6. Uniformità, trasversalità e tutela della concorrenza
7.2. Il principio e gli interessi protetti
Nella nuova prospettiva la concorrenza assurge a principio fondamentale del sistema economico italiano, come affermato nella sent. n. 64 del 2007, in cui la Corte ha elevato a rango di parametro di legittimità costituzionale il principio di concorrenza, espresso nell’art. 41 Cost.360. L’ampliamento della prospettiva ha riguardato anche i
soggetti coinvolti dalla tutela della concorrenza, come confermato nella sent. n. 270 del 2010 nella parte in cui afferma che «il consumatore in ogni latitudine costituisce oggetto di specifica considerazione nella disciplina delle concentrazioni». L’evoluzione della lettura dell’iniziativa economica da parte della giurisprudenza costituzionale ha, quindi, contribuito a determinare il “peso” in concreto del principio di libera concorrenza361.
La tutela della concorrenza comprende – come è noto - l’interesse dei potenziali imprenditori. A riguardo, la sent. n. 336 del 2005 ha individuato la finalità della norma posta a tutela della concorrenza nella «garanzia di parità di trattamento e di misure volte a non ostacolare l’ingresso di nuovi soggetti nel settore». La Corte, oltre all’interesse degli altri imprenditori, ha dato considerazione all’interesse del consumatore con la sentenza n. 151 del 2005, in cui ha ritenuto che non fossero affette da illegittimità costituzionale le misure statali dirette ad aiutare i consumatori nell’acquisto di decoder per l’accesso alle trasmissioni televisive sulla piattaforma digitale terrestre, affermando che, fra l’altro, dette misure sono inerenti alla materia di competenza statale «tutela della concorrenza». La sent. n. 232 del 2010 (v. supra) ha affermato che la norma oggetto della censura determinasse una restrizione della tutela della concorrenza e dell’accessibilità all’acquisto dei prodotti di consumo sul territorio nazionale. Già in diverse occasioni la Corte aveva fatto ricorso al limite dell’utilità sociale per connetterlo agli interessi dell’intera collettività o ai soggetti “terzi consumatori” rispetto all’imprenditore privato.
Nella sent. n. 236 del 2008 il Giudice costituzionale ha ritenuto che lo scopo delle disposizioni del d.l. 4 luglio 2006, n. 223 (“Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale”) fosse quello «di evitare che soggetti dotati di privilegi operino in mercati concorrenziali. Dunque, la
360 Con tale sentenza la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 10, commi 3 e 4, della
legge della Regione Umbria n. 26 del 2005, nella parte in cui individua, fra i criteri preferenziali per il rilascio dell’autorizzazione all’esercizio e all’ampliamento dell’attività commerciale, quello della previa titolarità di un’altra grande struttura di vendita nel territorio regionale. Infatti, così disponendo, la norma stabilisce una barriera «di carattere protezionistico alla prestazione, nel proprio ambito territoriale, di servizi di carattere imprenditoriale da parte di soggetti ubicati in qualsiasi parte del territorio nazionale». Pertanto, tale norma, secondo la Corte della sent. n. 64 del 2007, ha realizzato una ingiustificata discriminazione fra imprese, sulla base di un elemento territoriale che contrasta con il principio di eguaglianza e con l’art. 41 della Costituzione.
361 Appunto perché il principio è quella norma capace di essere “attuata in misura graduata a seconda delle
circostanze fattuali e legali”, R. Bin, Diritti e argomenti. Il bilanciamento degli interessi nella giurisprudenza
costituzionale, Milano, 1992, 32, precisa che «Il “peso” di un principio non può essere determinato in
astratto ed in via generale, ma è dato dalle condizioni fattuali e dalle limitazioni derivanti dal concorso degli altri principi nel caso concreto».
disciplina delle società con partecipazione pubblica dettata dalla norma statale è rivolta ad impedire che dette società costituiscano fattori di distorsione della concorrenza. Essa rientra, quindi, nella materia - definita prevalentemente in base al fine - della tutela della concorrenza». È, pertanto, la considerazione della parità delle “armi di mercato” ad animare il giudizio della Corte. Così come la considerazione della pluralità di interessi è sottostante alla sent. n. 279 del 2006 (e poi con l’ord. n. 162 del 2009), in cui la Corte ha ribadito che la sfera di autonomia privata e la concorrenza non ricevono dall’ordinamento “una protezione assoluta” e possono, quindi, subire limitazioni ed essere sottoposte al coordinamento necessario «a consentire il soddisfacimento contestuale di una pluralità di interessi costituzionalmente rilevanti». Successivamente, la sent. n. 270 del 2010 ha precisato che «una regolazione strumentale a garantire la tutela anche di interessi diversi rispetto a quelli correlati all’assetto concorrenziale del mercato garantito [ha carattere] derogatorio e per ciò stesso eccezionale [e deve quindi costituire] la sola misura in grado di garantire al giusto la tutela di quegli interessi».
La sent. n. 18 del 2009 ha ricondotto alla tutela della concorrenza la disciplina dell’assegnazione delle bande orarie negli aeroporti coordinati, considerando che «dalla stessa formulazione testuale dei predetti regolamenti comunitari si desume che la disciplina da essi recata è essenzialmente volta a garantire l’accesso al mercato di tutti i vettori secondo regole trasparenti, imparziali e non discriminatorie, di promuovere un’effettiva apertura delle rotte nazionali alla concorrenza a beneficio dell’utenza e di garantire fondamentali esigenze di sicurezza del traffico aereo, in una prospettiva unitaria già a livello comunitario».
Ancora una volta, nella sent. n. 167 del 2009, la Corte torna a riferirsi al principio di concorrenza, la cui lesione può essere dovuta a situazioni di disparità di trattamento tra operatori di un medesimo settore, tali da determinare effetti distorsivi del mercato.
Nel caso della sent. n. 325 del 2010 il Tar rimettente ha richiamato «la regolamentazione stabilita dalla legge n. 287 del 1990 quale parametro di controllo della ragionevolezza della norma censurata, dato che la prima, sebbene si autoqualifichi come di attuazione dell’art. 41 Cost., costituisce pur sempre una legge ordinaria e non reca l’unica possibile disciplina attuativa di tale parametro, con la conseguenza che la deroga della medesima, di per sé sola, non può comportare violazione degli artt. 3 e 41 Cost.». La Corte ha rilevato che, dall’analisi della giurisprudenza rilevante e antecedente alla modifica del titolo V in materia di concorrenza, emerge lo stretto collegamento logico- sistematico tra l’art. 41 e l’art. 3 della Costituzione. Dopo la modifica del titolo V la materia “tutela della concorrenza” «comprende, tra l’altro, interventi regolatori che a titolo principale incidono sulla concorrenza, quali: le misure legislative di tutela in senso proprio, che hanno ad oggetto gli atti ed i comportamenti delle imprese che influiscono negativamente sull’assetto concorrenziale dei mercati e ne disciplinano le modalità di controllo, eventualmente anche di sanzione; le misure legislative di promozione, che mirano ad aprire un mercato o a consolidarne l’apertura, eliminando barriere all’entrata, riducendo o eliminando vincoli al libero esplicarsi della capacità imprenditoriale e della competizione tra imprese, in generale i vincoli alle modalità di esercizio delle attività
economiche. In tale maniera, vengono perseguite finalità di ampliamento dell’area di libera scelta sia dei cittadini, sia delle imprese, queste ultime anche quali fruitrici, a loro volta, di beni e di servizi».
Negli ultimi anni l’intreccio tra la materia dell’affidamento dei servizi pubblici, in specie quelli locali, e la tutela della concorrenza è stata più volte posta al vaglio della Corte costituzionale (v. supra). È interessante notare che a riguardo sia emersa la considerazione dei soggetti che non possono accedere ai servizi offerti, ovvero i “non consumatori”(v. infra). Nella sent. n. 325 del 2010 la Corte, specificando il contenuto di “rilevanza economica”, ha evidenziato che sia per il legislatore nazionale che per quello comunitario essa «sussiste pure quando, per superare le particolari difficoltà del contesto territoriale di riferimento e garantire prestazioni di qualità anche ad una platea di utenti in qualche modo svantaggiati, non sia sufficiente l’automaticità del mercato, ma sia necessario un pubblico intervento o finanziamento compensativo degli obblighi di servizio pubblico posti a carico del gestore, sempre che sia concretamente possibile creare un mercato a monte, e cioè un mercato in cui le imprese contrattano con le autorità pubbliche la fornitura di questi servizi agli utenti».
Pur in assenza di esplicite motivazioni circa il percorso che conduce all’affermazione del principio di concorrenza a livello costituzionale, emerge nella più recente giurisprudenza costituzionale la considerazione che «la Costituzione pone il principio, insieme oggettivo e finalistico, della tutela della concorrenza» (sent. n. 307 del 2009).
In conclusione, come confermato dalla sent. n. 288 del 2010, la tutela della concorrenza e, per esteso, il principio di concorrenza sono ormai da considerare un parametro di legittimità costituzionale, ma non solo per segnare il confine tra legislazione regionale e statale, ma anche come misura della legittimità costituzionale della legislazione, proprio per la portata generale o “trasversale” della materia. La giurisprudenza costituzionale degli ultimi anni ha, pertanto, ricondotto la materia della concorrenza al suo – ormai non più controverso - carattere di principio costituzionale.
Con l’ordinanza n. 31 del 2011, facendo riferimento alle sentenze nn. 279 del 2006 e 264 del 2005, la Corte costituzionale richiama il secondo comma dell’art. 41 per legittimare la compressione dell’autonomia privata da parte del decreto legge 30 dicembre 2009, n. 195, che stabilisce la nullità di compromessi e clausole compromissorie inserite in contratti stipulati per la realizzazione di interventi connessi alle dichiarazioni di stato di emergenza per i rifiuti di Napoli e il post-sisma in Abruzzo, affermando che, sebbene l’art. 41 Cost. espressamente «tutela l’autonomia contrattuale in quanto strumento della libertà di iniziativa economica», il suo esercizio «può tuttavia essere limitato per ragioni di utilità economico-sociale, che assumono anch’esse rilievo a livello costituzionale».
Nonostante la concorrenza sia utilizzata quale parametro di legittimità costituzionale, si rileva che la giurisprudenza costituzionale più recente non ha svolto – di volta in volta – una autonoma elaborazione del principio e si è, per lo più, limitata a fondare le rationes attraverso rinvii a precedenti decisioni, quali soprattutto le sentenze: n.
241 del 1990, n. 14 del 2004, nn. 401 e 430 del 2007, n. 160 del 2009 e n. 45 del 2010. Come è stato acutamente osservato, pur essendo aumentati i giudizi di costituzionalità imperniati sul parametro dell’art. 41 Cost., concernente il profilo della garanzia costituzionale del principio concorrenziale, le relative pronunce della Corte sono divenute più evasive e laconiche circa l’individuazione del corretto fondamento costituzionale del principio concorrenziale, risolvendosi in meri obiter dicta362. Da tali
rilevazioni incidentali della Corte emerge, tuttavia, la considerazione che la concorrenza svolga, altresì, la funzione di strumento di realizzazione delle finalità costituzionali, alla luce della quali il suo impatto va misurato363.