di Enricomaria Corbi, Pascal Perillo, Daniela Manno*
2. La progettazione dell’intervento
La progettazione dell’intervento di ricerca-formazione ha tenuto conto delle criticità emerse dall’indagine esplorativa ed è stata orientata dall’in- tento di sostenere la crescita e lo sviluppo della Comunità di Pratica.
Le Comunità di Pratica sono definite da Wenger come aggregazioni in- formali di attori che, nelle organizzazioni, si costituiscono spontaneamente attorno a pratiche di lavoro comuni, sviluppando solidarietà organizzati- va sui problemi, condividendo scopi, saperi pratici, significati, linguaggi (Wenger, 1998). Una comunità di pratica non è frutto di una progettazione intenzionale da parte di un’organizzazione o dei suoi membri: essa soprav- vive fino a quando è in grado di mantenere un certo grado di quello che Wenger definisce ‘vivacità’ (aliveness).
La prospettiva delle CdP presenta una teoria dell’apprendimento che vede il coinvolgimento nella pratica sociale come processo di formazione attraverso cui le persone al lavoro imparano dalla pratica quale prodotto di una comunità operativa formata da persone che svolgono delle attività in comune in uno spazio-tempo, configurandosi quale contesto generatore di processi di apprendimento partecipato, condiviso e situato.
Dal momento che la presenza di CdP, in quanto è fonte, tacita e infor- male, di innovazione, rappresenta un vantaggio notevole non solo per chi vi partecipa ma anche per l’organizzazione nella quale si sviluppa, si è an- dato diffondendo un certo interesse per le pratiche che possono sostenerne lo sviluppo o, nei termini dei suoi teorici, per la cosiddetta ‘coltivazione’.
A questo proposito, Wenger con McDermott e Snyder (2002, p. 50) ci ricorda che il progettare per generare vivacità è differente dal progettare organizzativo che tradizionalmente si focalizza sul creare strutture, siste- mi e ruoli che conseguono obiettivi organizzativi relativamente fissati e si conformano bene con altri elementi strutturali dell’organizzazione. Infatti, questo tipo di progettazione dovrebbe seguire alcuni principi basilari che sono di seguito riassunti:
1. progettare per l’evoluzione, ossia progettare attività che possano portare a uno sviluppo ulteriore della comunità;
2. aprire un dialogo tra la prospettiva interna e quella esterna, che significa cercare di introdurre elementi esterni alla comunità e con i quali questa può confrontarsi al fine di ristrutturare i significati precedentemente condivisi;
3. prevedere differenti livelli di partecipazione, affinché tutti possano par- tecipare senza forzature e sentirsi, a qualsiasi livello di interazione, membri attivi della comunità;
4. sviluppare spazi comunitari sia pubblici sia privati, favorendo e salva- guardando, senza invaderli, i luoghi di aggregazione spontanea;
5. focalizzarsi sul valore, sostenendo la comunità nel riconoscere il valore che produce;
6. combinare familiarità ed eccitazione, attività di routine che favoriscano la stabilità per lo sviluppo delle relazioni con eventi stimolanti che sug- geriscano l’idea di partecipare a un’avventura comune;
7. creare un ritmo per la comunità, un andamento delle attività che non sia né troppo lento né troppo veloce poiché in un caso la comunità tende- rebbe a diventare fiacca, nell’altro a sentirsi eccessivamente caricata (ivi, pp. 51-63).
A tali principi si è cercato di ispirarsi anche nella progettazione dell’in- tervento di ricerca-formazione per i professionisti coinvolti nell’organizza- zione e gestione delle attività di Tirocinio del Corso di laurea in Scienze della Formazione primaria, con l’obiettivo di:
– sostenere il riconoscimento del gruppo come comunità di pratica; – sostenere il riconoscimento del valore prodotto dalla comunità;
– potenziare le dinamiche relazionali fra i membri della comunità e i membri dell’organizzazione (università);
– migliorare il clima organizzativo complessivo.
Infatti, sono stati previsti dei laboratori dialogico-riflessivi che vedono impegnato, in modo stabile, il gruppo dei Tutor coordinatori e al quale possono aggiungersi, a seconda dei focus, il gruppo dei Tutor organizzatori e/o i referenti delle scuole e/o i membri dell’organizzazione universitaria. Si tratta di interventi che permettono ai partecipanti di ri-costruire ambiti di conoscenza e di azione che connotano le ‘grammatiche’ esperienziali vis- sute dai Tutor nell’esercizio delle loro pratiche professionali.
Infatti, riprendendo il costrutto delle CdP, sappiamo che attorno alla pratica si strutturano aggregazioni sociali spontanee di attori che in essa e attraverso essa elaborano significati comuni, apprendono e costruiscono la loro identità soggettiva e collettiva. Il ricorso a una razionalità rifles- siva può allora consentire di intervenire sul rafforzamento dei livelli di consapevolezza che si accompagnano all’azione professionale: la persona al lavoro è invitata, guidata e supportata a riflettere sulle azioni che com- pie interrogandosi sui criteri adottati per la formulazione di giudizi, sulle procedure attuate, sull’impostazione dei problemi da risolvere, sui risultati raggiunti. La riflessione si concentra, così, sulle conoscenze implicite che si legano all’azione e che per molti versi la determinano e ne condizionano l’efficacia. La riflessione sul senso di un’azione mette in evidenza anche come gran parte del comportamento spontaneo proprio della pratica esper- ta non si leghi a precedenti operazioni cognitive, ma vada determinandosi direttamente nel corso dell’azione.
Adottando una epistemologia riflessiva della pratica il professionista riflette non solo sui dati di conoscenza acquisita e sulle modalità che ne hanno consentito la costruzione, ma anche sulle strutture di conoscenza prodotte nel corso della pratica. Ne deriva che la riflessione si definisce come dispositivo indagativo circa i modi in cui si articola il pensiero del professionista, i modi in cui attraverso una varietà di procedure euristiche sono state definite e comprese determinate situazioni, i significati che sono stati attribuiti a esse, le componenti funzionali che ne sono state date e i modi in cui, nell’ambito di tali situazioni, si determina o si è determinata la produzione e l’applicazione di artefatti e conoscenze.
Si tratta di laboratori di matrice dialogica perché una logica riflessiva richiede un continuo esercizio di azione riflessiva che è al contempo indi- viduale e comunitaria. I partecipanti al processo di indagine, tra i quali è ovviamente compreso il ricercatore, si impegnano in una collaborazione dialogica a partire dall’interrogazione iniziale del problema, fino a giunge- re alle fasi finali di valutazione del processo.
I laboratori, che sono stati avviati da alcuni mesi e si svolgono con ca- denza mensile, si sostanziano nello sviluppo di una discussione argomen- tata, guidata dal ricercatore/facilitatore, sviluppata attorno a un problema individuato dalla comunità o una questione posta dal ricercatore.
Riteniamo che un lavoro di questo tipo possa avere un positivo impatto tanto sull’organizzazione delle attività di Tirocinio quanto sull’organizza- zione universitaria in generale. Infatti, come sottolineano gli autori di Col-
tivare comunità di pratica, impegnarsi in questa attività rappresenta una sfida che riguarda non solo il funzionamento del gruppo ma ha a che fare con la trasformazione dell’organizzazione. Il punto centrale non è, infatti, potenziare la comunità per se stessa, ma potenziare la capacità complessiva
dell’organizzazione, nello specifico ambito del Tirocinio ma anche più in generale nel complesso delle sue attività, di apprendere e di innovare.
Riferimenti bibliografici
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