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Roberta Caldin

una responsabilità educativa che ha nel futuro la sua prospettiva temporale più impegnativa; nella consapevolezza dell’irreversibilità dell’azione educa- tiva, l’indicazione etica di pensare l’intervento formativo; nella possibilità, lo straordinario campo d’azione; nell’utopia, la dimensione trainante del lavoro educativo; nell’intenzionalità, la ponderatezza e la volontà di un in- tervento formativo adeguato.

I contesti esistenziali possono attivare modalità formative che siano an- che orientative, in grado, cioè, di provocare comportamenti e atteggia- menti che generano e incrementano la fiducia nelle proprie potenzialità, nella possibilità di migliorarsi e di imparare in cooperazione con i propri simili, condividendo con essi e con gli adulti di riferimento dei progetti evolutivi. In tal senso, non va dimenticata l’efficacia dell’orientamento im-

plicito e della complementarietà orientativa della famiglia e del contesto so-

ciale di appartenenza – anche transitorio – nel quale si vive, costituiti da stimoli, conferme, disconferme ecc., che quotidianamente – e per l’intero itinerario di formazione del soggetto – si attuano e incidono in maniera significativa sulle aspettative e sull’autostima personali.

La declinazione integrata di modalità educative protettive/vincolanti ed emancipative/autonomizzanti aiuta a contenere le situazioni di perenne dipendenza ed evita che gli ostacoli alle spinte emancipative e all’auto- orientamento comincino nel contesto esistenziale di appartenenza. Spesso, anche gli insegnanti, gli educatori, i riabilitatori – e/o altri professionisti impegnati nell’area della disabilità – interpretano i comportamenti e le esperienze delle persone che vivono una disabilità esclusivamente come “espressione della loro disabilità”, anziché collegarle a spinte personali au- tonome, di sperimentazione, di conflittualità, di verifica delle proprie po- tenzialità e capacità: come si può facilmente dedurre, il cammino che por- ta a discriminare il deficit come unica variabile irreversibile, dalle molte al- tre sulle quali è invece possibile e doveroso l’intervento formativo, è lungo e complesso. Si tratta anche di far incrociare, senza mortificare, la ri-atti- vata progettualità, l’investimento immaginifico con la presa di coscienza dei limiti che derivano dal deficit: sono questi vincoli a costringere all’ab- bandono, forse definitivo, di elementi futuribili desiderabili nelle aspetta- tive degli adulti – siano essi genitori/educatori/riabilitatori ecc. – ma to- talmente impossibili nelle realistiche performances di chi vive un deficit. Pa- radossalmente, il faticoso emergere di elementi realistici riguardo alle atte- se future rischia, talvolta, di innescare ulteriori atteggiamenti di iperprote- zione, compensativi dei sensi di colpa derivanti da questo nuovo status.

Percorsi di identità e disabilità: il contributo della famiglia e della scuola

L’integrazione lavorativa, ad esempio, si configura come la fase conclu- siva di una complessa operazione di costruzione e di restituzione di auto- nomie sociali, comportamenti e capacità operative; per questo, tale impe- gno deve essere già assunto durante la scuola superiore (o, meglio, durante la scuola media di primo grado), al fine di evitare il vuoto di opportunità, alla fine del percorso scolastico e prima di un eventuale inserimento lavo- rativo, che rischia di vanificare le autonomie acquisite e pone la famiglia in una pericolosa situazione cronica di stallo.

Come indica Montobbio, lasciar andare un figlio disabile nel mondo degli adulti “richiede fatica e coraggio, ma anche il raggiungimento da parte dei genitori di una grande maturità personale e di coppia […]”. Montobbio intravede, nell’esito positivo di queste situazioni, l’emergere di

uno scambio: la maturità dei genitori come pre-condizione che apre la stra-

da alla conquista, da parte del figlio disabile, di una sua personale maturità (Montobbio in Carbonetti D. e G., 2004, pp. 9-12).

Un approccio formativo che può aiutare i processi riabilitativi riguarda “la narrazione” di sé. Raccontare una situazione complessa – attraverso molteplici modalità – infatti, permette una con-crescita, una co-evoluzio-

ne nella quale sono presenti, almeno, due dimensioni fondamentali: una

legata all’apprendimento e una legata alla socializzazione; in tal senso, an- che quando parliamo di situazioni complesse dobbiamo riferirci a queste due coordinate che devono procedere di pari passo e non una a scapito dell’altra.

Raccontare uno stato di difficoltà può servire a collocare la dimensione della disabilità all’interno di un’area di “normalità”. La narrazione del li-

mite – cioè, dire un’esistenza difficile da parte di chi sperimenta sulla pro-

pria pelle una situazione di disabilità o svolta dai familiari di persone con disabilità, che nella propria dimensione esistenziale provano un limite o una sofferenza – costituisce un’esperienza poliedrica e completa che può indicarci i percorsi da avviare per l’inclusione sociale: esperienza straordi- nariamente più globale rispetto alla parzialità dello sguardo dello studioso, dell’educatore, dell’insegnante che, pur competente, manca del “vissuto” della disabilità.

L’importanza del narrare il dolore e la sofferenza può essere legata alla condivisione o all’impatto emotivo, ma deve assolutamente, secondo il modello complesso della disabilità che contempla le dimensioni dell’ap- prendimento e della socializzazione, procedere verso una conquista di ca- rattere cognitivo (e non rimanere solo un vissuto emotivo): quest’ultimo

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può essere lusinghiero, ma rischia di configurarsi come settoriale, di non evolvere e/o di non far co-evolvere.

In ciò consiste anche il senso della presenza, in un gruppo classe, di uno studente con una disabilità complessa che conduce a svolgere attività con percorsi meno raziocinanti, ma condivisi dall’intera classe, alla quale gli studenti appartengono; così come possono appartenere ai gruppi dei compagni di classe, ai genitori, agli insegnanti, avendo in comune dei si- gnificati condivisi. Nel gruppo, infatti, si crea un’interdipendenza tale per cui divengono riconoscibili e accettabili le piccole dipendenze (da qualco- sa o da qualcuno); questo, in un gruppo classe in cui c’è uno studente con disabilità, sollecita gli altri a capire cosa significa avere una piccola dipen- denza da qualcun altro e aiuta gli altri studenti a mettere la “pelle” dello studente con disabilità (nella consapevolezza che si tratta di una prova transitoria, controllabile e circoscritta).

Questa è un’operazione estremamente complicata perché necessita di una/un insegnante significativa/o che guidi bene il gruppo classe, per in- dirizzarlo verso il cambiamento, accettando di perdere qualcosa della cono- scenza pregressa e cristallizzata per immettere nella strutturazione del sa- pere qualche elemento di novità: tale percorso permette l’interiorizzazione del contenuto, la modificazione dell’atteggiamento (esempio: la rappre- sentazione mentale emancipativa del disabile) e non solo del comporta- mento (esempio: dare il posto, in autobus, al disabile).

In queste situazioni, il ruolo dell’insegnante è ineguagliabile e carico di responsabilità poiché usa se stesso quale strumento principale del suo la- voro. In questo senso, il lavoro di chi si prende in carico questo compito è centrato sul recupero della persona e sulla valorizzazione delle sue parti sane attraverso l’assegnazione di ruoli sociali attivi; nell’intervento educa- tivo che spinge all’integrazione lavorativa, ad esempio, è tutta la parte ini- ziale di accompagnamento che è importante, perché siano contenuti gli scacchi lavorativi.

I contenuti dell’insegnamento, i metodi e i modi di presentarli devono essere vari in modo che le/gli studentesse/studenti, con diversi modi e rit- mi di apprendimento, possano seguirli e progredire in base al loro proces- so di apprendimento. Le/gli insegnanti possono offrire molteplici oppor- tunità d’interazione per mezzo dell’organizzazione di gruppi flessibili, sol- lecitando e incoraggiando le amicizie tra pari; l’educazione può creare si- tuazioni nelle quali gli allievi possono “decidere”, esprimere se stessi, sen-

Percorsi di identità e disabilità: il contributo della famiglia e della scuola

tire, pensare e agire, in clima relazionale positivo nel quale ogni alunna/o è rispettata/o e aiutata/o a realizzare le proprie potenzialità.

Riteniamo che la scuola superiore e/o l’educazione professionale (nella quale confluiscono una grande percentuale di giovani con disabilità) pos- sano costituire delle sedi di eccellenza per il potenziamento di dimensioni introspettive nei giovani e per la ri-definizione, attraverso la riflessione su di sé e sul proprio agire, di ruoli futuribili e di percorsi possibili in un’età nella quale (tutti) i giovani mettono in campo ogni potenzialità.

Questo impegno, che la scuola può assolvere in maniera eccellente, so- stiene le azioni delle famiglie dato che, troppo frequentemente, lo sforzo che viene richiesto ai genitori è eccessivo, soprattutto se sono soli, se non sentono vicina una rete di sostegno che li contenga e progetti con loro; per questo, il pensare e l’agire dei genitori deve essere supportato da un’allean- za costruttiva e affettiva che coinvolga altri genitori, i figli stessi, gli inse- gnanti e tutto il mondo della scuola, i servizi sociali e sanitari presenti sul territorio, il mondo accademico con la sua disponibilità di competenze e con l’offerta di percorsi di ricerca, indirizzate ad assumere corresponsabi- lità chiare e coerenti; un’alleanza che permetta ai genitori di recuperare la capacità di progettare per i propri figli, pensandoli finalmente grandi fin da quando sono piccoli.

Le indicazioni della pedagogia inclusiva ci sostengono: lo scopo forma- tivo è quello di creare situazioni in cui le persone possono imparare da sole osservando, toccando, sperimentando e pensando; l’apprendimento è un processo interattivo: non può esserci apprendimento se le persone non so- no coinvolte/i attivamente nel processo di apprendimento e se quest’ulti- mo non risulta significativo, utile per tutti e legato ai contesti di apparte-

nenza.

All’interno del tema della rilevanza pedagogica e progettuale dei con- testi di appartenenza e facilitanti i processi inclusivi, vi si trovano anche i contributi che di seguito vengono presentati: Costellazioni familiari. Nuove

foto di famiglia, di Luigi Pati; Uscire dal precariato. L’alternanza formativa scuola-lavoro di Giuliana Sandrone; Educazione motoria e sportiva. Prospet- tive di cambiamento di Mario Lipoma.

Non va dimenticato che è necessario sempre, e in via prioritaria, il re- cupero di dimensioni che emergono dai modelli educativi generali. Da tempo insistiamo sul fatto che un positivo e lungimirante lavoro educativo sui modelli generali, con l’offerta di elementi ordinari e usuali, ha una ri-

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caduta positiva anche nelle situazioni di disabilità, pur nelle specifiche de- clinazioni nelle quali ciascuna situazione va definendosi.

Bibliografia

Montobbio E. (2004). Una maturità immatura. In D. e G. Carbonetti, Mio figlio

Introduzione

In un recente lavoro (Cottini, 2018) ho analizzato in maniera dettagliata il costrutto di educazione inclusiva sviluppandolo su quattro piani, fra lo- ro complementari e interagenti, con l’intento principale di individuare so- luzioni operative in grado di garantirne la massima espressione. Questi quattro piani sono quelli dell’affermazione dei principi di riferimento; dell’organizzazione del contesto e delle procedure ai fini inclusivi; delle

metodologie da mettere in campo per promuovere l’inclusione; della verifi-

ca circa la significatività operativa di tali metodologie e, più in generale, dell’efficacia reale di una scuola inclusiva.

In concreto, la crescita di una cultura dell’inclusione come diritto ina- lienabile di tutti e di ciascuno, deve connettersi, a scuola, con un’azione ri- volta al contesto e agli individui e con un controllo delle procedure e dei risultati.

Dal punto di vista operativo devono coniugarsi azioni indirizzate su due versanti. Da un lato la predisposizione di contesti educativi in grado di accogliere tutti, com’è nella logica dell’inclusione, richiede un’organiz- zazione e un coordinamento precisi e, nello stesso tempo, flessibili fra i di- versi attori che entrano in gioco, sia interni che esterni alla scuola. Tutte le norme e i testi di riferimento pedagogico e didattico ne parlano e ne sot- tolineano l’importanza, anche se, nella pratica, non sempre queste alleanze si concretizzano e si sviluppano nella maniera più adeguata, portando alla delineazione di un ambiente e di un curricolo orientati all’inclusione.

Dall’altro lato, la prospettiva dell’inclusione passa attraverso un affina- mento delle procedure didattiche, le quali debbono promuovere il ruolo

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