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Populismo, web, democrazia ed implicazioni pedagogico-educative

Tra nuovi (web) populismi e vecchie povertà Fabrizio Manuel Sirignano

3. Populismo, web, democrazia ed implicazioni pedagogico-educative

Nell’era del capitalismo globale e finanziario, oltre alle crescenti sperequa- zioni socio-economiche e politico-culturali si assiste anche ad una crescen- te erosione dei poteri degli Stati-nazione. Erosione che si intreccia e si identifica con la crisi di rappresentatività del modello della democrazia dei partiti. Infatti, i partiti da organizzazioni capaci di conciliare il pluralismo con l’unità, le divisioni – sì partigiane – sulla base di principi ed aspirazio- ni diverse e talora divergenti tra loro con la ricerca di soluzioni di compro- messo entro un quadro condiviso del bene comune, sono divenuti in molti casi dei cartelli istituzionalizzati ed oligarchici (Revelli, 2013, pp. 38-64) oppure dei comitati elettorali tendenzialmente sempre meno capaci di

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rappresentare gli interessi e gli umori dei cittadini nelle loro diverse e sem- pre più complesse ed articolate stratificazioni sociali.

In un quadro ancora in divenire, entro cui è possibile anche individuare linee di trasformazioni e di uscite dalla crisi in senso progressivo ed eman- cipativo, come, ad esempio, nel caso dell’esperienza/esperimento politico- culturale della web-democracy attuato in Finlandia per la stesura condivisa e partecipata della Carta costituzionale, o in quello più generale delle reti orizzontali della sub-politica (Beck, 2000, p. 52), l’aspetto più preoccu- pante dello scollamento tra governanti e governati è l’emergere del rancore dalle democrazie in crisi. Rancore che presuppone ed alimenta un’ondata crescente di populismo, che, nella sua evoluzione contemporanea, si ma- nifesta come “rivolta degli inclusi” (Revelli, 2017, p. 3)

Pur nel permanere di alcuni tratti costitutivi di fondo – concezione or- ganica del popolo, contrapposizione dicotomica e manichea tra popolo virtuoso ed élites corrotte, identificazione con un leader carismatico, capa- ce di interpretare e realizzare il bene del popolo – differentemente dal po- pulismo orizzontale di fine Ottocento ed inizio Novecento, che si caratte- rizzava come “malattia infantile” della democrazia, ossia come “rivolta de- gli esclusi” (Revelli, 2017, p. 3), che per censo o per classe non potevano partecipare alla vita politica del proprio Paese, odiernamente, invece, il po- pulismo, nelle sue varie forme, – “telepopulismo”, “cyberpopulismo” e “populismo dall’alto” (Revelli, 2017, pp. 121-140) – si configura come una “malattia senile” (Revelli, 2017, p. 3) e viene alimentato artatamente da chi fa leva sulle frustrazioni di coloro che progressivamente sono messi ai margini dai processi della globalizzazione economico-finanziaria.

Nel web viene favorita una retorica imbonitrice molto spicciola: l’antica

agorà da spazio dialogico è stata sostituita da un’arena virtuale in cui le in-

formazioni sono comunicate in maniera frammentaria, dando spazio alle

bufale e alla violenza linguistica nei confronti di chi non si allinea alle vo-

lontà dei “registi occulti” e delle società per affari che spesso si nascondono dietro Movimenti populisti e post-ideologici:

Lo spazio delle parole si è ampliato a dismisura, ma nella stessa mi- sura si è ridotto il tempo per il ragionamento e la discussione. Le uniche parole sono rimaste, così, parole d’ordine (o di disordine) ri- petute all’infinito, riprese a voce sempre più alta per coprire la voce di chi in quelle parole non si riconosce (Antonelli, 2017, p. 11).

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Il web-populismo crea nei soggetti la convinzione (fallace) di esser pro- tagonisti attivi della politica attraverso la pubblicazione di post sui social e nei blog, mentre in realtà ci si trasforma inconsapevolmente in veri e propri webeti (utilizzando una calzante definizione di Enrico Mentana) funzionali agli interessi di un burattinaio occulto, anche perché “alla par- tecipazione si è sostituita la condivisione. Un meccanismo che sfrutta la re- ticolare orizzontalità della rete, ma è in realtà verticale e verticistico. Perché trasforma ogni attivista in un passivo ripetitore impegnato a diffondere, ri- lanciandolo, un messaggio preconfezionato” (Ibidem).

Il populismo, quindi, strumentalizza coloro che formano: […] tutti insieme, una moltitudine di insoddisfatti e di arrabbiati […] privi di un linguaggio adeguato a comunicare il proprio racconto, persi- no a strutturare un racconto di sé, e per questo consegnati al risen- timento e al rancore (Revelli, 2017, pp. 152-153).

Ed è a partire da questo “vuoto” (Revelli, 2017, p. 147) di rappresen- tanza e di senso che deve prendere le mosse una pedagogia politica forte, in grado di leggere e comprendere questa incapacità dei soggetti a strutturare

un racconto di sé aiutandoli a prendere direttamente la parola per ricostrui-

re un’identità individuale e collettiva che, nel decantare gli “umori” nega- tivi, possa contribuire ad autotras-formare i soggetti rancorosi e rabbiosi in soggetti consapevolmente agenti in modo cooperativo, solidale, costrutti- vo rispetto alle sfide della globalizzazione.

Dunque, la globalizzazione economico-finanziaria alimenta la formazione di moltitudini marginali, frammentate, rancorose e tendenzialmente dogma- tiche, non solo prive e private di competenze adeguate rispetto alla comples- sità crescente delle problematiche globali, ma anche incapaci di prendere la

parola e di definirsi come soggettività. Ne segue la disponibilità a riconoscersi

in leader carismatici che fanno leva sui loro più retrivi umori negativi. Di contro ad una deriva tecnicistica, che identifica i processi educativi con le sole procedure “operative”, le “strategie didattiche”, del tutto fun- zionali all’ideologia del “pensiero unico” liberista, e coerentemente alla sua dimensione utopica, la pedagogia deve presiedere la dimensione valoriale del soggetto-persona e del soggetto-cittadino attraverso la formazione di un “soggetto resistente”, che mediante adeguati percorsi educativi, acqui- sisca lo sviluppo di determinate capacità che lo rendano partecipe consa- pevole responsabile del proprio agire sociale.

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Le democrazie per essere effettivamente operanti devono presupporre e allo stesso tempo devono anche contribuire alla formazione della “demo- crazia cognitiva” (Morin, 1999, p. 12), per alimentare la crescita di un’opi- nione pubblica che sviluppi in modo adeguato le capacità di analisi critica dei processi in atto, in modo da prendersi cura del bene comune in una so- cietà sempre più complessa ed articolata.

A meno di non volere ridurre la democrazia alla sola dimensione elet- toralistica bisogna fare riferimento al paradigma della “cultura democrati- ca” che, sul piano etico, è incentrato su una triplice passione: per il bene comune, per l’uguaglianza, per l’apertura, e su quello epistemologico fa le- va sulla complessità e sul falsificazionismo.

La dimensione etica e quella epistemologica si intrecciano e si sosten- gono reciprocamente. La partecipazione dei cittadini ai processi delibera- tivi, ossia la presa di parola, il dialogo e soprattutto l’apertura – intesa co- me disposizione a considerare l’altro e la pluralità non come minaccia alla propria identità ma come possibilità di confronto e di crescita – costitui- scono l’essenza stessa della democrazia.

La forma mentis atta al confronto, alla critica ed alla reversibilità delle decisioni presuppongono una concezione falsificazionista della conoscen- za, che non è mai assoluta e definitiva, ma è sempre rivedibile, parziale ed aperta, in quanto intrinsecamente limitata e, pertanto, esposta all’errore (Popper, 2004). Ne segue che la democrazia intesa come forma mentis e si- stema valoriale è il portato di un assetto sistemico di per sé educante (Nit- ti, 1977, pp. 647-648), costituito da una pluralità di forze, di forme di partecipazione politica, di fonti d’informazione e di libertà di espressione. Dunque: “Una società mobile, ricca di canali distributori dei cambiamenti dovunque essi si verifichino, deve provvedere a che i suoi membri siano educati all’iniziativa personale e all’adattabilità” (Dewey, 2012, p. 96).

Da un punto di vista pedagogico-educativo, un tale paradigma demo- cratico presuppone per la sua progressiva e mai esaustiva realizzazione la formazione di soggetti aperti, critici e consapevoli, ossia di cittadini a cui sia data la concreta possibilità di sviluppare le loro capacità basilari, a par- tire dalla cura di sé attraverso la presa di parola, l’autonarrazione identita- ria in cui si intrecci la propria singolarità con dimensioni collettive via via superiori, dal locale al globale (Morin, 2011).

In altri termini, se la democrazia presuppone la partecipazione e a sua volta la partecipazione presuppone le capacità – che si basano sull’istruzio- ne – ne segue il ruolo centrale che sia la pedagogia sia la scuola sono chia-

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mate ad esercitare nella costruzione di società interculturali, dialogiche e pluraliste, in cui sia possibile “coltivare l’umanità” (Nussbaum, 1999) del proprio sé in relazione ad altri sé.

Dunque, nel contesto delle contraddizioni del turbo-capitalismo avan- zato, si tratta di ri-lanciare il modello educativo della paideia per ri-gene-

rare la costruzione di processi che abbiano una portata ed una valenza ef-

fettivamente democratici: dialogicità ed autonomia morale. Tratti questi ultimi che sono costitutivi della teoria/pratica pedagogica, se non la si vuo- le risolvere/dissolvere nelle sole dimensioni della tecnica e della scienza.

Nell’ambito di questo quadro pedagogico-politico di più ampio respiro e di più “alti” orizzonti formativi che, a partire dalle tendenze “altre” in es- so già presenti, si proiettano oltre l’esistente, la scuola riveste un ruolo an- cora centrale nell’edificazione di una società genuinamente democratica.

La formazione di soggetti autentici nella loro singolarità, di cittadini consapevoli, capaci e disponibili necessitano di istituzioni educative teo- rizzate e praticate come laboratori di cittadinanza attiva.

Alla razionalità economica e strumentale, all’ideologia neo-liberista del “pensiero unico”, che, nel rispondere agli interessi di una minoranza di privilegiati sempre più esigua, cala le sue scelte dall’alto bisogna sostituire una razionalità critica, che attraverso la diffusione e la promozione della cultura e della formazione sia capace di garantire il pieno sviluppo delle singole individualità nel contesto di scambi sociali dialogico, solidali, aperti e pluralistici.

Emerge, quindi, il bisogno sempre più impellente di riallacciare il “rap- porto interrotto” tra educazione e politica, nell’orizzonte di un “impegno pedagogico” che sia in grado di rilanciare un pensiero autenticamente ci- vile oggi più che mai necessario alla democrazia.

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Premessa

Un tema che da qualche tempo è al centro delle mie ricerche, in ambito storico-educativo, riguarda il rapporto architettura/pedagogia, un tema che in risposta alle sfide della modernità, trova espressione nel corso del Novecento in alcune teorie ed esperienze educative, che al di là delle loro differenziate tipologie, sono accomunate dall’assegnare un’importanza fondamentale alla valenza estetico-pedagogica dell’architettura e degli ar- redamenti scolastici, concepiti come un centro di promozione e di svilup- po umano e quindi di riflesso della società (Pironi, 2017). Si tratta di un filo conduttore che – come vedremo – sarà al centro del dibattito che ani- merà architetti, urbanisti e pedagogisti nel secondo dopoguerra, nella con- vinzione che dopo la tragica esperienza della guerra e della dittatura, oc- corra realizzare un modello di pedagogia comunitaria, ispirato all’ideale socratico di scuola-agorà, in contrapposizione alle tante scuole-caserme esi- stenti. Ciò che appare significativo è come in alcuni momenti cruciali, di fronte a nuove richieste di cambiamento, come agli albori del secolo scor- so, nell’immediato secondo dopoguerra e con l’inizio degli anni Sessanta, si avverta la necessità di avviare una riflessione sull’importanza degli spazi educativi, che oggi si rivela più che mai attuale di fronte alle pressanti emergenze che investono la scuola italiana.