali feroci, quasi del tutto libero da tracce d’angoscia, mostra quanto sia facile, in situazioni del genere, dominare l’istinto grazie alla conoscenza della situazione»141. Spesso ci troviamo in situazioni in cui sarebbe naturale provare paura dal momento che, ad esempio, degli animali spaventosi ci sono molto vicini e potrebbero farci molto male; tuttavia l’emozione non sorge giacché ci sentiamo protetti e sappiamo che essi non possono in realtà farci del male perché chiusi nelle gabbie e quindi il pericolo che si era percepito in precedenza non è visto ora come un reale pericolo. La paura si sarebbe potuta innescare solo se avessimo pensato che le gabbie si sarebbero potute rompere e
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Non è mio scopo qui dilungarmi sull’emozione della compassione; per ulteriori precisazioni e per le analogie con il sentimento di paura si rimanda ad Aristotele, Retorica, cit., 1385b11-1386b7.
140 Cfr. Kolnai A., Il Disgusto, cit., p. 40: «Il concetto di angoscia è inseparabile da quello di
minaccia, di pericolo, di necessità di salvezza e di protezione».
95 aprire e lasciar fuggire le bestie in esse contenute. Dunque insieme o subito dopo alla percezione del probabile pericolo si è accostato il pensiero, l’opinione e il ragionamento che hanno negato la realtà del pericolo. Come già detto, il pensiero poteva anche andare in direzione opposta, e nonostante dalla realtà emergesse tutt’altra evidenza, esso poteva portare il soggetto a provare paura se avesse iniziato a fantasticare sui meccanismi di sicurezza. Tuttavia quest’ultimo sarebbe stato un calcolo sconveniente e irragionevole se le condizioni di realtà fossero rimaste quelle.