Emilio Corelli
II fabbisogno.
La situazione di grave e persistente disagio del mercato edilizio italiano è ben nota a tutti; non altrettanto noti, né facili da reperire, sono i dati di fatto in materia, cioè la consistenza effet-tiva del patrimonio edilizio nazionale, le sue con-dizioni attuali, il fabbisogno reale di nuove co-struzioni e la loro probabile utilizzazione, i costi di costruzione del nuovo o del recupero dell'an-tico. Già l'elemento iniziale, la consistenza e lo stato delle abitazioni esistenti, è difficile da de-terminare: i dati ufficiali, derivanti dalle elabora-zioni (sempre troppo lente) dei risultati dei cen-simenti nazionali, sono incompleti o non più at-tendibili; d'altronde, si trovano nella letteratura tecnica fin troppe, e troppo diverse, valutazioni « di parte », tendenti a mettere in luce partico-lari aspetti della situazione od a suggerire speci-fici rimedi.
Comunque, un dato di fondo è certo: in Ita-lia, contrariamente all'opinione corrente, il nu-mero di alloggi disponibili globalmente è adegua-to alle esigenze della popolazione.
Riportando i dati in numero di vani per abi-tanti, si trova infatti che il relativo indice valeva, nel 1971, 1,184: è questo un indice fra i più ele-vati in Europa, ma è solo indicatore statistico, la cui aderenza alla realtà di fatto va attenta-mente esaminata. Se infatti si vuol passare dalla determinazione del numero complessivo di allog-gi, o di vani, esistenti ad una più opportuna va-lutazione della distribuzione di tale patrimonio, si trovano subito delle gravi distorsioni e carenze: in particolare, la distribuzione è nel complesso insoddisfacente (e ciò giustifica per altra via l'opi-nione comune) per la qualità, per l'età, per la collocazione geografica degli alloggi teoricamente disponibili.
Anzitutto, è troppo elevata l'aliquota di alloggi liberi, quali « seconde » case, o perché non ri-spondenti alle richieste di mercato: esisteva, nel
1971, un 12% (pari ad oltre 2 milioni di
allog-gi) del patrimonio edilizio nazionale definito « non occupato », e la situazione è certamente peggiorata negli anni successivi. Le ragioni per cui la produzione non riesce a fronteggiare la richiesta del mercato, orientata sui tipi di allog-gio economico-popolari, e sia invece largamente esuberante nel settore delle abitazioni a standard medio-alti, sono molto complicate e non sono in generale peculiari per l'Italia. In pratica, la so-luzione di questo grave problema non può essere solo vista in termini economici, di sovvenzioni o di contenimento di costi, ma richiederà corag-giosi interventi di carattere eminentemente poli-tico, quali una diversa regolamentazione del re-gime di proprietà dei suoli, del diritto di edifica-re, della cosiddetta « rendita » più o meno pa-rassitaria.
Il secondo aspetto che contribuisce a modifi-care la sostanza del dato numerico è costituito dalle classi di età degli edifici esistenti.
Qualunque costruzione, anche molto recente, richiede una certa spesa annuale, ovviamente cre-scente con l'età della costruzione stessa, per le indispensabili misure di manutenzione, di ripri-stino, di restauro: tale fatto in un Paese di antica civiltà urbana non dovrebbe meravigliare, per-ché in effetti esiste quasi ovunque nelle nostre città un « Centro storico » dove la percentuale di edifici chiaramente degradati (e quindi fuori del normale mercato edilizio) è troppo elevata. Di norma, poi, il gran numero di alloggi a canone bloccato è in cattive condizioni di manutenzione, dentro e fuori dei Centri storici, ed il costo delle relative riparazioni cresce rapidamente di anno in anno.
Il terzo elemento di distorsione è rappresen-tato da un problema tipicamente italiano: la ri-distribuzione su scala vastissima della popola-zione nazionale nel passato ventennio ha avuto, fra le altre conseguenze, anche quella di squili-brare il mercato edilizio.
Da un lato, i milioni di famiglie spostatesi dalle campagne alle aree metropolitane, dal
Mcz-zogiorno al Nord hanno abbandonato, e reso mol-te volmol-te non più utilizzabili per il mercato edi-lizio locale, le abitazioni precedentemente occu-pate; dall'altro lato, le medesime classi sociali hanno premuto sulle aree di nuovo insediamento, con una elevatissima richiesta di abitazioni di standard economico-popolare, che in gran parte è rimasta insoddisfatta.
A tutto ciò si è aggiunto negli ultimi anni il pratico blocco delle costruzioni edilizie in molti grandi centri, per la più rigida ed attenta disci-plina urbanistica, ma anche per l'assoluta ina-deguatezza dei mezzi finanziari messi a disposi-zione degli Enti preposti all'edilizia economica e popolare.
Per fornire un'idea quantitativa della situazio-ne fin qui accennata, basta ricordare (sempre col supporto di base dei dati del censimento del 1971, aggiornati però al 1973 che ben il 44% delle abi-tazioni esistenti (7,8 su 17,5 milioni) è stato co-struito in epoca anteriore al 1920, mentre solo il 12% degli alloggi esistenti è stato costruito nel decennio 1962-71. Quanto alle condizioni obiet-tive, esse sono peggiori nel Mezzogiorno, dove ben il 60% degli edifici esistenti è considerato « in cattive condizioni ». Su queste premesse di tipo non semplicemente qualitativo, si può im-postare un discorso razionale sui possibili rimedi ad una situazione che peggiora continuamente: si pensi, per questo aspetto, al fatto che, in gene-rale, il fabbisogno annuo reale di nuove abitazioni è correlato in qualche modo al numero di nuove famiglie che si formano nell'anno medesimo; or-bene, nell'ultimo decennio, la produzione di al-loggi non ha nemmeno lontanamente saputo te-nere il passo con tale indice, nonché recuperare i fabbisogni oggettivi arretrati.
È comunque ormai indispensabile affrontare il problema dell'edilizia residenziale in Italia, con-tribuendo cosi anche a riorganizzare su basi più sane e consistenti quello che rimane, oltre che una delle maggiori attività industriali italiane (l'industria delle costruzioni e le attività ad esse coordinate occupano circa un milione e mezzo di lavoratori), anche quella che ha diffusione real-mente capillare, oltreché la meglio fondata su ri-sorse produttive nazionali.
L'industrializzazione edilizia.
Pur in mezzo alle attuali difficoltà, pur nella situazione anomala in cui non riesce a tener conto delle effettive esigenze del mercato (e quindi a
produrre di più, in una certa direzione), né rie-sce a mantenere i livelli di occupazione degli anni migliori, l'industria delle costruzioni in Italia conserva una decisa posizione di preminenza fra le attività produttive. Ciò vale per il volume ed il valore della produzione, ma ancor più per la caratteristica fondamentale di questa speciale in-dustria, che è quella di impiegare forze lavora-tive relativamente ingenti ed in maniera estrema-mente diffusa in tutto il territorio nazionale.
D'altro canto l'opinione pubblica è molto sen-sibile — specie in periodi in cui è piuttosto alea-toria la possibilità di trasferimenti di manodopera ad altri settori produttivi — al problema del-l'espulsione di aliquote della forza lavoro dall'edi-lizia, che potrebbe essere indotta dalle pur neces-sarie innovazioni tecnologiche ed operative.
In realtà, il costo delle nuove costruzioni cre-sce con tale rapidità da rendere assolutamente indifferibili tutte quelle misure tecniche ed orga-nizzative che possono riportare a valori accetta-bili dal mercato i costi delle opere edilizie, e delle abitazioni in particolare. Però, nel caso dell'in-dustria delle costruzioni, non sembra sussistere quell'equivalenza immediata tra le misure di ra-zionalizzazione e perdita di posti di lavoro che è tanto frequente per molte altre attività industria-li, specie in un Paese come il nostro, in cui il fab-bisogno di costruzioni è molto vario ed articolato, e si presta a numerose soluzioni compatibili con il rispetto di certe condizioni e situazioni sociali ed umane. Basta per questo, in primo luogo, non aderire al concetto, peraltro inattuabile nella pra-tica, di una industrializzazione edilizia generale ed esclusiva: esistono infatti, nel campo delle co-struzioni civili, numerose « fasce » di mercato, e non tutte si prestano all'applicazione immediata o generalizzata di procedimenti costruttivi nuovi. Le « fasce » di mercato, che corrispondono ai campi omogenei di impiego di tecniche nuove sono, in principio, almeno tre: la produzione di grande serie, la produzione di serie ridotte, le costruzioni e gli interventi singoli.
Esiste una vasta classe di costruzioni civili per le quali gli attuali procedimenti, sia in fase pro-gettuale sia in fase esecutiva, risultano spesso su-perati e comunque troppo dispendiosi: del resto, la prefabbricazione, in tutti i Paesi che l'hanno adottata su larga scala (dalla Francia alla RDT, all'Unione Sovietica, agli Stati Uniti) è nata e si è sviluppata per rispondere ad esigenze analoghe alle nostre. Il concetto di base è, in questo caso, uguale a quello delle costruzioni industriali, e
cioè che le normative di standardizzazione ed uni-ficazione comportano sempre una maggiore ce-lerità realizzativa di qualunque opera. Nel settore dell'edilizia, la creazione delle necessarie infra-strutture produttive ed organizzative, la indispen-sabile qualificazione professionale degli addetti al montaggio ed alle complesse operazioni sussi-diarie porterebbe, piuttosto che ad una riduzione, ad un incremento e ad una diversificazione dei posti di lavoro, se non altro per il bisogno di di-stribuire uniformemente sul territorio nazionale gli impianti produttivi.
Il secondo campo di intervento, restando il pri-mo legato ad interventi di grande entità, per esem-pio nelle aree metropolitane, sarebbe quello della costruzione di complessi abitativi medi, per in-terventi in centri minori o comunque per insedia-menti limitati. La costruzione di serie medio-pic-cole, giustificate anche sotto il profilo urbanistico dall' 'ampia variabilità di condizioni abitative lo-cali in Italia, potrebbe coinvolgere in un oppor-tuno processo di aggiornamento tecnico-organiz-zativo, le imprese locali piccole e medie, nonché i progettisti, i tecnici, le forze lavorative diretta-mente a contatto delle situazioni particolari da affrontare. Anche per questa via, l'ammoderna-mento delle tecniche costruttive tradizionali sa-rebbe un ovvio sviluppo delle capacità e delle tendenze naturali al miglioramento dei rendimen-ti realizzarendimen-tivi ed al contenimento dei cosrendimen-ti.
Resta cosi all'edilizia dei sistemi tradizionali il vasto settore degli interventi localizzati, del riattamento, del restauro più o meno esteso, della conservazione del patrimonio edilizio; qui l'inte-grazione con particolari costruttivi industrializ-zati è perfettamente compatibile con procedimenti quasi artigianali, capaci di impegnare notevoli quantitativi di manodopera, la più capace e me-glio qualificata.
In definitiva, quindi, un impegno razionale e realistico dei procedimenti tecnologici attualmen-te disponibili nel settore delle costruzioni civili, lungi dal mettere in forse i livelli di occupazione (peraltro incerti e labili per la conformazione stessa del mercato), porterebbe certamente ad una ridistribuzione e ad una diversificazione del set-tore produttivo di questa industria, oltre che ad una più solida strutturazione della base lavorativa.
La funzione del movimento cooperativo nell'edilizia.
È naturale che, allorquando si affronta un pro-blema vasto e complesso come quello della casa,
ci si imbatta in un certo numero di quelle dif-ficoltà latenti, di quei nodi irrisolti che sono ti-pici della nostra attuale società.
La prima difficoltà è quella economica: i fi-nanziamenti pubblici — gli unici su cui si po-trebbe far affidamento per un tentativo di solu-zione razionale dei problemi dell'edilizia residen-ziale in Italia — sono di norma tardivi nella loro emissione e lenti nella loro utilizzazione pratica, il che li rende molto spesso doppiamente inade-guati a far fronte alle carenze per cui erano stati previsti.
Ma quella del finanziamento e della sua effet-tiva e tempeseffet-tiva utilizzabilità è solo la prima difficoltà. Ad essa si aggiungono e si sovrappon-gono le inefficienze legislative, le carenze norma-tive, la mancanza di regolamentazioni chiare ed univoche, una certa generica inefficienza a livello amministrativo, fattori tutti che spiegano tanti insuccessi e tante buone occasioni mancate in questo settore.
D'altronde, a queste caratteristiche negative imputabili alle amministrazioni — locali e no — fa riscontro un vasto sentimento di sfiducia e di diffidenza nella controparte, nel complesso dei potenziali utilizzatori nella più generale opinione pubblica, troppe volte messa di fronte a provve-dimenti ed a decisioni venuti dall'alto, che non la interessano e non la coinvolgono.
Non è trascurabile, a questo proposito, l'in-fluenza pratica che possono assumere certi bril-lanti elaborati, frutto di effettivo impegno da par-te di studiosi e di par-tecnici, ma mancanti spesso di un sufficiente appiglio alle reali situazioni locali, alle opinioni, ai desideri delle popolazioni o delle comunità vive (ed il discorso può chiaramente riferirsi a certe ristrutturazioni od a progetti di risanamento di centri storici) che, dopotutto, do-vrebbero poi vivere e lavorare in realtà urbani-stiche ed ambientali che non sempre rispecchiano le loro aspirazioni più giuste. Risultato di tutto ciò è quasi sempre la paralisi, quanto meno il rin-vio ad ipotetici tempi migliori, di qualunque ini-ziativa tendente a sbloccare situazioni di fatto già mature per una soluzione innovatrice.
È pertanto necessario trovare un elemento di collegamento fra la volontà di realizzare e la ca-pacità di eseguire le opere. Tale elemento coinci-de anche con la necessaria saldatura fra l'inte-resse collettivo e la capacità imprenditoriale, in un Paese come il nostro, ancora aperto a positive esperienze di collaborazione fra queste due en-tità contrapposte.
È nel movimento cooperativo che si può tro-vare il punto di contatto, la sintesi fra le diverse esigenze ed il loro superamento. Il movimento cooperativo ha in Italia radici ormai ben salde, ed è certo destinato a svilupparsi ulteriormente, appunto per questa funzione di mediatore fra i bisogni di una collettività democratica e le atti-tudini di gruppi produttivi. Del resto, esso è per sua natura capace — per così dire — di stare dalle due parti: alle unioni di utenti, alle coo-perative a proprietà indivisa si affiancano più che contrapporsi le cooperative edilizie, di co-struttori, di impiantisti, di produttori di elementi. Cosi, si apre anche per l'industria delle costru-zioni un campo assai promettente di possibile evoluzione per l'immediato futuro: la capacità di gruppi realizzatori aggregati nelle dimensioni operative più adatte ad affrontare le esigenze delle singole « fasce » di mercato, e per ciò stesso ten-denzialmente più agili e razionali; la possibilità di gestione meno burocratica, meno rigida, e quin-di più democratica ed efficiente; la più attenta esecuzione delle varie fasi operative, con il che si limitano gli sprechi e si possono meglio cointe-ressare al buon esito dei lavori i singoli esecu-tori; la minore interferenza da parte di interessi estranei, la mancanza di intermediazioni parassi-tarie, sono tutte « voci » positive di un bilancio globale — quello del costo delle costruzioni — che non può mancare le occasioni per essere reso più accettabile, più ragionevolmente vicino alle possibilità reali dei potenziali acquirenti od utenti, f quali, dal loro canto, hanno tutte le ragioni per riunirsi in organizzazioni analoghe, al fine di di-fendere — accanto agli interessi diretti — il loro diritto ad avere case più rispondenti alle effettive esigenze del mercato, più consone alle necessità ed alle reali possibilità della società attuale.
Perché ciò si realizzi in un futuro assai pros-simo — come le tante circostanze favorevoli a questo sviluppo comportano — occorre peraltro che vengano rimossi certi ostacoli, che vengano corrette opportunamente talune impostazioni e che si modifichino determinate strutture
organiz-zative: infatti, il movimento cooperativo nel set-tore edilizicfin Italia soffre di certe distorsioni peculiari, che derivano per la maggior parte dal- . l'epoca relativamente tarda in cui esso ha potuto cominciare ad affermarsi.
In sostanza, un effettivo inserimento, nelle con-dizioni di economia libera ed in una società plu-ralista come la nostra, della cooperazione edili-zia presume la preesistenza o la costituzione « ad hoc » di alcune strutture già preesistenti in altri Paesi, come le cooperative finanziarie (aventi co-me fine l'acquisizione sul co-mercato dei necessari mezzi finanziari), le competenze tecniche ade-guate sia in fase esecutiva sia in fase progettuale, le strutture più propriamente imprenditoriali, ca-paci di acquisire i singoli lavori e di condurli a buon fine: tutto questo è necessario non solo per l'esecuzione ottimale delle opere ma anche per una più moderna concezione della coopera-zione intese come processo globale.
Queste condizioni non sono ancora riscontra-bili nella realtà italiana, se non allo stato iniziale, e la loro insufficiente manifestazione incide pe-santemente su varie fasi del movimento coopera-tivo nell'edilizia. La inadeguata dotazione di mez-zi finanmez-ziari costringe le cooperative a far ricorso al credito fondiario, con un indebitamento che ha immediato riflesso sui costi finali; ovvero, è ben frequente la richiesta di finanziamenti pub-blici (come capitale vivo od in conto interessi). In questa tendenza a ricorrere al finanziamento dello Stato, fra l'altro, si possono intravvedere i germi di quelle stesse disfunzioni che risultano cosi evidenti in certi settori dell'industria di Stato.
I criteri gestionali e produttivi della grande industria, se correttamente applicati in questa fase di innesco del movimento cooperativo edi-lizio, possono invece validamente contribuire ad un più valido indirizzo produttivo, ad una più razionale diversificazione degli interessi e delle realizzazioni operative che si giovi anche dell'ac-quisizione e dello sviluppo delle più moderne tec-niche progettative ed esecutive nell'edilizia.