4. Il disgusto e la paura
4.4 Prossimità sostanziale: le affinità e il legame del disgusto con la vita e la morte
In sintesi, abbiamo visto che il disgusto è originato dalla sua contiguità o – per usare le stesse parole di Kolnai – prossimità con l’oggetto valutato disgustoso. Quest’ultimo tuttavia, ricopre un ruolo alquanto ambiguo dal momento che da un lato respinge il soggetto e dall’altro opera una sorta di «tentazione»155
che lo induce ad avvicinarsi e a godere dello spettacolo disgustoso.
Kolnai si sofferma sulla natura del soggetto e dell’oggetto e scopre «la nostra incancellabile affinità con questa formazione disgustosa»156.
Ad un certo punto l’autore sente la necessità di esplicitare e chiarire la relazione del disgusto con la vita e con la morte. Per riuscire nel suo intento è costretto, a nostro beneficio, a far emergere i punti di contatto fra soggetto e oggetto: l’uomo scopre nel disgusto un’inquietante somiglianza con l’oggetto disgustoso.
Il disgusto è contemporaneamente abitato dalla vita e dalla morte: nello stesso momento questi due stati esistenziali opposti si intersecano e si incontrano nell’oggetto disgustoso. Forse anche per questo motivo il disgusto può essere definito ambivalente dal momento che in esso si presentano simultaneamente due
155 Ibidem, p. 88. 156 Ibidem, p. 90.
103 condizioni opposte che sembrerebbero non poter avere nessun punto di contatto; evidentemente ci sbagliavamo. Ma come si spiega questa apparente assurdità?
La morte ovviamente può essere rappresentata da un cadavere, da una carcassa di animale distesa in terra in un bosco. Tutto ciò, tuttavia, non disgusta; per disgustarci deve essere presente un elemento in più: quale? L’elemento vitale, questa vitalità sfrenata e smodata che si insinua nella morte: i vermi che pullulano sulla superficie di un cadavere, il miasma – cioè l’esalazione malsana emanata da sostanze organiche in decomposizione, quindi il tanfo, il fetore – una ferita infettata, rigonfia di pus, maleodorante e colorata dal violaceo al giallastro, colori che disturbano i nostri occhi e che indicano che qualcosa non va come dovrebbe. È la vitalità della putrefazione e il brulicare che, per esempio, indicano che nella morte oltre al silenzio e al nulla, tipiche di questo stato, possono esserci movimento, dinamismo e attività grazie proprio al lavoro della vita nella morte. Tuttavia è possibile sia una vita che va verso la morte – dunque in questo caso è la morte che si affaccia nella vita con odori sgradevoli, ferite, fluidi che vengono espulsi involontariamente – sia una vita che si nutre di cose morte.
Il simbolo del disgusto non è quindi il teschio o lo scheletro perché essi non ripugnano dato che non sono in grado di far emergere la duplicità di stati, cioè la vitalità e l’inerzia, il suono dell’attività di piccoli animaletti che scavano e mangiano tessuti umani e il silenzio tombale, l’energia di piccole bestioline in movimento e l’inattività assoluta e completa. Qual è allora l’oggetto del disgusto? È il luogo intermedio fra la vita e la morte come potrebbe essere un «corpo morto
104 in quanto entra a far parte del ciclo vitale attraverso la putrefazione e la secrezione di sostanze»157.
Il disgusto ha quale ulteriore scopo anche quello di individuare e avvertire il soggetto della possibile dannosità e pericolosità delle cose disgustose, di indicare la possibile minaccia nascosta in esse, cioè quella di gettare nella stessa condizione in cui si trovano loro se le toccassimo. L’oggetto disgustoso produce debilitazione e disfacimento trovandosi anch’esso nel medesimo stato. Interagendo con le cose disgustose e instaurando con loro una relazione, esse non potranno che danneggiarci.
«Tuttavia, non tutto ciò che è disgustoso è anche nocivo. In situazioni molto importanti una tale relazione è però presente: sostanze putrefatte che sono tossiche, insetti pericolosi […]. Ora, sicuramente, nell’immagine che del disgusto abbiamo, la pericolosità e dunque, in generale, il significato esistenziale che può assumere non hanno mai una posizione centrale. Questo è invece il caso dell’angoscia. In realtà, le formazioni disgustose sono assai di frequente oggetti spaventosi (che suscitano angoscia) o inquietanti (che suscitano orrore), su cui predomina nondimeno il sentimento di disgusto. Fino a quando però il disgusto resta preponderante, viene intesa la natura dell’oggetto […], non invece il pericolo che emana […]. Inoltre l’effetto temuto del disgustoso è più che altro inteso come periferico, scocciante, non come mortale o doloroso […]. Non si teme però di morirne, di esserne pesantemente danneggiati nel corpo»158.
Quindi nell’esperienza disgustosa non solo «si ha paura di sporcarsi con l’oggetto, come se potesse appiccicarcisi addosso»159
, ma si percepisce anche la nostra analoga natura con l’oggetto esperito. L’oggetto disgustoso, come «uno
157
Cit. Fussi A., Disgusto, paura, prossimità nell’analisi fenomenologica di Aurel Kolnai, cit., p. 279.
158
Cit. Kolnai A., Il Disgusto, cit., p. 92-93. Cfr. Tedeschini M., Distanti uno sputo. Disgusto e paura in Aurel Kolani e Jean-Paul Sartre, cit., p. 48: «Per Kolnai, in effetti, il disgusto non segnala mai un pericolo vero e proprio. Di fronte al disgustoso l’incolumità del soggetto non è mai messa veramente a repentaglio».
105 specchio deformante»160, ci restituisce un’immagine di noi stessi del tutto similare per alcuni aspetti a esso. Quali sono questi aspetti? Il disgustoso ci rammenta che anche l’uomo ha dei legami con la morte, che è composto di corpo e materia destinati inesorabilmente alla morte; la vita non sarebbe tale se non fosse rivolta alla morte e, anche durante il nostro percorso di vita, molte volte possono susseguirsi eventi o incidenti che ci ricordano questo nostro stadio finale. L’intenzione di morte allora ci accompagna durante tutta la nostra esistenza, non per ricordarci come essa possa essere vicina, ma per rammentare che essa prima o poi senza che ci sia dato saperlo, ci prenderà per sempre:
«La smorfia della morte presente in ciò che è disgustoso ci rammenta la nostra propria affinità con la morte, la nostra sottomissione alla morte, il nostro segreto desiderio di morte: non dunque, come il teschio e la clessidra, l’ineluttabilità puramente esistenziale della morte (in modo non diverso da quanto accade a chi, per caso, sia stato condannato a morte, nell’inesorabile avvicinarsi dell’ora dell’esecuzione capitale), ma il nostro essere essenzialmente sudditi della morte, il senso di morte della nostra stessa vita, il nostro consistere di materia destinata alla morte, si potrebbe dire fradicia di morte, pronta alla decomposizione»161.
Il soggetto e l’oggetto del disgusto condividono allora lo stesso genere di vita abitata dalla morte. Questa “disgustosità”, dunque, è avvertita in ragione di questa prossimità ontologica o sostanziale: in altre parole si può ritenere che qualcosa al di fuori di noi sia disgustoso perché anche la nostra natura lo è.
Tuttavia siamo sempre nell’ambito della prossimità e non ancora dell’identità. Infatti, come notato poco sopra, l’immagine che il disgustoso rimanda al soggetto è quella che si ritrova in uno “specchio deformante”: deformante perché non riporta esattamente l’oggetto come è in quel momento. L’oggetto disgustoso
160 Ibidem, p. 95. 161 Ivi.
106 ricorda al soggetto quale sia il suo destino che viene presentato come una certezza e una sicurezza: la morte. Questa però non è ancora in atto, ma si presenta solo come uno stato futuro se pur certo e inderogabile. Per questo lo specchio è deformante, perché – mentre l’oggetto sta ora marcendo e decomponendosi – noi ancora no. Ancora, è per questo anacronismo che possiamo parlare solo di prossimità ontologica o sostanziale e non propriamente di identità, per una questione temporale non coincidente nelle due entità. Il disgusto sembra avere proprio la funzione di reagire a questa prossimità, a questo “non ancora”, cercando per l’appunto di non far divenire questa prossimità un’identità: «ma se è un già e non ancora, non vi sarà disgusto che potrà frenare o impedire il naturale sviluppo della prossimità tra soggetto e oggetto in identità. La morte che si annuncia nella vita ha già vinto la sua battaglia e di questa vittoria viviamo angosciati l’inquietante non ancora»162.
Emerge qui con grande rilevanza quanto sia difficile non provare qualcosa di simile all’angoscia, se con essa Kolnai rimanda all’attenzione che l’individuo rivolge al suo intero sé, a tutta la sua persona e ai suoi «grandi e ultimi interessi vitali, i quali appaiono in pericolo»163. Che cosa può apparire più importante della stessa vita? Nonostante sia vero tutto ciò, possiamo risolvere questo apparente errore sostenendo che la morte non è vista qui come un pericolo in senso ordinario, ma come l’imprescindibile epilogo di fronte al quale nessuna speranza è più possibile. Questa forma peculiare di angoscia è allora definibile metafisica, ossia universale e assoluta perché propria della natura umana.
162 Cit. Tedeschini M., Distanti uno sputo. Disgusto e paura in Aurel Kolani e Jean-Paul Sartre,
cit., p. 49.
107
Conclusioni
Quali sono i risultati a cui sono giunta grazie alla stesura di questo mio lavoro finale? Direi che, sicuramente, gli esiti di questo mio studio sono molteplici.
In primo luogo quello che ho voluto fin da subito mettere in evidenza è come disgusto e paura, all’apparenza così simili e vicine, siano in realtà due emozioni diverse e per nulla equiparabili: spesso il disgusto è stato visto come una forma di paura e di timore ma, in realtà, il campo oggettuale proprio del disgusto non è il pericoloso e il minaccioso – come nel caso della paura – e anche solo per questa spiegazione le due emozioni non sono sovrapponibili. È vero, tuttavia, che a volte il disgusto porta a evitare oggetti o sostanze ritenute nocive e dannose per la nostra salute, per la nostra incolumità fisica o psicologica e, solo in questi casi, possiamo a rigor di logica sostenere senza esitazione che il disgusto svolga anche un importante ruolo positivo di salvaguardia e tutela della nostra persona – come avviene nel caso della paura – verso ciò che non soltanto disgusta, ci infastidisce e suscita ripugnanza, ma anche da ciò che seriamente genera apprensione e preoccupazione. Che il disgusto abbia una funzione di tutela non è un tratto essenziale dell’emozione, ma piuttosto una sua conseguenza.
In secondo luogo, durante la stesura della mia tesi, ha catturato notevolmente la mia attenzione la distinzione che Ekman fa tra emozioni primarie ed emozioni secondarie. Questa suddivisione ha creato in me non poche perplessità giacché le emozioni da me studiate rientrerebbero, secondo lo psicologo americano, nella
108 prima categoria, quella delle emozioni primarie. Esse sarebbero emozioni innate e riscontrabili in ogni popolazione; le secondarie invece originerebbero dalla combinazione delle emozioni primarie e si svilupperebbero con la crescita dell’individuo e con l’interazione sociale. Mi trovo d’accordo con il fatto che alcune paure o alcune forme di disgusto siano innate e connaturate nella natura umana. A mio parere, però, sono pochi gli oggetti che provocano naturalmente la nostra paura e il nostro disgusto (cioè, che tendenzialmente suscitano in tutti noi la medesima emozione). Questo comprometterebbe lo schema ekmiano, dal momento che non tutte le paure che conosciamo o le cose che ci disgustano sono presenti in noi ancor prima della nostra nascita. Mi spiego meglio: quali possono essere le forme di paura innata? Gli stimoli fisici molto forti, come il dolore o un rumore, generano per forza paura, una paura che, infatti, condividono anche gli animali. Oggetti, eventi o persone sconosciute dai quali l’individuo non sa cosa aspettarsi e neppure come affrontare. È fisiologico per l’uomo provare paura per tutto ciò che non conosce: si prova paura quando dobbiamo gareggiare per un’importante competizione sportiva, è una paura sana che ci spinge a dare il meglio di noi, a fare bene; si prova paura prima di un’interrogazione o di un esame universitario perché non sappiamo quali potrebbero essere le domande che ci verranno rivolte e, di conseguenza, non sappiamo se saremo in grado di rispondere correttamente. Incutono paura situazioni di pericolo per la sopravvivenza dell’individuo o per l’intera specie: l’altezza, il freddo, il buio, l’abbandono da parte della figura di attaccamento o, in ultima istanza, circostanze in cui è richiesta l’interazione con individui o animali aggressivi.
109 Allo stesso modo ci sono oggetti o situazioni che naturalmente e oggettivamente disgustano chiunque: un cadavere in decomposizione ricoperto di vermi che progressivamente ne mangiano le carni, zone e parti umane smembrate, “spappolate” e sfracellate, da cui è possibile scorgere le interiora umane, gli organi e copioso sangue.
Tutto questo sembrerebbe essere in linea con quanto sostenuto dallo psicologo americano, ma quante volte invece sono i genitori a insegnare ai loro figli piccoli ad avere paura di certe persone, di certi gruppi di individui o di intere etnie? Quante volte sono gli adulti ad ammaestrare e istruire i più piccoli sulle cose da ritenere disgustose e per questo stesso motivo da allontanare e rigettare? Nel corso del presente lavoro ho riportato le parole con cui Martha Nussbaum spiega questo concetto, facendo emergere con grande evidenza la tesi secondo cui il disgusto sarebbe profondamente influenzato da fattori sociali, economici, politici, ideologici, culturali e religiosi. Per esempio, sono i genitori a insegnare ai loro figli a provare avversione verso cose da cui loro sono invece primariamente attratti, come le loro feci. La reiterata avversione produrrebbe disgusto che si manifesterebbe solo a partire dai quattro anni di età. Prima di questa età le espressioni considerate di disgusto sono solo manifestazioni inconsce a sapori e odori ripugnanti ai più.
Tale posizione è sostenuta, come abbiamo visto, anche dall’antropologo francese Bourdieu, il quale ritiene che, oltre i fattori sopra menzionati, a influenzare le scelte di gusto di un individuo sia anche lo stato, la struttura sociale in cui si vive, oltre alla famiglia e alla scuola. L’autore mostra come, stando a contatto con un certo tipo di persone, appartenendo a una classe sociale piuttosto
110 che un’altra, frequentando una determinata scuola, essendo inseriti in una data famiglia e non in un’altra, diventeremo una persona con gusti determinati, con preferenze ben precise, sicuramente diverse da quegli individui che invece sono radicati in una realtà completamente diversa.
Inoltre, se è vero che le espressioni fisiche e facciali del disgusto e della paura sono le stesse in tutte le parti del mondo, non è altrettanto vero che a disgustare siano le stesse cose: in certe parti del mondo dopo aver mangiato è usanza emettere dell’aria in modo brusco e rumoroso per dimostrare di aver gradito e apprezzato il pasto. Da noi questo stesso comportamento, oggigiorno, sarebbe giudicato indice di maleducazione e anche offensivo per l’altrui sensibilità. In diverse zone dell’Africa è tradizione che tutti i commensali, indipendentemente dal fatto che facciano parte di un’unica famiglia o che si conoscano appena, mangino con le mani da un grande piatto comune e bevano tutti da un solo bicchiere. Questi comportamenti producono in noi occidentali grande disgusto. In Asia è possibile mangiare insetti e altre specie animali considerate sempre da noi occidentali disgustose. A fronte della globalizzazione e del cosmopolitismo – ma anche degli studi antropologici condotti dalla metà dell’Ottocento in avanti – tali abitudini e pratiche stanno divenendo sempre più conosciute e note anche nei nostri paesi, e per questo motivo, anche più accettate.
Tali esempi dimostrano come il disgusto sia influenzato da fattori ideologici, politici, sociali, economici e culturali tali per cui ciò che disgusta me non necessariamente disgusta un’altra persona e viceversa. Pertanto è vero che tutti hanno sperimentato almeno una volta nella loro vita l’emozione di disgusto, ma lo è altrettanto il fatto che lo provino spesso per cose diverse.
111 In conclusione se è condivisibile l’idea che la paura e il disgusto siano due emozioni sicuramente più semplici e più immediate, quasi spontanee e automatiche rispetto ad altre emozioni – quali per esempio la vergogna e l’invidia – è tuttavia riscontrabile anche in esse una forte componente cognitiva e valutativa che fa sì che tali emozioni non siano identificabili con mere manifestazioni corporee ma siano molto di più, giacché tali manifestazioni possono verificarsi anche in assenza di una vera e propria emozione, ma per stati fisiologici alterati e molto altro. Proprio per queste ragioni le due emozioni in questione non possono essere del tutto ascrivibili alla categoria di emozioni primarie.
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Ringraziamenti
Desidero ringraziare in primo luogo la Prof.ssa Alessandra Fussi, mia Relatrice, per la disponibilità e la reperibilità durante l’intera stesura del presente lavoro. Le sue correzioni, gli importanti spunti di pensiero fornitimi e i preziosi insegnamenti ricevuti da lei durante i suoi corsi mi accompagneranno ben oltre il mio percorso di studi.
Un ulteriore ringraziamento va al Dott. Danilo Manca per aver accettato l’incarico di correlatore, leggendo la mia tesi e invitandomi a divertirmi durante la composizione del mio elaborato.
Ringrazio colui che per primo mi ha fatto incontrare e apprezzare la filosofia, il Prof. Roberto Rossetti; forse, se non fosse stato il mio professore del Liceo, io ora non discuterei la mia tesi in Filosofia. Ricordo con piacere le sue lezioni e il mio stato d’animo mentre lo ascoltavo: ero affascinata ed entusiasmata dagli argomenti, dal suo modo di esporre la materia e dalla sua abilità di far entrare noi studenti in contatto con i grandi pensatori e le loro idee.
Il ringraziamento più grande va ai miei genitori, i quali mi hanno permesso – non senza sacrifici ma sempre pronti a incoraggiarmi – di compiere questo percorso giungendo a questo traguardo. Ogni altra parola sarebbe superflua; spero solo di intraprendere nuovi cammini che li rendano orgogliosi di me.
Vorrei, inoltre, ringraziare i miei nonni che hanno condiviso con me questo viaggio, a volte difficoltoso e impervio, dandomi la forza e la calma necessarie ad affrontare al meglio ogni esame. Ricordo la nonna Angelina offrirmi la cioccolata
perché “aiuta a concentrarsi” ed evitare di telefonarmi per non disturbarmi quando sapeva che dovevo preparare un esame o la tesi stessa. Ricordo che alla fine di ogni esame chiamavo la nonna Vania per farle sapere l’esito dell’esame e che sarei andata a trovarla dopo giorni di studio intenso. Ricordo la collana con il