Capitolo 4. L’internazionalizzazione delle aziende vinicole
4.2 Teorie dell’internazionalizzazione
Il primo contributo per la creazione di una teoria del commercio internazionale lo dobbiamo a David Ricardo (1817) con la teoria dei vantaggi comparati. Considerando il lavoro come unico fattore produttivo e ipotizzando sia una perfetta mobilità interna che l’immobilità del lavoro tra paesi, tale teoria sostiene che i paesi commerciano tra di loro poiché si ha una diversa produttività tra paesi. In altre parole, il modello Ricardiano sostiene che l’esistenza del commercio internazionale sia dovuta a un vantaggio comparato, per cui un paese troverebbe più conveniente specializzarsi nella produzione di un solo bene, ovvero quello in cui il suo vantaggio è proporzionalmente maggiore. Questo modello, però, non è sufficientemente esauriente poiché non tiene in considerazione altri fattori, per cui è stato messo in discussione negli anni ’30 da Heckscher (1919) e Olhin (1933) che hanno ideato la teoria neoclassica.
In questo modello si assume come fattore produttivo oltre il lavoro anche il capitale e i paesi dispongono di risorse come le tecnologie di produzione, che influenzano l’intensità dei fattori produttivi in diversi settori. Considerando due beni, ciascun paese tende ad esportare il bene la cui produzione richiede un impiego relativamente più intenso del fattore di cui il paese possiede una dotazione relativamente più abbondante, mentre tende ad importare l’altro.
Tuttavia, Leontieff (1954) criticò questa teoria con la sua ricerca sul commercio internazionale degli Stati Uniti, conosciuto anche come paradosso di Leontieff, con il risultato che i beni esportati contenevano più lavoro che capitale.
I limiti delle teorie tradizionali sono soprattutto dovuti alle ipotesi semplificatrici dei modelli, come (Valdani, 2006):
• i fattori di produzione sono immobili fra i paesi; • i mercati sono trasparenti e l’informazione è perfetta;
• le preferenze dei consumatori sono omogenee anche tra paesi diversi; • le imprese possiedono identiche conoscenze e tecnologie;
• non si considerano barriere all’entrata e gli effetti delle economie di scala; • la concorrenza è unicamente basata sul prezzo;
Per questi motivi le teorie tradizionali non risultano sufficienti per la spiegazione dei fenomeni legati all’internazionalizzazione delle imprese, poiché i modelli non corrispondono alla realtà dei mercati “imperfettamente concorrenziali”.
Sulla scia delle critiche ai modelli neoclassici sono state elaborate diverse teorie a partire dalla constatazione di alcune fondamentali caratteristiche del mondo reale come:
• la presenza di asimmetrie informative; • la continua creazione di prodotti;
• i divari tecnologici e di risorse tra i paesi;
• la presenza di economie di scala e di barriere all’entrata in un mercato;
• la struttura della domanda e dell’offerta che influenza le preferenze di consumo; • lo spostamento internazionale di capitali, conoscenze tecnologiche e competenze
manageriali.
A partire da queste premesse si è sviluppata la teoria di Posner (1961) che spiega il commercio internazionale con il modello del gap tecnologico, in cui il diverso tasso d’innovazione dei paesi spiegherebbe le differenze di costo di produzione nei vari settori. Successivamente Linder (1961) ha asserito che la domanda dei beni prodotti potenzialmente esportabili è determinata internamente e che questa condizione spiega il flusso commerciale di beni a livello internazionale, negando così l’importanza della diversa dotazione fattoriale, cara a Posner. Linder sostiene, quindi, che sia necessario avviare un’attività nel proprio paese per comprendere e analizzare la domanda interna e solo successivamente cogliere le opportunità di profitto nei paesi esteri e che l’innovazione sia il risultato di un processo teso a risolvere un problema all’interno del proprio contesto. Inoltre, l’autore rimarca la difficoltà di reperire le informazioni e che questo costituisce una barriera all’internazionalizzazione in una condizione di concorrenza imperfetta.
Una teoria simile a quella di Posner è stata sviluppata da Vernon (1966) in cui spiega il commercio internazionale focalizzandosi sul ciclo di vita del prodotto piuttosto che sulla tecnologia. Secondo l’autore il processo di internazionalizzazione presenta svariate somiglianze con il ciclo di vita del prodotto per cui esso ha un’introduzione nel mercato, si sviluppa e matura, e infine declina. Tale teoria ha come assunto la libera circolazione di capitali e di tecnologie e ipotizza che la traiettoria geografica dell’investimento riflette l’andamento del ciclo di vita del prodotto. La prima fase del modello di Vernon è caratterizzata dall’incertezza legata all’accesso ai mercati di sbocco, che a sua volta
dipende dall’applicazione delle conoscenze scientifiche nella creazione di nuovi prodotti e alla facilità di comunicazione con i suddetti mercati. Il secondo stadio, invece, si identifica per un forte sviluppo della domanda che permette una produzione di massa legata a economie di scala. Tali conseguenze permettono la standardizzazione e la diminuzione delle barriere all’entrata con la prospettiva di esportare. Infine, con l’ultimo step del ciclo, ovvero il declino, si ha la fase in cui il prodotto viene esportato nei paesi cosiddetti sottosviluppati.
Dopo Vernon, si è sviluppata la teoria economico-industriale sugli investimenti diretti all’estero di Hymer (1974), dove l’autore spiega i driver per la scelta della produzione in loco oppure la fabbricazione nel paese di origine. Secondo l’autore le imprese vanno incontro ad una serie di svantaggi competitivi nel decidere di esportare direttamente all’estero, definiti liabilty of of foreigness, ovvero una serie di costi legati al confrontarsi con le aziende locali, con lingue, culture e istituzioni diverse. Date tali premesse, Hymer sostiene che le imprese posseggono vantaggi di tipo oligopolistico per cui la scelta di investire direttamente all’estero risulta conveniente e riescono a competere con la realtà locale.
I contributi successivi a questo importantissimo cambiamento nell'elaborazione di teorie sull'internazionalizzazioni sono riconducibili alle teorie della scuola di Reading (UK) con gli studiosi Buckley, Casson e Dunning.
Buckley e Casson (1976) hanno elaborato una teoria secondo la quale l’onerosità dello svolgimento di una transazione varia a seconda che questa avvenga fra due entità economiche indipendenti tra loro oppure organizzate sotto il medesimo controllo gerarchico. I due studiosi considerano due imperfezioni dovute alle market failure, le distorsioni naturali e quelle di tipo strutturale, già affrontate da Hymer. Le imperfezioni naturali sono l’impossibile piena conoscenza a priori delle condizioni della transazione e la difficoltà della stesura delle condizioni e del rispetto delle stesse. Ciò si traduce per le imprese multinazionali in un costo facilmente riducibile ponendo gli scambi sotto il controllo della medesima struttura e la creazione di mercati interni. La riduzione dei costi di transazione è fondamentale nell’:
• attenuare i ritardi delle forniture;
• contenere i rischi legati a comportamenti opportunistici; • ridurre l’incertezza dei processi di acquisto.
Tuttavia, è opportuno considerare in questa valutazione anche i costi dell’internazionalizzazione, ovvero quegli oneri legati alle maggiori spese amministrative, di comunicazione interna, di coordinamento e di controllo (Valdani, 2006).
Infine, un altro contributo che spiega il fenomeno dell’internazionalizzazione lo dobbiamo a Dunning (1983) con il suo paradigma eclettico, in cui si racchiudono le principali linee di pensiero in tema di investimento diretto. Secondo l’autore, un’impresa che vuole affacciarsi al panorama internazionale deve necessariamente soddisfare le seguenti e consequenziali condizioni (Dunning 1983):
• deve poter disporre di vantaggi competitivi di proprietà, detti wonership advantages, nei confronti delle imprese concorrenti;
• deve impiegare al meglio i vantaggi esclusivi posseduti dall’azienda;
• deve combinare tali vantaggi con i fattori di produzione del paese destinatario.