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Le scelte mediche di fine vita G M Bianch

L'Anestesista Rianimatore (AR) si trova spesso a compiere “scelte di fine vita”. Lo fa quando deve decidere se iniziare, o interrompere, o limitare il trattamento intensivo.

Ma prima ancora della scelta sul tipo di intervento da operare, il medico di T.I. deve “scegliere di scegliere”. Deve cioè porsi nella condizione, impegnativa e non facile, di sganciarsi dall'automatismo e dalla consuetudine del “fare tutto a tutti”.

All'AR, ormai da diversi anni, viene richiesta, oltre alla preparazione nella disciplina, una buona conoscenza nel campo della bioetica e della comunicazione. Sono due materie strettamente legate tra loro e risultano indispensabili per poter affrontare le decisioni EOL (end of life).

L'AR ha a sua disposizione un testo su cui si dovrebbe preparare: le “Raccomandazioni per l’ammissione e la dimissione dalla

Terapia Intensiva e per la limitazione dei trattamenti in Terapia Intensiva”, comparse su Minerva Anestesiologica (2003;69:101) a

cura della Commissione ad hoc di Bioetica della SIAARTI.

In esse si dichiara: “Queste raccomandazioni devono essere considerate come principi generali e non come specifiche istruzioni. Pertanto, rappresentano una cornice concettuale intesa a favorire la gestione dei problemi di bioetica clinica e non a limitare la potestà decisionale del singolo AR, il quale mantiene la libertà e la correlata responsabilità personale nelle decisioni adottate nei singoli casi clinici.”

Tali raccomandazioni sono in linea con i principi etici generali che regolano le cure dei pazienti in condizioni critiche. Tali principi sono riportati nei numerosi documenti di consenso formulati dalle Commissioni Etiche delle principali Società scientifiche internazionali, nella Convenzione Europea di Oviedo sui diritti umani e la biomedicina (1997) e nel Codice Deontologico Medico (2006).

“L’obiettivo ottimale del trattamento intensivo è il recupero totale dello stato di salute. In realtà, nella pratica clinica quotidiana, l’obiettivo concretamente perseguibile dalla medicina intensiva può diventare quello del mantenimento di una vita dignitosa, del controllo della sofferenza e della garanzia di una morte dignitosa. ...In particolare, non devono essere praticate quelle terapie sproporzionate per eccesso che procrastinano inutilmente la morte.”

Nella medicina intensiva è particolarmente utile ricorrere al criterio della proporzionalità delle cure. Questo criterio definisce l’appropriatezza di un trattamento in base ai seguenti elementi:

• miglioramento della qualità di vita, • prolungamento della sopravvivenza,

• probabilità di successo e oneri (in termini di disagi e sofferenze) relativi al trattamento stesso. Due sono gli aspetti più importanti relativi alle decisioni di fine vita:

1. principi etici: autonomia, beneficialità, non maleficialità, giustizia distributiva;

2. i fattori clinici (correlati al paziente): età biologica [neonatologia-geriatria], biografia personale, patologie concomitanti, gravità e prognosi dello stato critico attuale, qualità di vita pregressa e prevedibile.

È fortemente auspicato un dialogo tra i sanitari e il paziente, oppure i suoi parenti.

Se il paziente è mentalmente incapace, le decisioni terapeutiche devono tenere conto delle volontà precedentemente espresse dal paziente stesso o delle sue volontà presunte, facendo così riferimento ai due standard etico-giuridici tradizionali nel processo decisionale etico-clinico:

• il giudizio sostitutivo, procedura decisionale in cui si incoraggiano i familiari e le persone care al paziente a esprimere la testimonianza circa la decisione che il paziente avrebbe probabilmente preso in quella circostanza clinica;

• il migliore interesse del paziente, procedura decisionale che si fonda sul bilancio fra i benefici attesi e gli oneri previsti del trattamento terapeutico per quel dato paziente.

Nelle “Raccomandazioni” del 2003 vengono elencate le ragioni per una limitazione dei trattamenti intensivi: • impossibilità del trattamento a perseguire l’obiettivo per cui si è attuato;

• constatazione del fallimento di un trattamento dopo un periodo di prova per verificarne l’efficacia; • rifiuto da parte del malato cosciente di un determinato trattamento o rispetto di dichiarazioni anticipate.

In questi casi all’approccio intensivo deve essere preferito l’approccio palliativo inteso come presa in carico globale del malato critico che si sostanzia nel controllo del dolore e degli altri sintomi, nell’attenzione ai bisogni del malato e dei suoi famigliari, nel supporto psicologico e spirituale.

In questo ambito rientra anche il caso, sempre più frequente, di malati molto anziani la cui aspettativa di vita, già compromessa per la presenza di molteplici malattie coesistenti, è ulteriormente ridotta a causa di patologie chirurgiche acute intercorrenti, per le quali vengono proposti interventi in urgenza ad altissimo rischio. Purtroppo accade che l’incompleta informazione del malato, l’approccio aprioristicamente interventista del chirurgo e il timore di contenziosi legali impediscono una serena discussione collegiale del caso per una opzione terapeutica di tipo palliativo.

I pazienti in fase terminale per una patologia irreversibile non devono essere trattati in modo intensivo, né devono essere ricoverati in TI. Sono i pazienti affetti da lesioni cerebrali devastanti o non suscettibili di trattamento o prossimi alla morte cerebrale che non siano donatori d’organo, quelli con insufficienze multiorgano irreversibili o con neoplasie non rispondenti ai trattamenti specifici. Nei casi in cui sia difficile prendere una decisione è preferibile iniziare comunque il trattamento intensivo per poter valutare la risposta clinica e per guadagnare tempo per la raccolta di informazioni. Dopo un certo tempo si rivaluterà la situazione e si limiterà il trattamento, se è emersa l'evidenza di una mancata risposta alle terapie o di una volontà contraria del paziente.

Si definisce “trattamento inappropriato per eccesso” (meglio di “accanimento terapeutico”) la prosecuzione delle terapie senza un'effettiva utilità per la prognosi e per la qualità della sopravvivenza del malato, con l'aggravio delle sofferenze sue e dei famigliari. Tale prosecuzione, inoltre, risulta frustrante per i curanti e genera un'iniqua distribuzione delle risorse, sottraendole ad altri pazienti. Dal punto di vista etico, si è ormai convenuto che non vi è alcuna differenza tra il non intraprendere (withholding) e il sospendere (withdrawing) un determinato trattamento quando questo si riveli non appropriato. La Appleton Consensus Conference riporta che spesso, dopo un tentativo di trattamento, si ha una qualche più chiara prova medica della sua inefficacia, e la sospensione di un trattamento che non ha effetti o che è dannoso è ancora più giustificata del non avere neanche iniziato il trattamento.

Tale processo decisionale etico-clinico deve coinvolgere tutti i componenti dell'équipe curante al fine di raggiungere un consenso condiviso e deve prendere in considerazione anche le opinioni dei famigliari.

L'obiettivo del documento “Le cure di fine vita e l’Anestesista Rianimatore: Raccomandazioni SIAARTI per l’approccio al malato

morente” (Minerva Anestesiologica 2006;72:927) è quello di fornire all'AR dei suggerimenti operativi in merito alla gestione di

alcune problematiche di riscontro frequente nel malato morente, sia quando esse si presentino in TI sia quando egli venga coinvolto nella decisione in qualità di consulente in Pronto Soccorso o nei reparti di degenza.

Informazione e comunicazione

La qualità della relazione e della comunicazione è una componente essenziale della cura. Numerosi studi identificano nella cattiva comunicazione il principale motivo di insoddisfazione dei famigliari dei ricoverati in TI. Esistono da tempo metodiche raccomandate di buona comunicazione.

Comunicare cattive notizie

L’AR è spesso coinvolto nel trattamento di malati con prognosi infausta. La capacità di comunicare notizie negative, inclusa la morte del malato, costituisce per l’AR un importante requisito professionale. La sequenza è: preparare il dialogo, verificare il grado di informazione dei famigliari e quanto e cosa vogliano sapere, fornire le notizie gestendo le emozioni.

Non sono da sottovalutare i bisogni emotivi e gli effetti che il colloquio lascia in chi lo conduce. E’ bene verificare passaggi e dubbi, comprendere eventuali errori e coinvolgere anche altri colleghi nei casi più complessi.

Dispnea al termine della vita

E’ il sintomo più frequente tra i pazienti che accedono in area critica (PS, TI): malati morenti per neoplasia polmonare (32%), per BPCO (56%) e per insufficienza cardiaca (61%). Il comfort del malato deve essere il primo obiettivo: sedativi, analgesici, rimozione di presidi che procurano disagio, accesso agevolato dei famigliari con spiegazione delle varie procedure.

Sospensione della ventilazione meccanica

In presenza di un’attività respiratoria spontanea si può optare per il mantenimento o per la rimozione del tubo tracheale. La scelta tra le due opzioni è in base al criterio del miglior confort del malato, tenuto conto del punto di vista infermieristico e della percezione dei famigliari, che devono essere confortati nella certezza che “è stata fatta la cosa giusta”.

Sedazione e analgesia

Rianimazione cardiopolmonare

La “decisione di non rianimare” deve essere riportata esplicitamente per iscritto nella cartella clinica come indicazione/decisione, con firma del medico e del dirigente del reparto se in TI o dell’AR consulente se in PS o nei reparti. E’ consigliato annotare un riassunto del percorso clinico che ha portato al convincimento, indicando anche l’avvenuta comunicazione ai familiari di tale decisione.

I processi decisionali di fine vita comportano talvolta disaccordi o veri e propri conflitti fra operatori e familiari o fra gli operatori stessi. E’ quindi opportuno continuare i trattamenti intensivi finché non si giunga ad una decisione condivisa.

In Italia, ogni anno vengono ricoverati circa 150.000 pazienti nelle 400 TI. La mortalità è del 20%.

Su Intensive Care Med del maggio 2010 fu pubblicata una ricerca del GiViTI (Gruppo Italiano di Valutazione degli Interventi in Terapia Intensiva): “End-of-life decision-making and quality of ICU performance: an observational study in 84 Italian Units”. L’analisi dei 3.782 pazienti deceduti nel corso del 2005 evidenzia che il 38% ottenne un supporto delle funzioni vitali completo, mentre il 62% ricevette una limitazione dei trattamenti. Nel 15% non vennero intraprese intubazione, ventilazione, tracheotomia, vasopressori, dialisi/emofiltrazione, chirurgia, trasfusioni, nutrizione; nel 19% tali procedure vennero sospese; nel 28% non venne praticata la rianimazione cardiopolmonare. L’impiego di sedativi e analgesici fu del 74% nel gruppo “limitazioni” e del 62% nel gruppo “supporto totale”.

Le decisioni, di qualunque natura esse siano, vengono preferibilmente prese in gruppo. Nel 27% dei casi vi hanno partecipato gli infermieri; nel 20% è stato un solo medico a decidere.

Al momento dell’ammissione in TI, in oltre il 90% dei casi è stata decisa e attuata una terapia piena, con tutti i trattamenti intensivi disponibili. Le decisioni di limitazione dei trattamenti avvengono più tardi nel decorso clinico, quando la prognosi infausta si è evidenziata. Dallo studio si rileva che tali decisioni vengono prese in base alle probabilità della qualità di vita futura piuttosto che sulla predittività di sopravvivenza secondo scale di gravità oggettive.

La partecipazione dei famigliari è stata completa nel 48% dei casi e parziale nel 12% dei casi.

Su Minerva Anestesiologica del 2007 uno studio di Baggio e Malacarne (“Burnout in Intensive Care Unit”) evidenzia come la maggior causa di stress per l’équipe sia la responsabilità per le cure di fine vita (decisioni cliniche e relazione con i parenti).

La comunicazione tra medici, infermieri, pazienti e familiari

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