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La relatività ontologica dei sistemi

Cosa intenda Luhmann per teoria dei sistemi negli anni ’60 è facile indicarlo: la teoria dei sistemi

aperti di Ludwig von Bertalanffy e la teoria dei sistemi d’azione di Parsons. Continuamente vi si

richiama e non mancano le occasioni in cui ci spiega come egli si rappresenti il proprio lavoro nei termini di una originale e innovativa continuazione di queste proposte teoriche. La definizione luhmanniana di sistema chiuso, concetto formato in relazione al concetto di autopoiesi, determinato in ambito di biologia cognitiva da Francisco Varela e Humberto Maturana, è presentato come una radicalizzazione della teoria dei sistemi, grazie al quale si supera, sosterrà Luhmann in Sistemi Sociali, non soltanto analiticamente, ma anche sul piano della generalità della teoria dei sistemi, gli esempi su citati, arrivando concretamente a fornire i fondamenti di una teoria

generale.

Prima di questo sviluppo, che si registra nell’arco di un trentennio, tuttavia, la teoria dei sistemi ha avuto importanti predecessori. La teoria degli organismi viventi, da un lato, e la teoria delle macchine dall’atro, sono stati i due momenti inaugurali di questo serrato processo di

44 acquisizione63. In particolare, omeostatica e cibernetica, nei rispettivi ambiti, sono state in grado

di superare la concezione ontologica classica che presiedeva alla concettualità teleologica e meccanicistica della teoria della conoscenza64.

Da un lato l’organismo vivente non è più stato inteso soltanto come un “essere animale”, come organismo del vivente, ma in quanto “sistema adattivo”. Dall’altro una macchina viene presentata nei termini di “impianto auto-regolativo”. La concezione ontologica intendeva il sistema come l’unione delle parti, e orientava la teoria all’indagine sulla natura e sui modi di questa unione. La differenziazione interna veniva intesa come variabilità delle forme di composizione dell’ordine interno, e si prestava attenzione esclusivamente alla razionalità di quest’ordine. Questo isolamento del sistema in se stesso viene abbandonato sotto la pressione delle ricerche empiriche. L’importanza del concetto di azione per lo studio dei sistemi sociali, ne è un altro esempio. Ecco perché Luhmann può sostenere che il grande rimosso della teoria sistemica classico è il concetto di ambiente del sistema. Programmaticamente «ignorato o considerato unicamente come ordine interno di un sistema complessivo»65, l’assenza di una

riflessione sul tema ha ipostatizzato un concetto di identità relativamente stretto. La stabilizzazione del sistema diventa, nell’ottica del metodo funzionale, invece, più che la soluzione o l’effetto del problema della ricerca dell’ordine, il problema stesso.

Ogni sistema, analizzato secondo la prospettiva delle funzioni che lo determinano, rimanda alle possibilità che libera con la sua operazione di strutturazione della complessità. La stabilità non è più la qualità che definisce per essenza i sistemi, ma una relazione mutevole tra sistema e ambiente. Le principali prestazioni sistemiche, la cui analisi costituisce l’oggetto della ricerca funzionalistica, infatti, riguardano la «conservazione di un’indifferenza relativa nei confronti dei movimenti ambientali, di una distaccata autonomia e di un’elasticità e mobilità nelle relazioni tali da poter compensare gli inevitabili flussi ambientali»66. Da ciò, segnala Luhmann, discende

una serie di conseguenze di vasta portata. Intanto, si potrebbe aggiungere in partenza: il concetto di indifferenza relativa, proprio se si resta nel campo ontologico, è una vera rivoluzione nell’intendimento del rapporto universale/particolare, rispetto alle strategie teoriche di cui si parlava poco sopra, ovvero proprio in relazione alla risonanza con la hegeliana Aufebung e con la dottrina della contraddizione marxiana.

63 Cfr. A.M. Iacono, L’evento e l’osservatore, cit.

64 Cfr. N. Luhmann, Metodo funzionale e teoria dei sistemi , cit., pp. 42-51. 65 N. Luhmann, Metodo funzionale e teoria dei sistemi , cit., p. 42. 66 Ivi, p. 43.

45 La teoria funzionalistica amplia il concetto di identità ontica grazie all’uso del concetto di equivalenza funzionale, e riesce a farlo perché si riferisce, nel corso delle indagini che intraprende, costantemente al rapporto sistema/ambiente. Inserire nelle proprie riflessioni anche il riferimento all’ambiente, rende la teoria funzionalistica luhmanniana capace di porre accanto al problema della organizzazione il problema ricorsivo della organizzazione di questo organizzare, la funzione dell’organizzazione in un regime di differenziazione e di invarianza relativa tra un sistema e un ambiente. Nel vagliare questa dinamica, nel porsi dal punto di vista del punto di vista di un sistema che si differenzia, e che quindi non soltanto si organizza ma anche e soprattutto organizza la propria organizzazione in relazione all’ambiente, l’osservatore ha la possibilità di enunciare «formule-guida»67. Tra le più importanti nella tradizione

occidentale sicuramente quella di scopo, può essere, alla luce di ciò, così riletta: «la funzione svolta dalla scelta dello scopo ai fini dell’invarianza di un sistema (a differenza della motivazione degli scopi attraverso il ricorso a valori) può diventare oggetto della ricerca»68. E, dunque, non

“scopo” come categoria che disvela la natura autentica di un sistema, quanto lo studio di sistemi che orientano la differenziazione funzionale verso il proprio ambiente in termini – anche classici – di scopo, intendendo questo come una variabile in relazione alla formula di contingenza definita come “stabilità”.

Il concetto di funzione può servire a operare comparazioni se viene definito come forma di relazione tra sistema e ambiente. Inoltre, poiché non tutto può mutare contemporaneamente, ogni mutamento – per essere tale – deve far riferimento a delle costanti. Queste sono desumibili a partire dalle relazioni di scambio che si instaurano tra sistema e ambiente. In virtù di queste, un’altra importante conseguenza dell’applicare il metodo funzionale è quella di intendere tali operazioni in quanto confini, membrane che mettono in comunicazione un dentro e un fuori e che rappresentano lo spazio di esibizione tipico dei rapporti di diminuzione e aumento di complessità che sussistono nella situazione di asimmetria nella quale opera, e solo può operare, un sistema. La formazione di un sistema e il suo rapporto di invarianza relativa all’ambiente diventa un problema nella misura in cui l’idea che anima la teoria sistemica riguarda la possibilità di descrivere come questa formazione «deve essere strappata a un ambiente avverso, ricorrendo a una combinazione particolare di prestazioni sistemiche, e che essa resta in

67 Ibid.

46 questo senso problematica»69. In ogni altro caso si dà a prescindere dal sistema di un

osservatore interessato.

L’analisi viene collocata al livello del rapporto sistema/ambiente, e il suo interesse specifico consiste nel trovare empiricamente confermato il presupposto metodologico «secondo il quale ogni accertamento di funzioni serve a indicare delle varianti per la soluzione di determinati problemi»70.

Il concetto di ambiente, ovvero la sua assenza, ci fa capire come il contesto formale descritto dalle teorie finalistiche arrivava a formare teorie riduzionistiche, semplicistiche e perciò pronte all’uso. La difficoltà di mantenere le strutture sistemiche e di rifondare continuamente i confini tra sistema e ambiente ci mette dinanzi a una quantità di situazioni che non possono essere stipate tutte sotto l’unico concetto di scopo. E questo perché, il nesso sistema/ambiente, in poche parole, non pone un problema soltanto. Intanto si deve tener presente che «i problemi vissuti e le difficoltà comportamentali non sono semplicemente identici ai problemi che costituiscono il punto di riferimento funzionale»71. A fare da ponte è il concetto di latenza,

intesa come complessità ambientale presente e indeterminata, ovvero, rispetto alla dimensione temporale, ancora non-determinata.

Il carattere latente dei cosiddetti “problemi di fondo” ha un ruolo sul piano dell’osservazione non meno importante che su quello della riproduzione sistemica. Da un lato, quest’altro aspetto della invarianza relativa si mostra come la capacità specifica del sistema di non dover reagire costantemente a tutti i problemi di ordine ambientale; dall’altro, invece, segna la possibilità strutturale di decisionalità allargata per gli attori sociali. Un sistema è tale, infatti, non perché risponde sempre allo stesso modo, né perché intende sempre nello stesso modo gli impulsi che riceve dall’ambiente: è un sistema perché di fronte ai mutamenti dell’ambiente dispone di più alternative per reagirvi, alternative che sono funzionalmente equivalenti, determinabili analiticamente sotto punti di vista sempre più astratti, propri della teoria dei sistemi. La comparazione funzionale ci aiuta a considerare che ciò che esiste è in rapporto ad altre possibilità. Tale operazione teorica fissa i criteri astratti rispetto ai quali è possibile sostituire ciò che è con qualcos’altro. L’assunto che lega teoria dei sistemi e analisi funzionale è il seguente: entrambi sono permeati e uniti da un’ipotesi comune, quella secondo la quale un sistema può

69 Ivi, p. 45. 70 Ibid. 71 Ibid.

47 essere spiegato a partire dalla sua «potenziale razionalità»72. Per operare una comparazione c’è

bisogno di accostare al metodo criteri di riferimento, ricavati da una teoria che si mostra all’altezza della sostituibilità delle cause: questa teoria, appunto, è la teoria dei sistemi.

La differenziazione tra metodo e teoria fin qui descritta può essere applicata al caso specifico della ricerca sociale. Partendo dalle conclusioni a cui arriva Talcott Parsons, l’argomentazione fin qui sostenuta può assumere la seguente forma: il metodo comparativo e la teoria del rapporto sistema/ambiente vengono impegnati per interpretare l’azione sotto il punto di vista delle alternative funzionalmente equivalenti e per considerare l’agente alla luce di una razionalità di cui egli stesso è capace, sebbene gli resti sconosciuto l’aspetto di organizzazione informale73 e di

latenza di questo stesso agire.

Da questo punto di vista, si può dire con Luhmann che un «sistema d’azione è razionale nel caso in cui gli interessi che ne assicurano la stabilità sono generalizzati in modo tale che di fronte a un mutamento delle condizioni ambientali si delinea un numero sufficiente di possibilità di soddisfarli» 74. L’ambiente non pone infatti un unico problema, e le difficoltà di

mantenere le strutture sistemiche in condizioni di invarianza dipende proprio dalla autonomia di cui gode l’ambiente e il sistema, rispettivamente. Ecco perché la classificazione delle variabili parsoniane dovette sembrare a Luhmann un altro esempio – sebbene il miglior esempio fin lì possibile – di una filosofia del rispecchiamento. In «maniera molto elementare»75, scrive

Luhmann, antropologia sociale e sociologia funzionalistica hanno inteso le difficoltà suddette in termini di “contraddizione”, “conflitto”, “esigenze funzionali di carattere contraddittorio”. Nel caso di Parsons: «la tesi più importante consiste nel dire che ciascun sistema d’azione ha da risolvere quattro diversi problemi fondamentali […] l’adattamento (adaptation), il raggiungimento dello scopo (goal atteinment), l’integrazione (integration), e il mantenimento delle strutture latenti (latent pattern maintenance)»76. Legato allo schema ontologico dell’identità, Parsons

concepisce il fine ancora come una caratteristica sostanziale dell’azione, omogenizza ancora metodo e teoria all’interno di una visone che cela la propria matrice costitutiva, e che, nonostante ciò, continua ad orientare la stesura della teoria. L’errore commesso dal sociologo americano non si inscrive su un piano analitico, e dunque la critica di Luhmann non si appella a criteri di cogenza. Il problema teorico – quindi non meta-teorico, come sarebbe da un punto di 72 Ivi, p. 51. 73 Ivi, p. 46. 74 Ivi, p. 54. 75 Ivi, p. 46. 76 Ibid.

48 vista interno alla teoria stessa, secondo lo schema congettura/confutazione – si innesta sul piano del metodo: ogni ambito è assunto in quanto variabile del rapporto sistema/ambiente, tuttavia i fini e gli scopi vengono concepiti ancora come una qualità sostanziale dell’azione. Così facendo Parsons si preclude la possibilità di concepire un problema sistemico più astratto e quindi fondamentale: la stessa funzionalità delle determinazioni dette finalistiche. Tuttavia, si può aggiungere, sulla scorta di Parsons, un’altra conseguenza importante dell’aver assunto il punto di vista della teoria dei sistemi e dell’analisi funzionale è il poter affermare che i sistemi risolvono i propri problemi attraverso la formazione di strutture.

I sistemi sociali consistono effettivamente in azioni fattuali e nelle connessioni di senso che tra queste si definiscono. Una connessione di senso è tale perché reindirizza costantemente le selezioni successive. L’azione non è una cosa in sé, piuttosto può dirsi “sociale” perché nell’evento del suo emergere è strutturalmente connessa alla possibilità della sua riproduzione. È questa possibilità ad agire come struttura e a poter acquisire «durata, coerenza e capacità di creare consenso per il fatto che l’azione diventa prevedibile in quanto norma»77. Il passaggio

successivo è l’ istituzionalizzazione di questa norma, la stabilizzazione esplicita di una forza latente e delle aspettative di comportamento che libera sul piano della comunicazione.

Per rendere invariante una struttura sistemica occorre che il senso, secondo la dimensione temporale, materiale e sociale, operi processi di generalizzazione e istituzionalizzazione delle aspettative di comportamento. Superando lo schema finalistico si è in grado, perciò, di concepire un insieme di azioni come sistema sociale, nella misura in cui, dinanzi ai mutamenti ambientali, non lo si immagina come una concatenazione di effetti lineari, ma in quanto insieme che dispone di più di un’alternativa per reagire alle sollecitazioni dell’ambiente. La sicurezza o la stabilità di un sistema non coincide con l’identità del sistema, come se si trattasse di una

simulazione costantemente ripetuta in relazione a un “originale” che tende a ripresentarsi quale sogno di una copia78, ma con la capacità di creare strutture, di organizzare alternative. La struttura

sociale che è in grado di innescare questa produzione di unicità – che corrisponde anche alla possibilità per l’osservatore di staccarsi dall’atteggiamento del pensiero rappresentativo, dallo schema formale soggetto/oggetto – riguarda le aspettative di comportamento.

Bisognava operare un ampliamento in senso metodologico, riformulare il funzionalismo causalistico come funzionalismo comparativo, perché si cominciasse a valutare, accanto

77 Ivi, p. 47.

49 all’eterogenesi dei fini, la possibilità strutturale di sostituzione delle cause. La teoria dei sistemi aveva già per molti versi disposto e utilizzato questo ampliamento su un piano teorico. La delimitazione concettuale tra azione e aspettative, tra senso delle azioni e azione del senso, doveva fare il resto: almeno per Luhmann e rispetto alla possibilità di una teoria generale dei sistemi sociali. Ovvero, ricapitolando: in base alle strutture prodotte, un sistema utilizza i problemi che incontra come criteri di riferimento. Questi diventano i punti da cui può partire l’analisi funzionale e i nessi per la regolazione dei processi di sostituzione. Diversamente da quanto ci si aspetterebbe, la sostituibilità di una unità di senso, che si tratti di un’azione, una norma, un rito, un enunciato, ci informa del suo significato specifico, della sua unicità. Ma soltanto tramite il riferimento a una rete complessa di problemi sistemici è possibile valutare quali alternative risultino realmente soddisfacenti. Questa rete complessa di problemi sistemici è il canovaccio79 – oltre che la condizione di possibilità reale – per la formulazione di una teoria

sociologica intesa nei termini di una teoria generale.