Noi passeggeri avevamo già preso posto in pullman, quando salì una giovane donna. Indossava un basco bleu sulle ventitré. Alta, slanciata, un sorriso disarmante e il volto rosso fuoco. Timida, si-curamente! Arrivata in ritardo, fu relegata all’ultimo e striminzito posto in fondo. Mi girai più di una volta. Il suo volto era costante-mente rivolto al paesaggio che scorreva attraverso i vetri. Qualcuno improvvisò un canto, ma la mia mente era occupata dalla visione della sconosciuta, non solo non partecipavo ai canti, ma ero sordo a quelle voci scombinate. Ci fu una prima tappa. – Caffè macchiato, grazie – Anche per me – disse la giovane, ora accanto a me.
– Siamo compagni di viaggio – mi approcciai.
– Sì – disse senza tentennamenti.
Allungai la mano verso la sua, che strinsi.
– Perché non viene a sedersi accanto a me? Come fa a stare in quel piccolo posto?
– Oh, è splendido! Di lì vedo il mondo interno ed esterno. Le bel-le persone che mi sono accanto parlano sempre. Io nel mio sibel-lenzio penso e osservo. Creda, dopo tanto lavoro si ha bisogno di pace. –
Eravamo diretti a un Santuario di eremiti, forse un luogo adatto a entrambi. Il mio lavoro di medico mi aveva tenuto occupato, sen-za mai una vacansen-za da due anni, non perché fossi uno ‘stacanovista’, ma semplicemente per dovere e necessità. Non mi ero fatto medi-co a caso. Sapevo che quella era una missione, senza se e senza ma.
– Il suo è un lavoro impegnativo? – chiesi.
– Sono un avvocato. –
Fu lì che iniziai a pensare che una moglie avvocato non si addi-ceva a me, che avevo sempre pensato a una donna accanto per accu-dire i figli e pronta ad accogliermi al mio ritorno. Cosa andavo mai
pensando? Già, cosa? Diversi solleciti del clacson erano il richiamo per risalire in pullman. La sua mano premette sul mio braccio.
– Dobbiamo andare. –
– Sì – risposi un poco frastornato per tutte le idee che si erano affastellate nella mia mente e nel mio cuore.
Una volta saliti, ognuno ritornò al proprio posto. Nessuno, pro-prio nessuno, disse sì alla mia richiesta di due posti vicini. Così va la vita e, per ben tre ore, non feci altro che sognare una vita con lei.
Come attirato, mi girai diverse volte. Lei guardava dalla mia parte.
Fu inevitabile per il mio sorriso incontrare il suo. La vacanza, oltre che spirituale, avrebbe avuto un volto diverso e qui la speranza si era fatta quasi certezza.
La fortuna fu dalla mia parte, anzi dalla nostra. Il posto a tavo-la ci trovò vicini. Tra una portata e l’altra iniziammo a raccontarci.
Ci conoscemmo, come forse due anime non avevano mai vissuto in tanti anni.
Vivemmo brevi incontri. Una sera, dopo cena, ci ritrovammo seduti sotto una tettoia di antico legno che ogni tanto lasciava cade-re della pula, probabilmente frutto di tarli che stavano beatamente divorando quella splendida e antica costruzione. La sentivo amica, mi sentiva amico. Come ci fossimo conosciuti da sempre, che dire qualcosa di semplice, forse già vissuto, ma per me, di forte impatto.
Ero un razionale, lontano da certo sentire.
Era il giorno di tornare nella nostra città, ognuno alle proprie case. Un signore, sorridendomi, mi concesse il suo posto, affinché il nostro viaggio di ritorno avesse un “sapore” diverso. Ora, Elisa-betta mi era accanto, sentire il suo braccio sul mio, il suo sguardo su di me: era una magia, forte per entrambi. Presi la sua mano e la tenni per un’eternità. In un mondo di follie, di guerre, di cattivi sentimenti, dove tutto sembra crollare, eravamo due persone che si erano incontrate per un volere non nostro e una attrazione psico–
fisica da parte mia davvero sconcertante. Mi avvicinai a lei e scesi sulle sue labbra. Non forzai quella mia dolce pressione. Fu sempli-cemente un gesto atavico come il mondo e lei era per me un nuo-vo modo di approcciarmi a una donna. Non reagì, ma allungò la
mano sul mio volto. Un gesto semplice, ma caldo per me. Il fuoco, sopito per anni, si stava accendendo di sentimenti mai provati. For-se perché avevo incontrato donne molto più spavalde e con meno riserbo. Qui il fato stava giocando una sua carta. La sentivo mia, mi sentivo suo. Il suo braccio allacciò il mio. Aveva tolto il piccolo divisorio, per aderire ancor più a me. L’orgoglio maschile m’invase.
– Cosa ci sta accadendo, caro amico mio? Può un fuoco ardere così, a distanza di poche ore, in così pochi giorni, da scombussolare questo mio povero cuore, da mettere in confusione il mio pensare?
Caro Marcello, può essere vero tutto questo? –
Aspettava una mia risposta, quando in cuore sentivo esattamen-te quello che lei provava. Posi il mio braccio attorno alle sue spalle e per tutta risposta la baciai, tra le risatine dei nostri compagni di viaggio che vedevano in noi nascere un amore.
L’entusiasmo colse di sorpresa l’intera compagnia. Partì un ap-plauso e una voce fuori dal coro urlò: – Evviva, ci farete mangiare i confetti!?! –
Inevitabile da parte mia prendere una posizione: – Promesso, sarete tutti invitati, vero cara? – Solo allora mi accorsi delle lacrime di Elisabetta.
– Non si scherza su certe cose. – sussurrò.
– Mai stato tanto serio. – replicai sornione.
Il ritorno a casa non fu esattamente quello che mi aspettavo:
amore, tenerezza, complicità, incontri. Invece nessuna risposta al cellulare, nessun cenno alla nostra dolce parentesi, preludio a qual-cosa d’importante, almeno per me. Cosa non era andato bene, in cosa avevo sbagliato, che cosa l’aveva turbata? Ammetto, stavo pas-sando giorni d’ansia, tanto da preoccupare i miei colleghi che mi vedevano un poco distratto, in apprensione. Non volevo confessare nulla della magia di quei giorni. Volevo per me quei dolci ricordi.
Volevo lei per me.
Stavo uscendo per una pausa, quando lo sguardo scese su un quotidiano, che il giornalaio lasciava ogni mattina nel nostro stu-dio d’ospedale. Dovetti sedermi. La notizia di Elisabetta colpita gravemente da un suo cliente era scritta a caratteri cubitali. Io che
lavoravo in ospedale non ero a conoscenza di quel grave fatto, acca-duto da qualche giorno in un’altra città, lontana da tutto e da me.
Ora mi spiegavo i suoi silenzi, i suoi vuoti e i miei interrogativi!
– Vi prego, ho bisogno di giorni! – Urlai uscendo. Giunto al suo reparto la vidi intubata, ma per fortuna non più in pericolo di vita.
Stetti lì giorni e giorni, senza mai lasciarla. Potei conoscerne i ge-nitori, non più giovani e talmente provati d’aver bisogno loro stes-si di un medico. Il sorriso dolce della madre mi ricordò quello di Elisabetta rivolto a me nei giorni della tenerezza e davvero madre tenerezza fu la protagonista di quel periodo di sofferenza per tutti.
Era settembre, due mesi dal nostro incontro. Mia madre ci rag-giunse. Voleva conoscere la dolce e bella donna di cui mi ero per-dutamente innamorato.
– Come sta? –
– Meglio, mamma, meglio. Ce la farà, ne sono sicuro. –
– Con te accanto, ne sono certa. Non sarà tanto la tua esperien-za di medico a salvarla, ma il tuo amore. – Qui ci guardammo come solo un figlio e una madre riescono in quei frangenti.
Un suono. Sbiancai. Un lieve movimento aveva sollecitato le ap-parecchiature. Le palpebre si muovevano. Presi la mano di mia ma-dre e la sua. Stringevo fortemente quella di mia mama-dre, dolcemente quella di Elisabetta.
– Mar… Marcello… mio amato, cosa… cosa mi è accaduto? – Improvvisamente lo sguardo si spalancò sulla memoria. Si era sve-gliata, grazie a Dio.
– Cara, stai calma. Ora devi solo pensare a guarire. Ci sono io, ci sarò sempre. Il tuo cliente: tu lo difendevi, lui ti voleva morta. –
Mia madre, avvicinando il volto alla mia donna, le sorrise.
– Cara guarirà presto. Marcello è bravissimo. –
Ma in cuor suo sapeva quali conseguenze lasciavano certe armi.
Sono passati anni da quell’incontro. Elisabetta è con me. Non avrei mai rinunciato a lei che, relegata a una carrozzella, continua a ricordarmi il suo amore con il mio, in quel pullman.
(Collevalenza 1989)