La questione della qualità si pone più spesso in relazione al servizio pubblico a cui unanimemente si attribuisce la responsabilità di offrire una produzione di qualità elevata che possa informare i cittadini e inserirli in una cultura democratica. Da questo punto di vista, è frequente che il concetto di qualità venga formulato e concepito in contrapposizione alla dimensione quantitativa degli indici di ascolto. Secondo Mejer (2005), il dilemma tra qualità e ascolti può essere risolto sia introducendo una nuova concettualizzazione di audience, l’enjoyer, in aggiunta a quelli classici di cittadino e consumatore, che articolando insieme nuovi repertori discorsivi sulla televisione di qualità. La proposta di Mejer si basa su un’articolata ricerca empirica volta a cogliere e descrivere i repertori interpretativi usati da produttori, ideatori creativi, manager di emittenti televisive, per definire la qualità televisiva, l’intrattenimento e la responsa-
bilità pubblica. La base di dati include interviste, focus group (con soggetti eterogenei che comprendono sia i produttori che gli accademici), documenti di policy, articoli di giornali e documenti interni. La metodologia utilizzata è di natura qualitativa e consi- ste nell’analisi dei repertori interpretativi indagati in quanto sistemi lessicali o registri di termini e metafore che caratterizzano e valutano azioni ed eventi. Focalizzandosi sulle figure retoriche, sulle costruzioni stilistiche o linguistiche più ricorrenti, questo tipo di analisi si concentra sulle potenzialità produttive del discorso più che su quelle meramente descrittive, ovvero su come il discorso posiziona i soggetti, crea identità, instaura relazioni, razionalizza e normalizza la realtà.
I risultati hanno delineato cinque vocabolari sulla qualità, presenti discorsivamente a livello sia implicito che esplicito e connessi a specifiche funzioni sociali: il vocabo- lario del marketing, quello dell’artista, quello dell’artigiano, quello dell’insegnante e quello del moderatore. Il vocabolario del marketing, concentrato sui target di mercato e le percentuali di share, è utilizzato prevalentemente dai manager e dai dirigenti, citato dagli autori ma da questi rigidamente disconnesso da qualsiasi nozione di qualità tele- visiva. Tuttavia, l’autrice fa notare come in alcune specifiche circostanze, il linguaggio del marketing fosse mobilitato per legittimare la rilevanza sociale di alcuni programmi per specifiche fette di mercato. Nel vocabolario artistico la qualità coincide sempre con qualcosa di speciale e inatteso ed è legata alle speciali qualità estetiche di un pro- gramma (la trama, l’editing, la location, il potenziale creativo). É sempre spiegata alla luce della buona o cattiva reputazione dell’autore e può essere riconosciuta solo da uno sguardo esperto. In questo vocabolario, innovazione e sperimentazione sono concetti centrali e una riscrittura consapevole o ludica delle convenzioni di genere è premiata come indizio di qualità. Nel vocabolario artigianale, la qualità di un programma coin- cide con la sua capacità di svolgere le funzioni per cui è stato concepito. Per esempio, se è stato concepito per svolgere una missione pubblica a vantaggio dei cittadini, la sua qualità coinciderà con la capacità di prendere in considerazione questioni come l’etnia, l’età, il genere. Se è stato pensato per intrattenere i suoi spettatori, allora la dimensione narrativa è indicata come caratteristica essenziale. Il vocabolario pedagogico si basa sull’idea che la cultura debba essere resa leggibile, comprensibile e intuitiva. Questo quadro discorsivo si spinge oltre il semplice riconoscimento del potenziale educativo o informativo di alcuni programmi televisivi. Gli spettatori devono potersi confrontare con contenuti e valori utili ad affrontare la propria vita quotidiana. Nel vocabolario pedagogico, c’è una qualità etica dei programmi che coincide con l’ampliamento o l’approfondimento dell’immaginazione dei pubblici che li rende capaci di comprendere prospettive diverse dalle proprie. Infine, nel vocabolario del moderatore, la qualità è definita in base all’impatto generato sul pubblico. Ciò che conta è soprattutto la capa- cità di stimolare la discussione e di accogliere punti di vista eterogenei. Un esempio eloquente citato dall’autrice della ricerca è riferito al Grande Fratello. Se all’inizio, le critiche di giornalisti, opinionisti, critici lo classificavano come noioso e rozzo, se non eticamente inaccettabile e disumano, col passare del tempo in tanti hanno iniziato ad apprezzarne la capacità di stimolare la discussione offrendo diversi temi di dibattito. La
qualità come moderazione può essere articolata come capacità di offrire narrazioni che sappiano orientare la riflessione su se stessi o sulle relazioni con gli altri, come offerta di quadri di rappresentazione e identificazione che alimentino la consapevolezza di essere riconosciuti e coinvolti nello spettacolo messo in scena.
Questi cinque modi di concettualizzare la qualità non differiscono tanto nelle di- mensioni mobilitate per definirla quanto nel modo in cui queste stesse dimensioni si connettono a particolari concezioni del ruolo del produttore creativo, dell’audience e dell’obiettivo del programma. Per esempio, il valore dell’autenticità ricorre in tutti e cinque i vocabolari ma in quello artigianale si riferisce all’uso di persone comuni, in quello artistico all’impossibilità di essere imitati, in quello dell’insegnante alla capa- cità di aderire alla vita reale, in quello del moderatore al coinvolgimento senza ironia. Molteplici vocabolari potevano essere usati contemporaneamente dagli stessi intervi- stati sebbene l’autrice rimarchi la differenza tra un utilizzo discorsivo volto preva- lentemente a censire e riconoscere la diversità di punti di vista del proprio ambiente professionale e uno orientato a legittimare come sensate e fondate le proprie pratiche professionali. Nonostante questa permeabilità sempre presente in potenza, alcuni quadri discorsivi si dimostravano più adatti a offrire una cornice normativa sulla televisione di qualità.
Per esempio, solo pochi professionisti televisivi erano in grado di spiegare come e perché la moderazione fosse un elemento proprio della televisione di qualità; al contrario molti autori di programmi rifiutavano categoricamente di riconoscere una qualche rilevanza pubblica al repertorio discorsivo del marketing. Se in un caso, il repertorio discorsivo sembrava dunque inadatto a includere in sé ed eventualmente sviluppare un legittimo orizzonte normativo, nel secondo caso la cornice normativa risultava così rigidamente ancorata a un delimitato contesto sociale da impedire qual- siasi forma di permeabilità con ambienti affini.
Se combinata con la nozione di “qualità relazionale” precedentemente introdotta, l’analisi approfondita dei repertori discorsivi consente di intravedere un nuovo ruolo per la ricerca accademica che si occupa di televisione e dei criteri normativi con cui giudicarla. L’esplorazione dei linguaggi e dei vocabolari mobilitati per rendere conto delle aspettative di ciascun operatore televisivo non è infatti fine a se stessa ma può essere indirizzata all’individuazione di quegli spazi discorsivi in cui le differenze di concettualizzazione o di definizione si assottigliano fino a diventare reciprocamente permeabili.
Da questo punto di vista, il compito della ricerca può dunque consistere nella facili- tazione dello scambio relazionale tra portatori di interessi e di concezioni differenziate mediante la predisposizione di un terreno discorsivo che faciliti l’incontro e la conver- genza di punti di vista. Si tratta dunque di esplorare possibilità discorsive inedite, di aprire e moltiplicare le cornici di senso per spostare l’attenzione laddove i significati appaiono più fluttuanti e dare così corpo a possibilità di cooperazione presenti solo in potenza.