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Il principio del ne bis in idem nell’ordinamento interno Cenni Prima di affrontare il tema del principio del divieto del doppio giudizio

in ambito interno, è necessario porre alcune premesse, riguardanti la competenza generale del giudice italiano e quella speciale, per reati che vengono commessi nel territorio dello stato e per quelli che, invece, sono commessi all’estero, ma per i quali vige comunque la giurisdizione interna.

La competenza generale del giudice riguarda le ipotesi di determinazione della giurisdizione competente secondo i fondamentali principi, come quelli territoriali e personali; mentre si fa dipendere dalla competenza speciale l’individuazione del giudice competente all’interno di quella giurisdizione che si è determinata attraverso il sistema della competenza generale178.

                                                                                                               

177 Art. 4 comma 1, Protocollo 7: nessuno può essere perseguito o condannato penalmente dalla

giurisdizione dello stesso Stato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato a seguito di una sentenza definitiva conformemente alla legge e alla procedura penale di tale Stato».

È doveroso il richiamo, in primo luogo, alla disciplina originaria in materia, riferendosi all’art. 6 c.p., che prevede come per determinare la giurisdizione interna dello stato sia sufficiente che l’azione o omissione che lo costituisce sia avvenuta in Italia, anche solo parzialmente, oppure che qui si sia verificato l’evento, in virtù della coincidenza operativa che vi è fra legge penale e territorio dello stato179.

È chiaro come non ci si possa fermare a questa territorialità intrinseca nella previsione poc’anzi esposta, ma ci si deve comunque anche espandere verso una visione diversa della competenza giurisdizionale, ponendo l’attenzione a quelle ipotesi per le quali la competenza interna viene prevista anche per fatti criminosi caratterizzati da elementi di estraneità rispetto all’ordinamento interno.

Gli artt. 7, 8, 9 e 10 del codice penale rappresentano quelle che possiamo definire aperture della giurisdizione italiana verso fattispecie penali che non dovrebbero rientrare nella competenza del giudice italiano, in quanto connotate da un locus commissi delicti differente180.

In dottrina si era soliti parlare, un tempo, rispetto al sistema adottato dal nostro ordinamento di “territorialità temperata”181, o, in altri testi, di

“universalità relativa”182.

Già nell’800 la dottrina aveva sviluppato una teoria generale del diritto penale internazionale, ed anche il nostro ordinamento, come tanti altri, aveva codificato l’estensione della giurisdizione sulla base dei principi

                                                                                                               

179 N. GALANTINI, Il principio del <<ne bis in idem>> internazionale nel processo penale,

cit., p. 116.

180 N. GALANTINI, Il principio del << ne bis in idem>> internazionale nel processo penale,

cit., p. 117-118.

181 Cfr. F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale. Parte generale, Milano, 1975, p. 84; A.

SANTORO, Manuale di diritto penale, vol. I, Torino, 1958, p. 126.

182 MORELLI, Limite dell’ordinamento statuale e limite della giurisdizione, in Rivista di diritto

tradizionali del diritto penale internazionale e aveva poi anche stabilito, correlativamente, la regola del rinnovamento, condizionato o non condizionato, del giudizio già svoltosi all’estero per lo stesso fatto183.

Merita sottolineare che l’art. 11 prevede che sia rinnovato in Italia il giudizio che già è stato svolto all’estero per lo stesso fatto, anche se il reato è stato commesso solo parzialmente in territorio straniero, non subordinando la ripetizione del processo ad alcuna condizione. Mentre, per il reato che è stato commesso interamente in territorio straniero, per poter chiedere il rinnovamento del giudizio in Italia, è necessaria la richiesta del Ministro della Giustizia, nonché i presupposti sostanziali e processuali indicati negli artt. 7, 8, 9, 10 c.p.

Nei primi anni del 2000, la commissione Nordio cercò di mettere in atto una riforma del codice penale, ma, nonostante ciò, l’art. 11 resta l’unico riferimento normativo interno disciplinante la duplicità dei giudizi penali nei rapporti interstatuali.

Questa valenza pressoché assoluta dell’art. 11, è stata confermata anche da una consolidata giurisprudenza costituzionale degli anni ’70 e ’80 che, nell’affermarne la legittimità, ha negato al ne bis in idem la connotazione di principio di diritto internazionale generalmente riconosciuto per via della “difforme realtà della disciplina penale e processuale penale nei diversi ordinamenti giuridici positivi184 favorendo, contestualmente, la ristretta

interpretazione giurisprudenziale del principio.

Al di là di quello che è il ne bis in idem esecutivo ed il computo della pena ex art. 138, di cui abbiamo già parlato nei paragrafi precedenti, possiamo affermare che la normativa interna del nostro l’ordinamento non ha

                                                                                                               

183 N. GALANTINI, Evoluzione del principio del ne bis in idem europeo tra norme

convenzionali e norme di attuazione, in Dir. Pen. e Proc., 2005, p. 1567 ss.

184 Corte Costituzionale 8 aprile 1976, n. 69; Corte Costituzionale 18 aprile 1967, n. 48;

previsto alcuno strumento applicativo del principio del ne bis in idem

processuale almeno fino all’entrata in vigore del codice di rito nel 1988.

Difatti, in questo codice sono state inserite, nella parte relativa ai rapporti giurisdizionali con autorità straniere, alcune previsioni, che si rivelarono tuttavia inadeguate all’effettività del principio, dal momento che erano circoscritte al rapporto del divieto con l’estradizione e con alcune fattispecie di riconoscimento di sentenza penale straniera185.

Con il d.p.r 22 settembre 1988, n. 447, fu approvato il codice di procedura penale, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana il 24 ottobre 1988, n.250, ed in questo codice all’art. 649 si disciplinava il principio del ne bis in idem.

Il 1° comma dell’articolo in questione così recita: “l'imputato prosciolto o condannato con sentenza o decreto penale divenuti irrevocabili (648) non può essere di nuovo sottoposto a procedimento penale per il medesimo fatto, neppure se questo viene diversamente considerato per il titolo, per il grado o per le circostanze, salvo quanto disposto dagli articoli 69 comma 2 e 345”.

L’art. 649 contiene una regola strettamente processuale, divieto di un secondo processo significa improcedibilità. I presupposti di applicazione della regola sono: irrevocabilità, ossia una sentenza o un decreto penale divenuti irrevocabili, medesima persona, l’imputato prosciolto o condannato che sia, medesimo fatto.

È del tutto irrilevante che la vicenda processuale si sia conclusa con un proscioglimento o con una condanna, la disposizione prevede che riguardi la medesima persona (imputato), che la sentenza o il decreto penale siano divenuti irrevocabili e riguardino il medesimo fatto186.                                                                                                                

185 N. GALANTINI, Evoluzione del principio del ne bis in idem europeo tra norme

convenzionali e norme di attuazione, cit., p. 1567 ss.

186 A. A. SANMARCO, Divieto di un secondo giudizio, in Diritto processuale penale, 2013,

La regola sopra citata appare molto chiara, ma in realtà è stata sottoposta ad alcune modifiche dalle interpretazioni giurisprudenziali.

Ecco di seguito alcuni passaggi significativi che ritroviamo in alcune pronunce della Suprema Corte.

Si è affermato che “ai fini della preclusione connessa al principio ne bis in idem,

l’identità del fatto sussiste solo quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e con riguardo alle circostanze di tempo di luogo e di persona. Nel caso in esame è di tutta evidenza che non trattasi dello stesso fatto tanto che non trattasi nemmeno dello stesso reato; vale a dire che il nomen juris è mutato (da lesioni volontarie a omicidio preterintenzionale) proprio perché doveva rispecchiare la diversità del fatto. E che per fatto debba intendersi tanto la condotta, quanto l‘evento, quanto il nesso causale non può esservi dubbio”187.

O ancora: “il principio del ne bis in idem impedisce al giudice di procedere contro

la stessa persona per il medesimo fatto su cui si è formato il giudicato, ma non di prendere in esame lo stesso fatto storico e di valutarlo in riferimento a diverso reato, dovendo la vicenda criminosa essere valutata alla luce di tutte le sue implicazioni penali”188.

Possiamo evincere da queste massime che il criterio utilizzato per valutare il doppio giudizio è un criterio alquanto ambiguo: il reato ‘diverso’ implica che anche il fatto è ‘diverso’ e quindi non è applicabile il divieto di procedibilità ex art. 649.

L’argomento è giuridicamente e logicamente inesatto, posto che il reato è figura giuridica che già comprende il fatto.

Inoltre, il ragionamento non soltanto non consente di definire un parametro che possa condurre ad una certezza applicativa, ma perviene ad un’evidente negazione del disposto normativo espressamente previsto

                                                                                                                187 Cass. 1° luglio 2010, n. 28548.

nel comma 1 dell’art. 649, nella parte in cui qualifica come irrilevante ai fini della verifica della diversità o identità del fatto, il titolo del reato; dunque il fatto, ancorché diversamente qualificato o qualificabile sotto un diverso nomen juris, non per questo cessa di essere il medesimo189.

Siamo in presenza di un evidente caso di interpretatio abrogans, che ha reso inoperativo il dettato normativo previsto dalla legge processuale.

Abbiamo già precisato come l’art. 649 precisi che la sua applicazione risulta esclusa in caso di applicazione di due articoli, espressamente richiamati dall’enunciato dell’articolo 649 stesso.

Il primo ad essere citato è l’art. 69, che si occupa della morte dell’imputato; al 2° comma si precisa che la sentenza non impedisce l'esercizio dell'azione penale per il medesimo fatto e contro la medesima persona, qualora successivamente si accerti che la morte dell'imputato è stata erroneamente dichiarata.

Poiché una persona deceduta non può essere incriminata, bisogna distinguere a seconda che il decesso avvenga in fase di indagini preliminari o in fase processuale: nella prima ipotesi, il pubblico ministero chiederà al giudice per le indagini preliminari l'archiviazione del procedimento a suo carico; nel secondo caso, il giudice, in qualsiasi stato e grado del processo, dovrà necessariamente emettere sentenza di non luogo a procedere ex art. 129 c.p.p. per intervenuta causa estintiva. Il secondo articolo ad essere richiamato, come eccezione all’applicazione dell’art. 649, è il 345 c.p.p., che si occupa del difetto di una condizione di procedibilità e della successiva eventuale riproposizione dell’azione. Il 1° comma dell’art. 345 c.p.p. così recita: “il provvedimento di archiviazione

(409) e la sentenza di proscioglimento [529-532] o di non luogo a procedere [425], anche se non più soggetta a impugnazione, con i quali è stata dichiarata la mancanza della querela, della istanza, della richiesta o dell'autorizzazione a procedere, non                                                                                                                

impediscono l'esercizio dell'azione penale per il medesimo fatto e contro la medesima persona se in seguito è proposta la querela, l'istanza, la richiesta o è concessa l'autorizzazione ovvero se è venuta meno la condizione personale che rendeva necessaria l'autorizzazione”.

Quindi questo articolo ammette la possibilità di riesercitare l’azione penale nel caso in cui, anche sia mancata la presentazione di querela, istanza e degli altri atti richiamati dall’articolo 345, questi poi vengono presentati.

Il 2° comma dell’art. 649 precisa, infine, che nel caso in cui, nonostante il divieto previsto dal 1° comma, sia instaurato un nuovo procedimento penale, “il giudice in ogni stato e grado del processo pronuncia sentenza di

proscioglimento o di non luogo a procedere, enunciandone la causa nel dispositivo”.

Tale decisione può essere adottata dal giudice anche d'ufficio, cioè senza che sia necessaria un exceptio rei iudicatae della parte.

Concludiamo questo breve cenno all’applicazione del ne bis in idem in Italia, richiamando un passo di una sentenza delle Sezioni Unite: “(…)

l’art. 649 costituisce un singolo, specifico, punto di emersione del principio del ne bis

in idem, che permea l’intero ordinamento dando linfa ad un preciso divieto di

reiterazione dei procedimenti e delle decisioni sull’identica res judicanda, in sintonia con le esigenze di razionalità e di funzionalità connaturate al sistema. A tale divieto va attribuito, pertanto, il ruolo di principio generale dell’ordinamento dal quale, a norma del 2° comma dell’art. 12 delle preleggi, il giudice non può prescindere quale necessario referente dell’interpretazione logico- sistematica”190.

                                                                                                                190 SS. UU. 34655/05.

CAPITOLO II

L’APPLICAZIONE DEL NE BIS IN IDEM: LA GIURISPRUDENZA EUROPEA

Sommario: 1. L’esigenza di un coordinamento oltre i confini nazionali –

2. La sentenza Grande Stevens e altri vs Italia: le premesse fattuali – 2.1 segue: le considerazioni in diritto: il doppio binario sanzionatorio – 2.2. segue: un richiamo alla sentenza Aklagaren c. Akerberg Fransson – 2.3. segue: le ripercussioni applicative della pronuncia – 3. I principi affermati in altre sentenze della Corte europea e gli effetti nel settore tributario – 4. Verso un nuovo intervento della Corte di Giustizia dell’Unione Europea.