“Prefazione” alle Composizioni teatrali moderne del 1772, una sorta di arringa difensiva che
ribatte quasi punto per punto, e talvolta utilizzandone efficacemente le stesse esatte parole,
le argomentazioni di Gozzi. Nella prima parte la traduttrice espone una breve storia del
teatro italiano fino al momento della sua corruzione a causa della Commedia dell’arte, cui
segue una lunga apologia del dramma borghese a essa contrapposto nonché un saggio in
difesa di se stessa e del valore della propria riforma teatrale, cui non mancano artifici retorici
e topoi dell’oratoria giudiziaria
90. Spiega la traduttrice:
Intanto che ogni dì più imbastardivano i semi della Poesia rinata e ricaduta in Italia, eglino cacciavano lentamente, ma ben profonde e nutrite, radici oltramonti. Il Gran Cornelio, e Racine, e Quinalt, e Moliere portarono quasi nel medesimo tempo al sommo grado di perfezione la Tragedia, i Drammi, la Commedia. Le Scene d’Italia erano ingombre di mostruosità strampalate, e d’insipidi centoni, a’ quali fu dato il nome di Commedie dell’Arte. Tutte le stravaganze lasciate in Ispagna dagli Arabi, e cresciutevi felicemente, passarono cogli Spagnuoli fra noi. Il falso meraviglioso invase i diritti della sensata Commedia; la monotonia stucchevole che avea regnato per lungo tempo fu con poca fatica sopraffatta dallo strepito, dalla varietà, dalle decorazioni. Non si andò più al Teatro per adoperarvi l’intelletto, ma gli occhi e gli orecchi solamente. La ragione, il buon senso, il maneggio delle passioni, la delicatezza, la forza della Poesia Teatrale si stabilì sul Teatro di Francia, e vi si mantiene tuttora. Passò il secolo della barbarie Italiana, o almeno la barbarie e la stravaganza non dominò più assolutamente e senza contraddizione su’ nostri Teatri. Il Lazzarini ripristinò l’imitazione de’ Greci sul principio di questo Secolo. Il Marchese Maffei andò più oltre: ma egli fece una sola Tragedia, e i nostri Teatri furono consacrati alla traduzioni ora bene ora mal fatte sugli originali di Cornelio e Racine, che ne hanno fatto un gran numero.
Il Goldoni fu più fecondo; egli lo fu forse di troppo. Le sue Commedie richiamarono il popolo alla ragione, quel popolo medesimo che ad altre novità erasi affollato, e spesso diserta dal Teatro che dà la meglio condotta rappresentazione per andarsene a inondare quello, dove lo spirito e le piacevolezze degli Attori fanno tutti gli sforzi per abbellire un carcame di Commedia, sproporzionato e balzano. Noi non potemmo risorgere. Spalleggiati da cento combinazioni favorevoli, i Francesi Legislatori delle mode, Dittatori delle conversazioni, consultati e fedelmente seguiti dalla camera d’udienza fino alla cucina, non si lasciarono sloggiare dal Teatro. Eglino non risparmiarono diligenza veruna per viepiù profondamente radicarsi nell’invasione; e dopo d’aver ridotte alla maggior coltura possibile le varie provincie conosciute dell’arte Drammatica, tentano nuove strade, e non le tentano invano. Stanchi di starsene legati a’ precetti antichi, e a quella prescrizione che obbligava gli Autori a maneggiar sempre
89 Carlo Gozzi, Memorie inutili, cit., vol. II, p. 290.
90 Si noti l’utilizzo di frequenti cleuasmi (“Non conviene per avventura all’età mia…”, “Se per mia disavventura, e senza mia colpa…”, “Per non annoiare con istucchevoli ragionamenti…”, etc.), le esortazioni dirette (“Pregherei chi m’avesse mosso guerra…”, “Lasciateci adunque far uso in pace…”, etc.), il lessico proveniente dal campo semantico legislativo (“accusata”, “giustizia”, “colpa”, etc.), l’uso mirato della seconda persona plurale (“Noi amiamo”, “noi siam paghi…”, etc.), l’uso del condizionale (“aggiungerei…”, “ardirei...”, etc.), la struttura anaforica di alcune parti del testo (“direi… direi…”, “che la morte orribile di Beverley non formerà… che la seduzione di Jennneval non inviterà… che le angoscie del Disertore non incoraggeranno…”, etc.), l’abilissimo uso della preterizione (“Per non annoiare con istucchevoli ragionamenti gli Amatori del genere burlesco; io tralascerei dire un quantità d’alte cose […]. Ma se nel momento medesimo del determinarmi a tacere, sentissi alcuno che persistesse a rimproverarmi […] Allora io avrei forse la femminile debolezza di non poterla tenere in gola, e direi tutto d’un fiato: che…”), nonché la sagacia dell’espediente conclusivo di citare in chiave sarcastica la stessa “Prefazione” al Fajel.
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illustri nomi di Principi o d’Eroi nella Tragedia, e i difetti o i vizi nella Commedia, eglino pensarono trar profitto dall’immenso fondo delle combinazioni familiari. Le tragiche avventure degli uomini privati non si credevano dagli antichi atte a fare una grand’impressione sull’Uditorio. O il popolo che udiva le Tragedie Greche era libero, e vedea volentieri finir male i tiranni e violenti uomini; o egli era stato domato, e prendeva interesse nella calamità de’ Sovrani. I guai delle private ed oscure famiglie non avrebbono forse commosso gli uomini tutti occupati di pubblici oggetti, o gl’incalliti sotto al duro giogo della schiavitù e familiarizzati colle afflizioni. Qualunque ne sia stato il motivo, (da che non è di grandissima importanza l’indovinarlo per congetture) gli antichi Drammatici hanno lasciato tutto il merito del tentativo ai Francesi dell’età nostra. I Sigg. d’Arnaud, Beaumarchais, Mercier, Saurin, de Falbaire, ed altri si sono messi a lavorare con isquisito artifizio pel Teatro loro parecchi soggetti, che né triviali affatto si possono chiamare, poiché la Virtù e le nobili passioni non possono esser triviali, né al Tragico detto comunemente sublime appartengono, perché non sono condotti in iscena Principi od Eroi.
Non fu pacificamente permesso alla nuova spezie di Drammi il comparire sul Teatro, e l’attraervi il popolo curioso, e l’impegnarlo nei dettagli domestici delle oscure famiglie nobilitati da’ sentimenti di raffinata vanità, e resi interessati ora dalla semplicità loro medesima, ora da un concorso di combinazioni funeste o minaccievoli. L’annunzio solo di novità fece aggrottare i sopraccigli a tutti quelli che dalle Tragedie, e dalle Commedie delle Spezie usate aveano di già tratto, o speravano di trarre gloria e vantaggi. Da cento parti uscirono pungenti critiche; e molti uomini di Lettere provarono che questa terza specie era mostruosa, e non meritava di essere moltiplicata. La moltitudine non letterata, e unicamente condotta dal proprio buonsenso, si affollò a’ Teatri, s’intenerì, chiese la replica de’ nuovi Drammi, vi ritornò sovente, e colla insistenza dell’applauso provò dimostrativamente agli studiosi disapprovatori; che l’acutezza dell’ingegno è fallace quantunque volte per qualunque modo fa torno alla rettitudine del cuore.
Non conviene per avventura all’età mia, ed è superiore di molto alla tenuità del mio ingegno, e agli studi che rubando scarsi ritagli di tempo a più necessarie occupazioni ho potuto fare finora, l’intraprendere un’Apologia di questa spezie di Drammi sì acerbamente criticata dai pochi, e sì ben accolta dai molti. Il diritto, ch’io posso aver acquistato trasportandone alcuni dall’idioma Francese nel nostro, non basterebbe a permettermi di entrare in discussioni sennon allora che da qualche aggressore, malgrado al sesso, alla fresca età mia, alla scarsezza dell’ingegno, al rispetto ch’io ho mai sempre mostrato e nutrito verso d’ognuno, fossi con discortesia provocata. Anche l’Italia, povera come pur troppo sappiamo di buoni Poeti Teatrali, è soggetta a vedersi malignare da’ concittadini e rapire dagli stranieri; anche in Italia pur troppo v’ha chi si scatena contro le novità ragionevoli. Se per mia disavventura, e senza mia colpa io mi vedessi costretta a difendermi, e fossi direttamente accusata contr’ogni giustizia, e ad onta d’ogni riguardo della mia debolezza, come colei che cerca di tramutare il sollievo e ‘l divertimento Teatrale del popolo Veneziano in tetraggine o melanconia, che l’orrore delle domestiche crudeltà de’ mariti, la disperazione o ‘l castigo atroce de’ viziosi, che gli errori della gioventù sedotta, che gli amori, gli artifizi, e persino alle galere mette in iscena, vincerei la mia ripugnanza e l’avversione, che ho e deggio avere pelle dispute, e tenterei di giustificarmi.
Direi per esempio, (senza però servirmi di parole pungenti che potrebbero far sospettare ch’io fossi esacerbata) che l’invitare il popolo ad uno spettacolo lugubre non è un cacciarlo per forza dagli spettacoli allegri; che se la moltitudine vuol andare a piangere, non se ne dee far un delitto agli Autori de’ Drammi flebili o a chi gli ha bene o male tradotti. Direi che pur troppo essendo familiari gli effetti del vizio, comuni le lagrime delle oneste famiglie, frequenti le disgrazie delle persone virtuose, non saprei come credere pernicioso quel genere di spettacolo per cui ‘l vizio fosse messo in abominazione dal confronto medesimo dell’afflitta virtù; e l’innocenza tradita dalla seduzione, e la fiducia leale alla falsa amicizia sagrificata imparassero la via d’intenerire i cuori degli uomini. Direi che se dalle Galere si ponno trarre esempi d’Eroica virtù, dalle Galere più popolate e più vicine al minuto popolo che non sono i Troni si debbon forse a preferenza cavare. Ardirei per fine d’assicurare che la morte orribile di
Beverley non formerà giuocatori, che la seduzione di Jennneval non inviterà i giovani alle pratiche
pericolose; che le angoscie del Disertore non incoraggeranno mai chicchesia a mancare a’ proprj doveri, e viceversa che dall’eccesso generoso di Giovanni Fabre vivo esempio d’Amor Filiale succhieranno i figli nuovi gradi di tenerezza pe’ Padri loro; da’ Due Amici impareranno quanto agli amici si debba, e quanto s’innalzi sopra il resto degli uomini chiunque passa, quando l’uopo il richiegga, sopr’a’ limiti dell’anime volgari prescritti all’amicizia. Pregherei chi m’avesse mosso guerra a volere per poco spogliarsi d’ogni
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prevenzione appassionata, e ad assoggettare ad un esame imparziale siffatti Drammi. Che se la buona morale delle massime insegnateci colla pratica, la ragionevolezza della condotta, il maneggio delle più nobili passioni desse scuola all’Uditori, dalla verisimiglianza degli avvenimenti perfettamente ingannato, e disposto a ricevere le impressioni della virtù pel mezzo della commozione, e chi mai vorrebbe far a se medesimo il torto d’ostilmente inveire contro siffatte rappresentazioni? Io non adornernerei di acutezze pungenti le semplici ragioni che pienamente esponessi, né vorrei poi far confronti degli effetti che possono produrre i Drammi patetici con quelli che dalle non di raro licenziose frottole, e dall’esempio de’ poco virtuosi caratteri, di frequente sono prodotti, a corruzione delle fanciulle, delle spose, de’ figliuoli, de’ servi. Forse animata dalla viva persuasione, io direi agli oppositori del Dramma flebile: Deh lasciateci piangere pelle disavventure che opprimono la virtù, anziché costringerci a ridere pelle felici riuscite della malizia, del vizio! Noi amiamo più quel Fabre, addolorato e virtuoso in Galera, che un tristo servitore premiato e trionfante pel buon esito di piacevoli baratterie: noi siamo paghi d’una serie commovente d’avvenimenti familiari piucché d’un giro forzato di stravaganze. Lasciateci adunque far uso in pace delle potenze dell’anime nostre sensibili: e andate pure dove si ride, che non saremo men buoni amici per questa differenza di genio.
Per non annoiare con istucchevoli ragionamenti gli Amatori del genere burlesco, io tralascerei dire un quantità d’alte cose, che per avventura darebbono motivo a nuovi addentamenti: imperocchè egli è troppo facile che una fanciulla scrivendo come fa, si lasci sfuggire qualche tratto che dagli uomini consumati negli studi sia trovato meschino.
Ma se nel momento medesimo del determinarmi a tacere, sentissi alcuno che persistesse a rimproverarmi perché invece di tradurre non faccio del mio, perché sono persuasa che il popolo non abbia il torto se va al Teatro dov’io lo chiamo a piangere, e per siffatti altri delitti? Allora io avrei forse la femminile debolezza di non poterla tenere in gola, e direi tutto d’un fiato: che sono troppo evidentemente da profondissima persuasione convinta della scarsezza de’ miei talenti per ben condurre un pezzo drammatico; e che poi rispettando me stessa e il Pubblico quanto si deve, non averò mai la temerità di mettere in iscena un mio lavoro se lo crederò cattivo o mediocre. Aggiungerei che forse il tradurre delle buone Opere Teatrali straniere può essere una scuola per farne di propria invenzione; che chi vuole sviluppare i talenti del Pittore, manda il putto a disegnare sugli originali de’ buoni maestri; che per insegnare l’arte oratoria sogliono i sensati precettori far tradurre da’ loro scolari i migliori squarci di Demostene, di Cicerone, che il Teatro Italiano non perde punto della sua dignità ricevendo le copie d’una spezie di Drammi; che questa è la maniera di mettere gl’ingegni nostrali più facilmente a portata di farsi posseditori dell’arte, cui così bene maneggiano i Francesi. Alla fredda regolarità delle nostre Tragedie unificano la passione, il sentimento, la vivacità del Dialogo, e profittino dell’esempio; ecco la malia di Cornelio, di Racine, di Voltaire. Il popolo ama di piangere, e ascolta le sei, le otto, le quindici, le venti sere di seguito lo stesso Dramma: chi è quel potente che possa formare un partito così numeroso e costante, a dispetto del sentimento interiore del popolo? Una fanciulla non già. Finirei di parlare in mia difesa, ripetendo il tratto giudiziosissimo d’un celebre nostro Scrittore: È un traditore
del suo Pubblico chi cerca con un falso zelo e coll’impostura di farlo disgustare e nauseare di ciò ch’ei gode.91