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1938–1958

Da tempo si affronta il problema del gioco d’azzardo, nelle sue pe-culiarità. E, come un fulmine, mi tornano alla mente le parole di mia madre.

Quel mattino, mentre giravamo le bancarelle del mercato, fum-mo fermate da Aurora, una bella signora, non più giovane e vestita rigorosamente di nero. La conoscevo, era una cliente di mamma, che da mesi non chiedeva più di confezionarle la splendida bian-cheria.

– Posso venire? Ho bisogno di parlarti. – – Vieni, pure.

Qualche giorno dopo giunse. Si sedette in una di quelle sedie stile liberty, che mamma teneva come la più preziosa. Postasi in un angolo della stanza scoppiò in lacrime. Il fiume della confessione aprì i suoi argini: suo marito, grande giocatore nei casinò con me-ga puntate nel gioco d’azzardo, aveva perso tutto il patrimonio di famiglia, lasciando la sua sposa ‘povera in canna’. L’improvvisa mi-seria e la consapevolezza che il disonore era ormai di dominio pub-blico l’avevano portato a suicidarsi.

Ero piccola, allora, per comprendere il gesto, ma a Fano si parlò per molto tempo di questa tragedia. Per fortuna il tempo fa anche di-menticare. Non per la povera vedova, che più il tempo passava e più stava male. Il nostro piccolo mondo fanese era “occasione” di bisbi-gli, mormorii e confidenze. Voci che si erano sparse a macchia d’olio.

Dopo la guerra, l’unica “compagna” doveva essere la solidarie-tà. Macché! Interessante era “curiosare” la vita degli altri, specie le donne. Se poi erano belle, apriti cielo!

Un poco meno avveniva nei rioni, che di solito conoscono vita, morte, mare e miracoli di ciascuno. E, a dire la verità, venire dal-la ricamatrice, significava confidarsi e raccontare. Mia madre, che era di poche parole, non voleva sapere. Ma era inevitabile, duran-te le prove della lingerie, parlare e così Aurora, dopo il decesso del marito, veniva spesso per piangere il suo sposo. Si era chiusa alla città, si era aperta a mia madre. E non era la sola. Altre spose desi-deravano aprire il loro cuore, anche per recuperare un ménage più o meno felice.

Certe sere mamma era in lacrime per non essere stata d’aiuto o di sollievo per certe situazioni. Quale, quella della “rossa” France-sca che con il suo Teodoro, il bel moro e due bellissimi figli, era in-vidiata dalle donne di Fano del tempo. Ma una terza persona era venuta a compromettere quello splendido matrimonio. Francesca non seppe subito dell’altra, ma una volta appresa la cosa successe un putiferio. Fece volare dalla finestra tutto ciò che apparteneva a Teodoro e gli proibì di vedere i figli. L’infelicità, il dolore, la malin-conia le tolsero ogni spinta a vivere. Si ammalò gravemente di leu-cemia. Il dolore fisico si aggiunse a quello morale, allora covò in sé l’odio come una serpe. A nulla valsero i pianti di Teodoro, fuori del-la porta d’ospedale. Eldel-la, in punto di morte, non volle perdonarlo, ma permise ai figli di amare, di perdonare, di accudire quel padre.

– È vostro padre, ricordatelo. Non imitatelo, ma compatitelo.

Io l’ho molto amato e pregherò per lui, ma voglio che paghi e non permetterò che varchi quella porta. –

Il perdono era uno dei comandi che avevo imparato a catechi-smo. E davvero mi sgomentava udire dalle labbra delle signore che non se la sentivano di perdonare.

Solo ora, a distanza di decenni, con tutto quello che la società ci pone e propone, ho compreso. Forse che oggi, le cose vanno peg-gio? Uomini e donne presi da una vita spensierata e agiata, si tradi-scono, non si rispettano, c’è grande fermento di malcelata violenza.

La colpa? Mancanza di valori, di rispetto, di sopportazione, di pa-zienza. Oggi basta un nulla per lasciarsi. Forse è venuto a mancare

un certo amor proprio, una certa stima di se stessi, che inevitabil-mente porta ad amarci e ad amare. Si dà troppa importanza al cor-po, così osannato e così messo in mostra. E in questo mondo di cat-tive passioni inevitabile è il caos, la violenza, l’odio. Le guerre sono sempre nate per la conquista.

Le guerre iniziano nei cuori. Quando nessuno, proprio nessuno, vuole cedere, va avanti l’egoismo: io conto più dell’altro.

Una volta avevo sentito di un proverbio giapponese dire, a pro-posito dell’amore della donna per l’uomo che ama: “nessuno conta più di te, marito mio, neanche io”.

Valeria giunse quel pomeriggio d’estate, per una sottoveste di raso bianca. Ma era una scusa per leggere i pensieri di una sua zia, scritti in un vecchio quaderno.

In un primo momento mi sono rifiutata di ascoltare.

– Proprio tu che ami le storie. – Commentò mia madre. Senza tenere conto delle mie proteste, Valeria iniziò a leggere:

So che verrà domani. Lui ha il coraggio dopo anni e anni di sof-ferenze, per sua colpa, ha il coraggio di venirmi a trovare. Sto rendo e la mia memoria fa davvero capriole per ritornare al mo-mento in cui ci siamo incontrati.

Era un bell’uomo e io una ragazza piena di sogni. Lo dicevano tutti che ero bella come un’attrice, ma anche seria e saggia. Lui ave-va bisogno di una come me. Ero io che non volevo uno come lui.

Uomo facoltoso, mi fu presentato come un futuro marito, come si usava una volta: “un matrimonio combinato”. Non preoccuparti:

l’amore verrà. E invece no, non è mai arrivato. Persino Valeria si è accorta della mia tristezza sin dal ritorno dal nostro viaggio di noz-ze. Qual è quella donna che non ritorna entusiasta e felice? Io no, sono tornata come travolta da un ciclone. Mi sono chiusa, nessuno sappia della mia triste situazione. A tutti posso mentire, meno che a Valeria. Più sorella che amica. Nulla, infatti, potevo raccontare al-la mia cara sorelal-la Matilde, che non si accorgeva di nulal-la, grazie alal-la sua anima ingenua e candida.

È nato Vittorio.

È nato Domenico È nata Nicoletta.

– Basta, sua moglie non può più avere figli – aveva sentenziato il mio medico.

Un terremoto, non per me, ma per lui, mio marito.

Ne troverà di donne! Basta che mi lasci in pace. E invece no. So-no sua, soltanto sua e il medico continua a sentenziare che per me tutto questo è deleterio.

Dieci anni di questa vita ora finalmente è arrivata la malattia questa mi porterà in cielo e davvero lo bramo, come un premio al-le mie sofferenze.

Da tre giorni bussa alla porta della mia camera d’ospedale. No, non lo voglio vedere. Mi aggrappo alle mani di Valeria.

– Giurami che non gli permetterai di entrare. – Valeria piange.

– Non piangere mia cara. Tu rispetta la mia volontà. –

Valeria è con me da diversi giorni e non ha permesso a lui di en-trare. Lo so, la sua coscienza non è libera, ma ha promesso.

“Non riesco più a scrivere. Non vedo più bene, che Dio abbia misericordia di quello che il mio cuore sente.” Una grafia diversa chiude i pensieri. Marcella è deceduta da due mesi. Lui si è conso-lato con un’altra donna che gli sta donando un figlio di qui a due mesi. Da quanto frequenta l’altra? Ti ho fatto una promessa e la manterrò.

– Valeria.–

Le confidenze di quel cuore afflitto e rassegnato ancora una vol-ta, consideravo che quelle miserie umane non sono poi così lonta-ne dalla nostra realtà.