Cesareo V. e Reguzzoni, M (1986)(a cura di), Tendenze di istruzione nei paesi occidentali,
2. La parola ai referenti regionali
2.1. L’Apprendistato in Piemonte
L’apprendistato ha origini antiche: istituito con regio decreto in quanto forma di lavoro che si svolgeva nelle botteghe artigiane, nel 1955 viene disciplinato da una normativa nazionale come ‘addestramento obbligatorio’. Negli anni ’60 del secolo scorso assume perciò una connotazione per così dire ‘educativa’ e finalizzata al sem- plice apprendimento del leggere e del far di conto. Ora tale esigenza non è più così conclamata: da un lato il livello di scolarità è aumentato e dall’altro si è garantiti dal contratto di lavoro. Agli inizi degli anni ’90 si comincia quindi a rivedere l’impianto della normativa, la quale favorisce il datore di lavoro poiché la parte contributiva è defiscalizzata a carico dello Stato.
Nel 1997 la grande riforma che si profila attraverso la revisione di tale istituto contrattuale allarga i benefici a ogni settore produttivo, si rivolge a tutte le persone con qualsiasi titolo di studio e crea un obbligo giuridico: far formare la persona all’esterno dell’impresa. Si dà quindi avvio all’attività formativa vera e propria ed entrano in gioco le Regioni. La nostra è fra le più operative, rispetto a quelle del Sud e del Centro, ma si riscontrano subito alcune contraddizioni: poiché si tratta di un contratto agevolato, tutte le imprese cercano di risparmiare, quindi si tende non tanto a valorizzare il contratto formativo di per sé, ma a considerarne la validità in
2 I contributi dei referenti regionali, raccolti attraverso interviste mirate, e quelli dei referenti provinciali, emersi nel corso di un focus group, sono stati successivamente elaborati.
3 Hanno partecipato alle interviste i referenti regionali: Alfonso Brero (Istruzione e Formazione Tecnica Superiore), Gian- franco Buratti (Formazione continua), Nadia Cordero (Dirigente settore Standard formativi, Qualità e Orientamento Pro- fessionale), Gabriella Del Mastro (Diritto/Dovere, Mercato del lavoro), Gaudenzio De Paoli (Dirigente settore Attività formative), Pietro Viotti (Apprendistato), Sergio Viglierchio, Gabriella Boeri, Liris Schiavi (Standard formativi).
funzione della convenienza. Chi si occupa della parte formativa ha perciò a che fare con un sistema non adeguato a rispondere alle esigenze dell’impresa e, se i livelli formativi sono bassi, i costi non sono tuttavia indifferenti.
Tali incoerenze persistono, generando malcontento un po’ dovunque, fino al 2003, quando interviene la cosiddetta ‘legge Biagi’ la quale, sostanzialmente, ri- vede l’impianto e produce una riforma di notevole portata, sui cui presupposti la Regione Piemonte fa un’esperienza interessante, dovendo legiferare sulle modalità di organizzazione delle proprie competenze. La tipologia contrattuale viene infatti articolata su tre categorie importanti, che riguardano:
- i giovani (minorenni);
- i percorsi di apprendistato finalizzati all’acquisizione di qualifiche/specializzazioni (i grandi numeri);
- i percorsi di apprendistato finalizzati all’acquisizione di titoli di studio superiori.
Con la LR 2/2007, la Regione Piemonte stabilisce quindi il modo di intendere le tre tipologie di apprendistato. La novità consiste nel fatto che, con la legge Bia- gi, ora l’impresa può avere responsabilità di formazione e in tal senso si crea una compensazione fra le spese dello Stato e gli investimenti dell’impresa, introducendo, inoltre, un terzo soggetto: i contratti collettivi di lavoro. Ad ogni contratto vengono perciò attribuite le specifiche competenze in base ai profili formativi secondo i quali le imprese possono assumere. Tuttavia, essendo impensabile immaginare una forma- zione indirizzata a tutti quelli esistenti, s’inizia a fare ordine. Si esaminano perciò i 1.650 profili contrattuali e, rapportandoli a quelli standard della Regione Piemonte, si cerca una possibile corrispondenza tra i profili professionali standard regionali e quelli contrattuali delle imprese. Dall’enorme lavoro di analisi e comparazione risulta che il mondo della formazione è in condizione di rispondere in modo coerente per il 70%, mentre per la parte restante non è in grado di formulare un’offerta formativa pubblica. Per l’apprendista che entra in formazione, la Regione prevede quindi la possibilità di crediti spendibili sulla base di un piano formativo individuale, parte integrante del contratto di lavoro, ma difficile da formalizzare.
Un altro nodo centrale della questione è rappresentato dal fatto che l’impresa viene messa in gioco, in quanto essa può venire identificata come luogo in cui si ga- rantisce un certo tipo di formazione, la cosiddetta ‘formazione formale’, che assicura a chi la subisce la certificabilità e la tracciabilità dell’attività formativa, prescrittiva ma ordinata. L’agenzia formativa è sempre presente con una responsabilità diretta,
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e tale è anche quella del tutore aziendale, che ha il compito di seguire l’apprendista nel processo di formazione formale e di quello non formale. A sua volta, egli viene formato per esercitare al meglio la propria funzione, svolgendo anche un compito di tipo pedagogico, dovendo introdurre e accompagnare il giovane nel nuovo ambiente di lavoro. A tal fine si codificano dei moduli formativi motivazionali e l’aspetto dell’accoglienza al lavoro è molto accurato. L’obiettivo è quello di rendere credibile il sistema di formazione nei confronti dell’impresa e di integrare l’uno con l’altro, evitando una formazione inutile e autoreferenziata.A partire dalle disposizioni della LR 2, tutte le nuove regole possono essere applicate solo se a monte c’è un’intesa fra le parti sociali. L’istituzione, in accordo con l’impresa, operando una scelta di grande qualità, individua un metodo per dare credito alla FP. La Regione stabilisce pure che l’impresa svolga direttamente anche la parte formativa prevista per l’apprendista e, con le parti sociali, individua, attraverso formule molto semplificate, vari requisiti per i formatori, rispetto a luoghi, attrezza- ture e strutture in ordine alle competenze. Per quanto riguarda i contenuti, invece, vengono declinate quattro tipologie di competenze trasversali: informatica, lingua inglese, lingua italiana e matematica.
Soltanto di recente si inserisce nell’apprendistato la possibilità di assolvere sia l’Obbligo di Istruzione, sia il Diritto/Dovere. La nuova norma, infatti, prevede la possibilità di avviare contratti di apprendistato a partire dai 15 anni e le Regioni dovranno concordare come realizzare questa novità, che al momento non è ancora vista come una risorsa.
Anche in Piemonte, pur attraversando ancora una fase di crescita quantitativa, viene messa in discussione la funzione sociale, educativa e di modalità primaria di transizione al lavoro dei giovani attribuita all’apprendistato: tale contratto non sembra più in grado di soddisfare appieno le esigenze delle imprese e dei giovani, tanto che è in corso una campagna di riforma e di rilancio sull’idea di un nuovo apprendistato ‘agile’, proprio perché commisurato, al tempo stesso, alle necessità che emergono da entrambe le parti. Pare infatti che, quanto più l’ambito formativo viene formaliz- zato e istituzionalizzato in processi esterni e separati da quelli lavorativi – come se formazione e lavoro fossero processi antagonisti, il primo a favore della persona, il secondo dell’impresa – tanto più è percepito come un semplice adempimento. Inoltre la complessità delle evoluzioni normative non agevola il superamento delle criticità, che non possono certo trovare soluzione nel breve periodo, in quanto strettamente connesse al più ampio processo di trasformazione degli ambiti educativi e del lavoro.
culturale, ma anche disporre di capacità tecniche che prevedano la messa in campo di adeguati metodi didattici per motivare il giovane a comprendere l’importanza della formazione sul lavoro: per un ragazzo a rischio di esclusione sociale, infatti, sono più importanti gli aspetti motivazionali rispetto agli altri elementi. Per fortuna, oggi si è creata la possibilità di farlo lavorare con una formula mista, che lo valorizzi come persona e gli permetta di riprendere gli insegnamenti che ha lasciato: si tratta di un’opportunità, ma non è automatico che l’interessato la colga come tale.
A supporto di quanto affermato, occorre precisare che i contratti durano quattro anni, ma nella realtà si riducono a due, sia perché vengono trasformati prima del quarto anno, sia perché cessa il rapporto con l’impresa. Di conseguenza, per capitalizzare l’investimento in formazione a fronte di percentuali di cessazione molto elevate, è as- solutamente necessario trovare forme condivise di riconoscimento dei crediti. Per tali motivi, con la formula del ‘piano formativo individuale’ già accennato si sono declinati ogni anno dei piani formativi di dettaglio composti da unità formative specifiche, per cui, se il contratto di lavoro s’interrompe a metà, le unità formative concluse saranno valorizzate al fine di un riconoscimento nell’ottica del lifelong learning.
Si ritiene inoltre che, come dimostrano altre esperienze europee, l’istituto dell’ap- prendistato possa rappresentare un canale formativo che corre in parallelo ai percorsi dell’istruzione e a quelli relativi alla FP e che si debba procedere a una revisione dell’istituto tale da consentire la progettazione di percorsi definiti per filiera profes- sionale, finalizzati al conseguimento, in condizione lavorativa, di titoli in progressione crescente, dalla qualifica professionale al diploma professionale, al diploma d’istru- zione secondario superiore e ai successivi titoli universitari.
Nel percorso di ridefinizione della funzione e delle modalità applicative dell’ap- prendistato, istituto che, come si diceva, ha rappresentato una delle modalità più nobili ed efficaci attraverso cui trasmettere, da una generazione all’altra, i saperi tecnici, a partire dal 2005 si realizzano infatti le prime applicazioni sperimentali e regolamentazioni a livello regionale di un terzo tipo di contratto, denominato ‘alto apprendistato’ – ambito in cui si può affermare che il Piemonte sia all’avanguardia in Europa – finalizzato perlopiù al conseguimento di titoli universitari e di alta for- mazione (diploma di scuola secondaria superiore, laurea, master e, dall’agosto 2008, dottorato di ricerca) fondamentali per favorire l’occupazione di giovani in posizioni qualificate.
Da questo spaccato emerge quindi che la funzione della Regione è quella di operare sussidiariamente per la promozione e il sostegno di nuove modalità di relazione tra imprese e atenei del territorio, per sperimentare nuovi modelli formativi e conformare
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l’innalzamento del livello di istruzione e dell’orientamento dell’alta formazione alle esigenze del mondo del lavoro. Al fine di impostare un modello sperimentale com- patibile con le necessità e i vincoli dei soggetti coinvolti, si procede ad analizzare i modelli di formazione adottati dalle università e si attua un approfondito confronto con le associazioni dei datori di lavoro e dei rappresentanti dei lavoratori per definire i fabbisogni e le aspettative delle imprese.Nell’ambito della sperimentazione, che vede il coinvolgimento dei tre atenei pie- montesi, si realizzano quindi 16 master universitari di primo e secondo livello e un corso di laurea specialistica, in cui vengono inseriti con successo circa 180 apprendi- sti assunti in 92 imprese del territorio, le quali si mostrano molto interessate a tale contratto, poiché nella valorizzazione delle competenze formative possono anche individuare i futuri manager della loro organizzazione.
Dai dati della sperimentazione emerge che i diversi soggetti – in primis imprese, università, apprendisti – esprimono una valutazione nel complesso positiva sullo stru- mento e sul modello organizzativo e gestionale, orientato all’ottica partecipativa tra i vari attori coinvolti. Il valore primario attribuito al processo d’interazione sviluppato tra essi nelle diverse fasi si è rivelato infatti funzionale a una crescita non riducibile alla mera riproduzione dei distinti ‘saperi’, ma a una maturazione complessiva attra- verso un processo di reciproca trasformazione, mirato all’acquisizione di competenze articolate e complesse.
Attualmente è in fase di elaborazione il modello per la promozione e il sostegno di percorsi di ricerca in apprendistato volti al conseguimento del titolo di dottore di ricerca. Anche in questo caso l’impianto presenta ampi gradi di flessibilità progettuale e una forte curvabilità applicativa, che permettono una marcata personalizzazione formativa.
Per sostenere tali percorsi occorre ribadire la necessità che il cofinanziamento pubblico venga investito non solo a supporto dei processi formativi, ma anche per azioni di sistema, volte alla promozione della funzione sociale, culturale ed economica dell’apprendistato e al sostegno della progettazione di nuovi modelli d’intervento. 2.2. La Formazione iniziale
Negli ultimi anni si sono fatti grandi passi avanti nell’ambito della Formazione iniziale. Il modello di partenza dei tradizionali corsi biennali di qualifica al termine della scuola media ha subito notevoli modifiche. Un tempo era un percorso molto strutturato, senza le cosiddette ‘competenze di base’, ma con un’infarinatura di cultura
generale orientata alla professione (con discipline come italiano, storia e geografia) ed era previsto uno stage nei due anni. Tutto era incentrato sull’obiettivo finale di andare a lavorare e rispondeva al ‘modello del fare’, anche se diretto a ragazzini di 14 anni.
Alla fine degli anni ’90, oltre ai percorsi classici che, dopo il biennio, proponevano anche un terzo anno di specializzazione nel mestiere scelto, si comincia a pensare a progetti particolari, destinati a un’utenza più difficile, ovvero a ragazzi che hanno abbandonato la scuola o che appartengono a famiglie con problemi, a ragazzi non seguiti o in carico ai servizi sociali.
Intorno al 1995, un’iniziativa comunitaria chiamata Youthstart stanzia risorse per attivare una serie di interventi a favore dei cosiddetti ‘giovani a rischio’. In quegli anni comincia perciò a prendere forma un progetto, in genere annuale, di forte alternanza scuola-formazione: su un corso di 800/1.000 ore, una metà sono di formazione e l’altra di attività lavorativa vera e propria, svolta in laboratorio o in azienda. La tipica formula del docente in cattedra con l’allievo in aula non è certo un modello vincente per ragazzi che provengono da esperienze scolastiche fallimentari: ci si rende conto dell’inutilità di ripresentare loro un modello già rifiutato.
La Regione finanzia quindi alcune iniziative, con un buon riscontro di risultati, tra cui in particolare un progetto realizzato dal Sermig, il cui obiettivo finale è la ristrutturazione di una parte della palazzina a opera degli allievi stessi che, posti in condizione di misurarsi con un obiettivo concreto, sono entusiasti di partecipare da artefici di un’impresa il cui l’obiettivo finale è chiaro e accessibile. Si sa che quando i ragazzi non vedono l’utilità di ciò che stanno imparando o facendo, si smarriscono facilmente: è la strategia che si cerca di proporre, con molta fatica, anche nella scuola. In quegli anni, tuttavia, sulla base di tale esperienza, nascono dei progetti chiamati
Preparazione al lavoro (PAL), che si assestano sulla durata delle ore sopraccitate e che,
se non rilasciano una qualifica, sono però propedeutici a un eventuale inserimento in un corso vero e proprio per conseguirla, oppure nell’apprendistato (se gli iscritti hanno l’età richiesta) o, addirittura, nella scuola. Alcuni di quei ragazzi, infatti, si rimotivano allo studio, scoprendo che impegnarsi non è poi così terribile.
L’esperienza dei PAL si concretizza poi in vari indirizzi e continua tuttora, ma l’opportunità nasce in quegli anni, quando si affacciano i problemi della dispersione e dei ragazzi in difficoltà, ai quali sarebbe stato difficile proporre un corso biennale. La classe di allora è composta da un numero di allievi che seguono discipline comuni e che viene poi suddivisa in vari indirizzi (meccanico, alberghiero, laboratori orientativi, etc.), in base alla propria inclinazione: un metodo che dovrebbe essere sperimentato anche oggi, soprattutto nella scuola media.
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In quel periodo ci si rende conto che occorre fare qualcosa in più e alcune agenzie nate in quegli anni colgono l’esigenza e indirizzano l’attività verso una tipologia di utenza non facile – ma capace di ripagare ampiamente gli sforzi profusi – con percorsi alternativi o propedeutici alla formazione, alla scuola o al lavoro stesso, nell’appren- distato. Tale modello, ormai consolidato da dieci/quindici anni con un certo indice di successo, si basa soprattutto su attività laboratoriali.Ai ragazzi a rischio, altrimenti destinati all’emarginazione e alla devianza, poiché senza riferimenti familiari, si offrono possibilità di recupero mediate dalla figura degli insegnanti che, da veri formatori preparati e predisposti, si occupano dell’allievo/a nella sua interezza, non limitandosi ad agire nello spazio della lezione, ma dedicandosi alla persona anche nel suo tempo libero, magari organizzando attività ludico-sportive all’interno della struttura.
Si tratta, per quanto si può, di far leva sulla relazione, mettendo a disposizione di questi soggetti i mezzi per decidere del proprio riscatto. Del resto, le famiglie che essi hanno alle spalle non sono in condizioni di occuparsi di loro e non li stimolano di certo ad assumersi delle responsabilità. Purtroppo il sistema scolastico di oggi tende ancora a discriminare, mentre dovrebbe dotarsi di strumenti e di personale apposi- tamente formato per garantire le stesse opportunità educative ed essere paritario su tutti i fronti, per non rischiare di riprodurre le differenze sociali di partenza: eppure talvolta succede che l’allievo sia lasciato a se stesso, soprattutto se la famiglia non lo segue. Nel ripensare alla riorganizzazione del servizio di orientamento è quindi importante trovare modalità e strumenti innovativi, in grado di offrire il giusto so- stegno proprio ai ragazzi e alle ragazze che ne hanno necessità.
Da alcune indagini emerge che la nostra è una nazione con scarsissima mobilità sociale, che la scuola è nel complesso poco meritocratica e che il successo arriva solo a chi ha i mezzi per conquistarlo.
Per quanto riguarda la scuola secondaria di I grado, sembra infatti necessario operare un cambiamento radicale, migliorare la fase di orientamento, ricercare nuove modalità e predisporre nuovi strumenti per sostenere gli allievi nella scelta di un percorso di istruzione e formazione in sintonia con le proprie capacità e propensioni. L’implementazione di un efficace servizio di orientamento necessita sicuramente di un costante adeguamento organizzativo a livello territoriale, che garantisca risposte di sistema a un contesto in continua evoluzione, altrimenti si rischia di ridurre l’in- tervento orientativo ad azioni episodiche poco efficaci, affidate alla buona volontà di singoli insegnanti o di singoli istituti scolastici.
sario offrire ai ragazzi una pluralità di possibilità. Non è detto, infatti, che la scelta compiuta a 14 anni debba essere confermata fino ai 20 senza incertezze. Se poi si può cambiare e tornare indietro, ancora meglio. Nell’immaginario degli adulti sembra esserci un mondo ‘perfetto’, in cui non si concede ai giovani l’errore, il dubbio o il ripensamento: nel corso degli anni, nel realizzare queste iniziative si sono riscontrate difficoltà, anche a causa di tali preconcetti. Non è un caso se la Regione Piemonte, nel tempo, ha predisposto un’ampia gamma di offerte formative: oltre ai percorsi triennali di qualifica, si realizzano percorsi di qualifica con crediti in ingresso, progetti annuali flessibili destinati ai drop-out della scuola, laboratori scuola-formazione destinati ai pluriripetenti della scuola secondaria di I grado, sostegni individuali o di gruppo finalizzati a consentire l’ingresso in corso d’anno, laboratori di recupero e sviluppo degli apprendimenti (LaRSA) per consentire la mobilità tra i percorsi di Istruzione e Istruzione e Formazione Professionale e, infine, sostegni individuali per consentire l’integrazione dei disabili nei corsi di FP.
A tal proposito occorre sottolineare che bisognerebbe investire maggiormente anche nella formazione dei formatori, proprio per supportare i docenti che devono gestire classi talvolta assai problematiche: in molte strutture si mettono in campo più forze (tutor, orientatori, mediatori) per cercare di dare sostegno e supporto agli insegnanti, sia nella conduzione dell’aula, sia nella gestione delle relazioni con i fa- migliari e si lavora con mentalità, prospettive, attese e organizzazione diverse rispetto a quelle della scuola. Sebbene molti formatori dimostrino capacità a lavorare in team e disponibilità a operare anche con allievi drop-out, tuttavia, permane la difficoltà a operare con tale tipologia di utenza e la conseguente necessità di formarsi e aggior- narsi costantemente.
D’altra parte è ben diverso occuparsi di ragazzini disagiati, di adulti in formazione continua o di stranieri. Nel tempo e in base ai positivi risultati ottenuti, si è visto tuttavia che vale davvero la pena investire in questo tipo di iniziative e, quindi, nei bandi e negli atti di indirizzo si è sempre cercato di stimolare e incentivare le agenzie formative a presentare progetti destinati al recupero di persone a rischio, inserendo risorse in tale ambito.
2.3. Passaggi tra istruzione e formazione: i LaRSA
Con la riforma Moratti del 2003, che introduce il Diritto/Dovere all’istruzione e alla formazione professionale, il Piemonte intende sperimentare i percorsi triennali di qualifica, in cui vengono inserite le cosiddette ‘competenze di base’. Al termine