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Riflessioni su Torino

Nel documento Cronache Economiche. N.009-010, Anno 1976 (pagine 63-66)

Giuliana Bertin

Torino, fra le città italiane, è forse quella che l'industrializzazione ha segnato maggiormente, con profondi cambiamenti di mentalità e di co-stume, dando un'impronta irreversibile al suo processo di sviluppo. Torino rappresenta, per la storia economica del nostro paese negli ultimi cent'anni, il caso certamente più emblematico. Alla fine del secolo scorso, il capoluogo pie-montese si presentava come un centro raffinato ed elegante, improntato alle esigenze del mondo frivolo e mondano che viveva all'ombra della piccola corte dei Savoia. Era una città con poco più di 200 mila abitanti, ma con moltissimi arti-giani: calzolai, cappellai, sartine, guantai, fornai. Oggi è una metropoli di circa un milione e 200 mila persone, dove fortissimi movimenti migra-tori hanno cambiato gli stessi caratteri etnici della popolazione; una città costituita per la maggior parte di operai, che esprime fermenti, necessità e bisogni propri di questa maggioranza. Attorno al centro storico, ormai decadente, sono sorti nuovi quartieri di case e palazzi, senza quasi ri-spettare le esigenze architettoniche e estetiche e lo stile delle vecchie costruzioni. Dappertutto fabbriche, stabilimenti, officine.

Paragonati al numero degli operai, i « colletti bianchi » costituiscono una esigua percentuale (17-20% contro il 25-30% per esempio di Mi-lano); irrilevante è stata la crescita del settore terziario (banche, servizi, ecc.). La presenza di una azienda come la Fiat, ha determinato a poco a poco una concentrazione della manodopera e quindi una specializzazione produttiva nel settore metalmeccanico nel quale, per altro, Torino già vantava una tradizione.

Torino è anche una città che ha sofferto, e soffre, di definizioni stereotipate, che stentano a morire non ostante il tempo abbia modificato le strutture primitive, attenuato o cancellato certe caratteristiche, determinato il sorgere di altre ne-cessità e di altri problemi.

11 piemontese d'oggi, per esempio, discute

— a volte con insofferenza — del fenomeno del-l'immigrazione e si è dimenticato, a torto, di quel-lo precedente, dell'emigrazione.

In mezzo secolo, dal 1861 al 1911, il Piemonte è stato privato della parte economicamente più pregiata della sua popolazione da una emigra-zione che si diresse principalmente all'estero e che determinò l'uscita di circa 600 mila pie-montesi, come risulta da uno studio dell'econo-mista Sergio Ricossa.

Dal 1911 hanno inizio le immigrazioni, ma il guadagno migratorio dei cinquant'anni successivi non pareggia ancora la perdita di popolazione. Il pareggio avverrà nel 1961, segno che l'emor-ragia iniziale era stata gravissima. È come se la regione in un primo momento fosse stata svuo-tata di piemontesi e, in un secondo tempo, riem-pita di non piemontesi, fi risultato è che ci si trova di fronte a una nuova società, complessa e multiforme.

Dopo la seconda guerra mondiale, i bisogni dell'industria divennero prevalenti, convogliando l'immigrazione verso Torino che diventa cosi il vero polo traente del Piemonte. Nel 1861 il co-mune di Torino raggruppava il 7% della popo-lazione piemontese; oggi più del 26%; la per-centuale sale al 40% se, realisticamente, si tiene conto dell'area metropolitana (52 comuni con un totale di 1.900.000 abitanti).

Torino pre industriale raddoppiava ogni se-colo. Torino industriale, con i comuni della cin-tura — non ostante due guerre mondiali e una grande crisi — è raddoppiata ogni 35 anni.

L'immigrazione (con la precedente emigra-zione) ha contribuito a cambiar radicalmente il volto della città e a determinare il predominio di Torino sulla regione. Ha causato, in tutto l'as-setto urbano, scompensi e squilibri che non sono ancora stati assorbiti e che continuano a pesare sulla vita cittadina. Il prezzo umano e sociale di questa rapida e massiccia immigrazione non è ancora stato calcolato e forse non potrà esserlo.

È un prezzo che — come dimostrano la storia e le vicende di altre città in Italia e all'estero — è probabilmente inevitabile; è però stato un sa-crificio del quale tutti gli abitanti di Torino, adesso, godono i benefìci, in termini di aumento del reddito, di migliori livelli di vita, di sviluppo in generale.

C'è un'altra considerazione da fare. Nel 1853 la cinta daziaria di Torino costeggiava la Cro-cetta, oggi considerata un quartiere centrale. L'ag-glomerazione urbana torinese è attualmente di 70 chilometri quadrati circa, di cui l'80% co-perto da costruzioni. « Se consideriamo che il

grado di affollamento edilizio — dice il

profes-sor Ricossa — non è peggiorato, possiamo

calco-lare che le abitazioni siano nel frattempo qua-druplicate ». Poiché parte delle vecchie case è

stata demolita, un torinese anziano vede oggi una città che per l'80% non esisteva nella sua fan-ciullezza.

Paradossalmente si può dire che la città ha avuto uno sviluppo cosi rapido e convulso da risultare sconosciuta persino agli abitanti origi-nari. Torino è oggi, in definitiva, un centro ur-bano nel quale tutti — torinesi e non — stanno cercando di trovare una nuova dimensione di vita.

Si dice che Torino è una città monoprodut-tiva: è l'automobile, è insomma la Fiat. Ma quanto c'è di vero in questa affermazione tanto usata da essersi trasformata in luogo comune? Di sicuro non è stato cosi all'inizio, quando To-rino — con un certo ritardo rispetto ad altre città dell'Europa occidentale — ha cominciato la propria industrializzazione. Anche se gli storici fanno risalire al 1899 •—• anno di nascita della Fiat — la data simbolica nella quale si precisa la vocazione industriale torinese, bisogna tener presente che l'industrializzazione a Torino non è stata frutto ed espressione della sola azienda automobilistica. Si può dire che tutto, o quasi tutto, sia nato nel capoluogo piemontese. La ra-dio, la televisione, il cinema, la nitroglicerina, le grandi industrie nazionali: aeronautica, tipo-grafica, chimica, ferroviaria, motori marini, fibre tessili artificiali; persino il primo volo postale e la prima trasmissione di energia elettrica sono partiti da Torino.

Molte di queste industrie sono state trasferite successivamente nella capitale o in altre zone. Altre sono scomparse, perché sono scomparsi o decaduti gli uomini che le avevano fondate.

Il secondo dopo guerra segna l'inizio del « boom » della motorizzazione e accentua i

carat-teri di specializzazione produttiva della città. L'auto diventaci settore traente. Sono gli anni d'oro della ricostruzione; l'imperativo è produrre e aumentare al massimo l'occupazione. Nessuno — né industriali, né autorità politiche, né forze sociali, né cittadini — sembra soffermarsi sulle conseguenze negative che uno sviluppo cosi ac-celerato può portare alla città. Adesso si palleg-giano le responsabilità di questa mancanza di pre-visioni. Dice Ferruccio Borio che da quasi tren-t'anni segue dalla cronaca del giornale più ven-duto e seguito a Torino, le vicende della città.

« Facciamo oggi le critiche con estrema facilità, ma negli anni '50 nessuno ne parlava. Eravamo fieri del benessere che anelavamo conquistando giorno per giorno ».

Con l'autunno caldo del '69 esplodono le con-traddizioni; nuovi valori sociali e nuove conce-zioni rimettono in discussione ciò che fino a ieri era stato almeno accettato, se non condiviso; la critica si fa violenta come accanita diventa la ricerca di capri espiatori. Adesso che Torino si è assestata si può tentare un bilancio e sono spesso amare le valutazioni. La Fiat è diventata una multinazionale che lavora in tutto il mondo; costruisce stabilimenti nel Sud; l'immigrazione scende a livelli accettabili. Attorno al colosso dell'auto si è sviluppata una rete di piccole e medie aziende, non solo metalmeccaniche, che contribuiscono in modo considerevole al reddito cittadino.

L'identificazione Fiat-Torino continua anche se molta di questa identificazione è frutto di un atteggiamento psicologico che va oltre la realtà. Nessuna città, pur avendo complessi a livello Fiat, presenta un fenomeno analogo. Tentiamo una spiegazione. La Fiat, dagli inizi del '900, ha percorso una parabola ascendente, ha segnato una strada di progresso ininterrotto, senza cono-scere le alterne vicende di buona e cattiva sorte di altri complessi industriali italiani. L'ascesa è stata irresistibile, continua, travolgente. La pro-duzione di automobili Fiat è raddoppiata, dal

1950 fino al 1963, ogni 4-5 anni al tasso record del 15%. La Fiat ha finito con il rappresentare per la città e per il paese un modello, un esempio, un punto fermo al quale riferirsi, talvolta un mito di benessere, come nella leggenda e nel mito sono entrati i suoi capi. Torino si è ingigantita attorno ai suoi stabilimenti, è cresciuta e si è arricchita mentre la Fiat cresceva. Per il torinese è stato naturale identificare il destino della città con quello della casa automobilistica, un po' come

Venezia si riteneva sposata con il mare, perché dai traffici marittimi derivavano le sue fortune.

« Fino a quando la situazione di crescita del paese ha permesso alle grandi aziende uno svi-luppo autonomo — dice Sergio Caccamo,

presi-dente torinese della Piccola Industria — la Fiat

ha avuto un grosso peso. Ma negli ultimi anni, le macro imprese sono state condizionate sempre più da vincoli sociali e politici. Inoltre, altre

componenti sociali hanno acquisito un loro spa-zio. Questo ha contribuito, indubbiamente, a far diminuire il peso politico dei grossi complessi industricdi e a far nascere nuovi equilibri ».

In questa realtà, cosi evoluta e cosi complessa, si muove oggi la città di Torino e di questa realtà è necessario tener conto se si vuole affrontare correttamente i problemi del capoluogo pie-montese.

Nel documento Cronache Economiche. N.009-010, Anno 1976 (pagine 63-66)