2.3 L'orazione funebre di Cosme
2.3.3 Prima parte
Essendosi proposto di parlare della vita del defunto principe di Condé, l'oratore pone un quesito: è giusto che un predicatore prenda in considerazione la genealogia di un personaggio per elogiarne la vita? I testi sacri non danno una risposta univoca e lasciano l'oratore nel dubbio. Nella vita di Cristo, l'evangelista Matteo fa risalire la genealogia del figlio di Dio fino ad Abramo prima di descriverne le qualità divine e umane: egli ritiene dunque indispensabile che l'elogio della vita di un santo sia accompagnata dalla nobiltà della sua ascendenza. Invece nelle lettere di San Paolo, l'elogio della discendenza di un uomo non è altro che pura vanità in quanto la genealogia di un cristiano ha principio al momento del battesimo e non ha
altra fonte che Dio. Anche l'antico testamento dà all'oratore delle risposte contrastanti, facendo l'elogio di alcuni personaggi enumerando i loro nobili padri e lodandone altri senza nemmeno menzionare le loro origini. Persino la teologia non dà una risposta univoca a questo quesito, anche se la teologia antica tendeva a considerare i nobili natali di un personaggio come un segno divino della sua grandezza d'animo, mentre la teologia moderna ritiene che l'anima viene creata direttamente dalle mani di Dio e che dunque non ha nessuna relazione con il sangue e il corpo in cui è incarnata.
Non sono tuttavia queste riflessioni che preoccupano il predicatore; egli infatti afferma che il suo timore deriva da una questione ulteriore, mettendo in dubbio che il discendere da questa nobilissima casata sia un privilegio e affermando che potrebbe essere considerata una disgrazia. Cosme si scusa di mettere in dubbio una famiglia fra le più illustri esistenti, ma questa grandezza plurisecolare, che dovrebbe garantire uno spazio privilegiato di crescita spirituale, in realtà ha mostrato di aver subito la corruzione del mondo partecipando a ribellioni ed eresie. Infatti Luigi I di Borbone, primo principe di Condé, ed Henri I di Condé, nonno e padre di Henri II, furono a capo della fazione protestante nelle guerre di religione e si resero dunque traditori della fede e della corona. In verità è proprio questa disgrazia, dalla quale egli si è risollevato grazie alla virtù, che ci dà lo spunto per l'elogio di questo grande personaggio.
Enrico nacque a Saint-Jean-d'Angély, piazzaforte degli ugonotti, «ville qui estoit l'horreur des Catholiques & les delices des infideles, comme estant l'un des plus forts Asiles de l'Impieté»171, e crebbe in un ambiente nemico delle virtù e della cristianità a causa degli errori dei suoi avi. Ciononostante egli sconfisse la ribellione e l'eresia, così come Ercole uccise i due serpenti venuti a soffocarlo nella culla, e all'età di otto anni obbedì al re che lo richiamava a corte, e ritornò a Dio in seno alla Chiesa. La sua vittoria sullo spirito dell'eresia e della ribellione non può essere paragonata solo alla vittoria di Ercole sui serpenti, ma anche al giovane Davide che da fanciullo domava orsi e leoni con la stessa facilità con cui si doma un agnello. La violenza delle guerre di religione ricordava proprio delle creature feroci, rese ancor
più pericolose dalla disperazione in cui erano state gettate dalla ferma conversione del giovane principe. Con le armi della dolcezza e della civiltà egli trionfò facilmente sull'eresia.
Gli ugonotti non si arresero così facilmente e tentarono con ogni mezzo di trattenere il giovane principe: da La Rochelle si ordinò che egli fosse trattenuto come prigioniero. Fu grazie all'interessamento di papa Clemente VIII, il quale intuì la grandezza del principe, che egli fuggì l'eresia e ritornò sulla retta via. In questa contesa fra il seggio pontificio e la roccaforte degli ugonotti, Cosme rivede la celebre lotta fra le due donne che davanti a re Salomone si contendono la maternità di un bambino: gli ugonotti, non potendo possedere interamente il principe, erano pronti a dividerlo in due richiedendo il suo braccio armato, mentre il cuore del principe era chiaramente già nelle mani degli avversari. Fu re Enrico IV che, saggio come Salomone, pose un termine alla disputa e riconsegnò il principe alla Chiesa.
Lo stesso Henri rispose in modo duro al partito avversario quando gli chiese appoggio contro la Chiesa alla quale aveva giurato fedeltà. Divenne così uno strenuo difensore della fede per vendicare le offese subite per lunghi anni dai principi ribelli, con una furia che sembrava essere preannunciata dal fulmine che squarciò il cielo il giorno del suo battesimo.
Combatté con ardore in Guienna, dove rifiutò le condizioni fin troppo blande concesse dal duca d'Elbeuf ai ribelli. Riuscì a revocare la pace e, come un flagello inviato dal cielo, sconfisse innumerevoli nemici e riportò alla Chiesa molte cittadine che da anni erano sotto il giogo degli eretici.
Non è dunque giusto, chiede Cosme, che un tale campione della cristianità sia premiato da Dio con infinite glorie e virtù? La solida saggezza, la rara eloquenza e tutte la migliori virtù che possedeva gli furono infatti necessarie per sconfiggere gli eretici e ribelli. Inoltre fu ricompensato con la migliore delle mogli di sangue reale, la quale generò dei figli degni della gloria di un tale principe.
Tuttavia, fra i doni che gli furono fatti da Dio, non si possono contare solo la gloria e la prosperità, ma anche le disgrazie che dovette subire, nelle quali ritroviamo il carattere della croce di Cristo. È dovere di ogni cristiano glorificare le difficoltà e le sofferenze inviateci dal cielo, così come nel De Providentia Seneca ci mostra che i
buoni sono afflitti da terribili sventure.
Dunque è da considerarsi un bene al di sopra di tutti quello di soffrire per Dio, ed è necessario elogiare le croci che ci vengono inviate, e quasi porle su un piano superiore rispetto ai favori e ai privilegi che ci vengono concessi. Se il principe defunto ha ricevuto tante virtù ed è stato premiato con la nascita di due figli degni delle più alte glorie, egli ha anche sofferto innumerevoli disgrazie. Egli affrontò sempre con animo forte tutti gli avvenimenti infausti della vita, come l'allontanamento dalla corte, l'incarcerazione, le malattie e la morte prematura dei sui figli.
La costanza nelle difficoltà è la virtù più spiccata di Henri, ed è anche per questa ragione che le tragedie della sua vita possono essere considerate delle grazie. Quando in giovane età fu colpito da una malattia mortale egli affermò senza indugio di non temere la morte, e non disperò nemmeno quando perse tre figli durante la prigionia, venendo poi premiato con due figli eccezionali. Dunque, se la sua vita fu un'alternanza di gioie e dolori, il suo cuore rimase sempre forte e fedele sia nella prosperità che nella disgrazia.
Il prelato lamenta che un'ora di discorso non basta a dipingere quasi sessant'anni di gesta virtuose, quindi si limita a portare solo alcuni esempi. Egli accoglieva sempre con favore i più poveri, che giungevano al suo cospetto in cerca di giustizia, e rispondeva loro con equità e benevolenza. Inoltre mostrò di possedere la più preziosa delle virtù cristiane, il perdono: egli infatti non solo perdonò l'autore di una poesia satirica che lo infamava pubblicamente, ma fece riconciliare costui con il parente che lo aveva denunciato davanti al re. Infine, il principe fu sempre un assiduo frequentatore dei sacramenti e mostrò sempre il suo amore per tutte le cerimonie cristiane.
Fra tutte queste belle azioni, però, ce ne sono alcune negative, che macchiano il ritratto del principe, sebbene siano irrisorie rispetto ai bei tratti già dipinti. Sarebbe un'ingiustizia far passare sotto silenzio questi piccoli errori: un oratore è infatti tenuto a mostrare al pubblico anche i vizi di colui che sta elogiando.
Gli errori dei grandi hanno così tanta risonanza nel mondo che volerli nascondere agli occhi del popolo otterrebbe l'effetto contrario e opposto, facendo
perdere al panegirico ogni credibilità. Infatti Eusebio è comunemente ritenuto uno storico inattendibile per aver taciuto la morte del figlio Crispo scrivendo della vita di Costantino172, e nessun artificio potrà nascondere la responsabilità di Filippo II nella morte del principe Carlo173. In questi casi è lo stesso silenzio ad annunciare con clamore la colpa.
La più grande colpa che si possa imputare a questo principe è di essere stato capo e difensore del popolo contro il volere del proprio re. Malgrado in alcuni casi lo stesso re abbia ammesso che il principe, pur operando contro il suo volere, si adoperava per il bene comune, il predicatore si astiene dal considerare positivamente il suo spirito impetuoso e ribelle. Queste azioni devono essere considerate come una momentanea eclissi per controbilanciare la continua luminosità di questo sole. Come Mosè che uccise l'egiziano per difendere l'israelita o San Paolo che perseguitò i cristiani per mantenere l'ordine, così Henri mostrò un eccessivo e rude fervore che lo condusse a compiere degli errori in gioventù. Questo spirito indomito fu poi addolcito dall'età ed egli ritornò all'obbedienza, al servizio del re e della Chiesa.
Il discorso sugli errori del principe conduce direttamente a riflettere sulla sua condizione di uomo, riportando l'attenzione sulla tragica realtà della sua morte. Se la morte è una punizione, essa non si è di certo abbattuta sul principe per punire i suoi crimini: essa lo ha colpito per punire i peccati di tutti gli uomini, privandoli della gioia della presenza di un uomo straordinario.
Per colpire uno stato indegno Dio punisce il suo popolo sottraendogli i suoi capi più illustri. Questa terribile vendetta divina ci offre però una possibilità di redenzione donandoci un modello di vita al quale ispirarci per migliorare. Se gli uomini, e in alcuni casi la Chiesa, tendono ad elevare gli uomini illustri fino al rango di divinità, Dio ci ricorda che essi non sono altro che uomini riconducendoli sullo stesso piano di tutti gli altri con la morte. Avvicinandosi al letto di morte di questo
172Crispo fu condannato a morte dallo stesso Costantino, nel 326. Sebbene si sospetti che la ragione dell'esecuzione fosse una relazione avuta con la matrigna Fausta, le cause ufficiali restano tutt'ora ignote.
Crispo fu anche condannato a subire la damnatio memoriae.
173Don Carlos fu imprigionato nel 1567 per aver ordito una congiura contro il padre, re Filippo II. Morì l'anno successivo, ma le voci secondo le quali sarebbe stato assassinato dal padre a causa di una relazione con la matrigna non hanno alcun fondamento storico.
principe bisogna dunque dimenticare i titoli e le qualità, e considerare solamente la sua vita di cristiano.
L'esempio di Henri tocca ancor più profondamente chi assiste allo spettacolo della sua morte: egli mostra la stessa presenza di spirito che aveva in vita. In punto di morte l'imperatore Vespasiano chiese che il suo letto fosse posto in verticale affinché egli potesse accogliere la morte in piedi, come conviene ad un imperatore. Alla stessa maniera, Henri II di Condé affermava che un principe doveva morire con gli occhi aperti, per mostrare anche davanti alla morte una completa conoscenza di Dio e di sé stesso. E così egli morì senza chiudere gli occhi, né del corpo né dello spirito.