• Non ci sono risultati.

TQ: una non avanguardia non novecentesca (in forma di manifesto)

2. Piano dell’opera

2.4 Postmodern impegno tra profondità e superficie

2.4.2 TQ: una non avanguardia non novecentesca (in forma di manifesto)

Tra l’antologia La qualità dell’aria e il Manifesto degli scrittori TQ sono trascorsi sette anni, sette anni in cui sono stati pubblicati Gomorra e il memorandum sul

New Italian Epic, testi che hanno contribuito a portare il dibattito sull’impegno, sul

rapporto su scrittura e reportage, sul ruolo dello scrittore nella società mediale di inizio millennio al vertice dell’agenda del dibattito culturale, per cui il Manifesto degli

scrittori TQ non arriva in un ambiente impreparato a questo tipo di elaborazione, ma al

contrario è uno dei possibili prodotti di questa sensibilità diffusa. Elaborato in seguito ad un’assemblea tenutasi nell’aprile 2011 presso la sede della casa editrice Laterza (convocata attraverso un appello su Il Sole 24 Ore, una testata non certo controculturale) il manifesto dei TQ raccoglie le istanze di una serie di scrittori, lavoratori della cultura e intellettuali accomunati dall’appartenenza generazionale (TQ sta, appunto, per Trenta Quarantenni) 91 e da un certo sguardo sul mondo. Un manifesto

che, specificano fin dalle prime righe i firmatari, non va inteso in senso novecentesco perché TQ si raccoglie intorno ad istanze politico sociali, non estetiche. L’aspirazione è

intervenire nel cuore della società italiana e nel tessuto ormai consunto delle sue relazioni materiali, di indicarne con maggior forza le lacerazioni - partendo dalla sistematizzazione della provvisorietà lavorativa, la vera ferita generazionale su cui si sono incistati molti dei mali contemporanei - e di avanzare una nuova visione operativa della cultura, in grado di contrastare finalmente l’incessante

svalutazione che ha subito il concetto stesso di cultura e il ruolo di chi la produce e la diffonde.92

Gli ambiziosi obiettivi programmatici raccolgono una serie di desiderata che vanno dalla richiesta di politiche di qualità in opposizione alle concentrazioni editoriali, alla salvaguardia della bibliodiversità, attraverso una riduzione del numero dei volumi pubblicati e l’allungamento del periodo di permanenza in libreria delle nuove uscite, al rispetto dei diritti dei lavoratori, al citare il nome dei traduttori e garantire per loro un compenso equo: insomma una serie di proposte che rivendicano per autori ed editori un

91 TQ sta anche per “tale quale”, “tanto quanto”, “tarantino quentin”, “tutto questo” come precisa

l’appello pubblicato sul Sole 24 ore e firmato da Alessandro Grazioli, Nicola Lagioia, Giorgio Vasta, Giuseppe Antonelli e Mario Desiati. Il rimando a Tarantino ribadisce, ancora una volta, la necessità di allontanarsi dall’universo “cannibale” considerato il più recente movimento letterario codificato ma da cui distaccarsi perché inautentico perché creato a tavolino, mentre la chiamata dei TQ è autentica.

92 AA. VV. Manifesto TQ, http://www.nazioneindiana.com/2011/07/27/documenti-tq/ p. 2 [consultato il

ruolo culturale forte, opposto alle logiche del mercato o quantomeno intese a scongiurare una resa totale. I TQ aspirano inoltre a ricoprire un ruolo educativo nei confronti dei lettori, a «formare un nuovo pubblico, educare nel tempo una comunità di lettori forti, facendo riassaporare il piacere estetico della lettura attraverso interventi pubblici e seminari»93 rivendicando per l’intellettuale una centralità che si potrebbe

definire novecentesca e che sembra ormai irrimediabilmente superata. L’appello iniziale viene stilato da cinque tra scrittori e operatori editoriali, (Alessandro Grazioli, Nicola Lagioia, Giorgio Vasta, Giuseppe Antonelli e Mario Desiati) e gli aderenti sono, almeno nella prima fase, almeno un centinaio.94 Nella gamma reazioni che fanno seguito alla

diffusione del manifesto, cui viene dato ampio spazio dalla stampa quotidiana e dai blog letterari (numerose e prevedibili le stroncature tra cui resta memorabile quella di Massimiliano Parente, in forza a Il Giornale, che ha gioco facilissimo nel comporre un livoroso ritratto dei tic e delle debolezze degli autoconvocatisi intellettuali e nel mettere in risalto tutte le contraddizioni e i limiti dell’iniziativa),95 il commento di Giulio Mozzi

appare il più condivisibile e lungimirante, anche alla luce del percorso che imboccherà il progetto TQ negli anni successivi. Mozzi legge il manifesto come la testimonianza dell’uscita da un regime di “ambiguità” e di entrata nel regime della “doppiezza”. I lavoratori culturali che lo firmano sono parte di quel sistema che intendono modificare - stilando una lista di «desideri che a leggerli sembrano elementari, quasi infantili nella loro elementarità, addirittura ovvii»96 - e innumerevoli saranno state le occasioni in cui

si sono prestati quegli stessi comportamenti che ora denunciano pubblicamente. Tuttavia proprio l’aver ricoperto quei ruoli apre alla possibilità di operare dei cambiamenti in senso positivo. Secondo Mozzi manifesti come questo rivestono infatti la funzione di una presa di coscienza pubblica e collettiva:

Rendere manifesto, scrivere manifesti, serve appunto (tra le altre cose) a snidare e svelare queste situazioni; a mostrare l’esistenza di una (…) questione comune tra i lavoratori dell’editoria (…). Serve spiegare che se lavori un sacco di ore non pagate per consegnare un lavoro fatto come si deve, che il lettore apprezzerà, non avrai per nulla combattuto il complesso editoriale-industriale: lo avrai sostenuto.

93 Ibidem

94 Non è possibile tenere conto delle adesioni, tuttavia è da segnalare che Mario Desiati, direttore

editoriale di Fandango, autore per Mondadori e candidato al Premio Strega con Ternitti nel 2011 lascia quasi subito il gruppo.

95 Parente M., Com’è lo scrittore TQ? Tale e quale gli altri, 1 maggio 2011,

http://www.ilgiornale.it/news/com-scrittore-tq-tale-e-quale-altri.html, [consultato il 25 febbraio 2015]

96 Mozzi G., La congiura dei professionali, 28 luglio 2011, http://vibrisse.wordpress.com/2011/07/28/tq-

Rendere manifesto, scrivere manifesti, serve dunque a uscire dal regno dell’ambiguità (poiché è ambiguo chi non si manifesta pienamente) per entrare nel molto più interessante (…) regno della doppiezza. Rendere manifesto, scrivere manifesti, serve a notificare che c’è un legame tra tutte le cose: la bellezza dei libri, la qualità della loro fattura, la remunerazione dei traduttori e dei correttori di bozze, le concentrazioni editoriali e distributive e del dettaglio (o di tutto insieme), l’escalation dei servizi di

autopubblicazione, eccetera.97

Secondo Mozzi la funzione del manifesto è già nella presa di coscienza, nella consapevolezza di operare in un regime di contraddizione produttiva (lui la chiama congiura) che indica la via possibile per sopravvivere all’interno dell’editoria dei primi anni del nuovo millennio e, auspicabilmente, migliorarla. La maggior parte dei detrattori98 ritiene invece insuperabile la contraddizione tra le posizioni lavorative

ricoperte dai TQ e i contenuti del manifesto equiparando, in questo rifiuto, il lavoro all’interno di una casa editrice al determinarne le politiche editoriali. Molti dei firmatari sono infatti ben integrati nel sistema editoriale che criticano: Raimo e Vasta sono all’epoca autori per Minimum Fax, Lagioia è direttore editoriale della stessa casa editrice oltre che redattore di Radio Tre, mentre Desiati è, nel 2011, nella rosa dei finalisti del Premio Strega con Ternitti. In definitiva nessuno di loro sembrerebbe necessitare di ulteriore spazio rispetto a quello che già occupano, tenendo conto anche della massiccia attenzione riservata all’iniziativa dai media culturali. Il manifesto sarebbe quindi uno strumento di autopromozione, volto a riaffermare la centralità di un gruppo di autori, perlopiù romani, che sfruttano la portata dello stesso per solidificare la propria posizione ed accreditarsi come autori “impegnati”. A quattro anni di distanza dei TQ come movimento si sono perse le tracce, il sito non è più attivo e la piattaforma di interscambio non è mai decollata. Ad un certo punto, non è chiaro quando, il gruppo sembra essersi informalmente sciolto, tanto che quando, nel 2013, uno degli autori del primo appello, Vincenzo Ostuni, denuncia il fallimento dell’iniziativa sono in molti a fargli notare che il gruppo non esiste più da tempo.99 A livello singolo molti dei

firmatari sono rimasti - com’era prevedibile - attivi e presenti in campo editoriale, che abbiano agito per migliorarne le condizioni è cosa difficile da determinare

97 Ibidem

98 Sia su Vibrisse che su Nazione Indiana sono ancora consultabili i commenti a proposito del manifesto

che costituiscono un buon campione di reazioni critiche. Nazione Indiana http://www.nazioneindiana.com/2011/07/27/documenti-tq/ e Vibrisse

http://vibrisse.wordpress.com/2011/07/28/tq-la-congiura-dei-professionali/ [consultato il 25 febbraio 2015]

99 Ostuni V., Che fine ha fatto TQ, Nazione Indiana, 4 giugno 2013,

univocamente, sicuramente non hanno agito in maniera pubblica e collettiva come si erano proposti. Certo ci sono state esperienze come quelle di Orwell, il supplemento culturale del giornale Pubblico, ispirato a principi coerenti con il manifesto e in cui erano confluiti molti dei firmatari, ma la breve durata dell’esperimento e il fallimento della testata nel giro di pochi mesi non hanno permesso alcuna verifica della tenuta del progetto. In parte anche l’esperienza di gestione del Teatro Valle si è intersecata, nelle persone e nell’ispirazione a principi del manifesto (il manifesto dedicato agli spazi pubblici parlava esplicitamente di occupazioni e gestione degli spazi pubblici), tuttavia i TQ non si sono presentati come soggetto riconoscibile collettivamente e politicamente. Verrebbe quindi, nel tracciare un bilancio della validità della proposta, da dare ragione a quanti ne lamentano l’inconsistenza e la labilità, d’altro canto tutta l’operazione dei TQ potrebbe essere anche considerata come un calzante esempio di impegno postmoderno: frammentario, non ideologico, temporaneo, che si attiva solo in determinate circostanze. «…an ethical or political position chanelled through specific cultural and artistic activities, against any restrictive ideological brace»100 scrivono Antonello e Mussgnung

per definire la maniera in cui intendono il termine impegno nella raccolta Postmodern

impegno, che approfondisce l’idea dei Fragments of impegno e lo mette alla prova con

una serie di oggetti culturali. Il manifesto dei TQ rientra perfettamente in questa definizione di impegno, il che non esclude una lettura alla luce la lente dell’ambiguità/doppiezza: un’ambiguità connaturata all’impossibilità di chiamarsi fuori dal mercato da parte degli scrittori contemporanei, ma anche alla consapevolezza del funzionamento dello stesso, cosa che permette loro di impegnarsi in operazioni di contestazione, ben sapendo che in questo modo guadagneranno credibilità e un buon numero di lettori. Alle spalle di questo sta la «diffusa inclinazione al racconto che il postmodernismo ha introdotto in letteratura» e il «tentativo (…) di recuperare il racconto a una nuova fiducia nella parola e nella scrittura quali forme comunicative che possano tornare a tessere un discorso civile e che riconducano il lettore a praticare la letteratura in quanto forma di conoscenza e di presa critica nei confronti della società»101

di cui parla Benvenuti e le cui forme saranno indagate nel prosieguo di questo lavoro.

100 Antonello P., Mussgnung F. (a cura di), Postmodern Impegno: ethics and commitment in

contemporary Italian culture, Oxford, Peter Lang, 2009, p.11

CAPITOLO TERZO: TRA EVASIONE E CONTROSTORIA. FORME DEL ROMANZO STORICO DALLE ORIGINI AGLI ANNI ZERO

Finora abbiamo affrontato questioni relative alla legittimità di una proposta che costruisca percorsi di studio relativi alla letteratura degli anni zero a partire da un’ipotesi di periodizzazione che vede nel 2008 l’anno in cui alcune tendenze iniziano a venire formalizzate in proposte interpretative. Inoltre è stato approfondito il ruolo della critica italiana nella costruzione di un discorso su tali oggetti e l’agire degli scrittori che, in questo contesto complesso, si muovono tra esposizione di sé e forme rinnovate dell’impegno. È stata inoltre discussa la proposta che vede negli anni ottanta un periodo di mutamento degli assetti editoriali e approfondita la funzione di Tondelli nello sviluppo e nella promozione della letteratura giovanile, sia per quanto riguarda il repertorio tematico che per quanto riguarda l’ingresso nel campo letterario di un gran numero di autori giovani, alcuni dei quali continueranno la loro attività nel corso degli anni zero, come Silvia Ballestra e Giuseppe Culicchia, i cui romanzi saranno approfonditi nel corso del quarto capitolo.

Se si guarda alle tendenze in atto all’interno del vasto ambito della letteratura italiana degli anni zero, non tanto con l’ambizione di ricondurre degli equilibri mobili ad una ragione tassonomica, quanto per tentare di orientarsi in un panorama in continuo mutamento, è possibile forse affidarsi alla già citata proposta di Daniele Giglioli che suggerisce di riconoscere in essa due grandi aree, quella “del genere” e quella “dell’autofinzione”. Queste due aree fanno riferimento, in realtà, a due strategie che gli scrittori italiani dispiegano per reagire a un problema comune: come offrire un racconto di una realtà che ormai è inservibile, a partire da una linea interpretativa che considera la contemporaneità «un’epoca che ha messo tutta la sua anima al servizio di una sistematica socializzazione dell’immaginario»,1 e di un Reale, lacanianianamente inteso,

come evento indicibile. La risposta, secondo il critico, è da individuare nel ricorso, da parte degli autori, a ciò cui il critico dà nome di “scrittura dell’estremo”, che chiama continuamente in causa, in forma di trauma fittizio e fantasmatico, un Reale indicibile, perché espulso dall’esperienza del mondo contemporaneo. Giglioli infatti sostiene che «il tempo in cui stiamo vivendo possa essere definito come l’epoca del trauma senza trauma: meglio ancora, del trauma dell’assenza di trauma. E che la sua letteratura rechi

1 Giglioli D., Senza trauma. Scrittura dell’estremo e narrativa del nuovo millennio, Macerata, Quodlibet,

testimonianza di ciò attraverso il ricorso ad una postura condivisa la (…) scrittura

dell’estremo».2 La scrittura dell’estremo «non è un repertorio tematico (…) né

un’opzione di oltranza espressiva (…) è piuttosto un movimento, una tensione verso qualcosa che eccede i limiti della rappresentazione»3 e si spiega come «il tentativo di

rimotivare a posteriori i segni vuoti in cui ci rispecchiamo».4 Il ricorso al genere e

all’autofinzione nasce così dal tentativo di superare un’impasse:

né la realtà inservibile né il Reale indicibile possono essere guardati in faccia (…). È necessaria una tecnica di aggiramento (…). Da una parte il recupero della letteratura cosiddetta “di genere”: giallo, noir, fantascienza, romanzo storico, e le loro mescolanze. Dall’altra la nebulosa dai contorni incerti che viene ormai comunemente denominata autofinzione (e le forme miste, ibride a essa affini come il memoir, il

reportage d’autore, il saggio a dominante narrativa).5

Giglioli quindi legge la fortuna dell’autofinzione e del genere, all’interno del quale comprende il romanzo storico, come una risposta alla condizione contemporanea caratterizzata dall’impossibilità dell’esperienza (che si rifà alla diagnosi benjaminiana aggiornata al mediascape contemporaneo). Quali che siano le ragioni numerose e differenti ragioni che possono aver prodotto questo esito6 è possibile sostenere che il

romanzo storico italiano viva una lunga stagione di fioritura, almeno dagli anni ottanta de Il Nome della rosa, sempre a patto di individuare in esso una periodizzazione convenzionale e senza dedurre necessariamente che un romanzo possa segnare, da solo, una stagione. Tuttavia, chi si è occupato di studiare le tendenze in atto nel corso degli anni ottanta e novanta, ha notato che la presenza del passato nella narrativa si intensifica

2 Ivi, p.7 3 Ivi, p.14 4 Ivi, p.18 5 Ivi, p.23

6 Tra le numerose obiezioni all’idea dell’assenza di trauma si può citare l’intervento di Paolo Nori che si

incarica di ricordare che per quanto l’epoca sia quella dell’assenza di trauma, la morte e la malattia sono

tutt’altro che assenti: «“Non è da tutti farsi succedere qualcosa”, scrive Giglioli, e lo scrive come se

“farsi succedere qualcosa”, subire un trama, in questo mondo senza traumi, fosse una specie di fortuna. Dodici anni fa, nel 1999, mi sono ustionato il 30 per cento del corpo, per un incidente automobilistico. Ho passato 77 giorni in ospedale, mi hanno fatto nove operazioni, i primi trenta giorni non riuscivo a camminare, il mio desiderio più grosso era mettermi una giacca marrone, che avevo allora e che mi sembrava molto elegante, e fumare una sigaretta a una fermata dell’autobus. Poi l’autobus arrivava, io buttavo via la sigaretta e salivo sull’autobus. Una volta, parlando con la fisioterapista, nel cortile dell’ospedale, avevo già ricominciato a camminare, le ho detto: “Quando mi passerà la mia malattia…”. “Non è una malattia, – mi ha detto lei, – è un trauma”», Paolo Nori, Qualcosa, 7 luglio 2011, libero, http://www.paolonori.it/qualcosa-3/ [consultato il 15 febbraio 2015]. La medesima argomentazione è stata ripresa da Gilda Policastro nel capitolo Le polemiche stanno a zero: libri e temi in questione nel

primo passaggio di decade del nuovo millennio (2010- 2011) in Polemiche letterarie. Dai novissimi ai lit-blog, Roma, Carocci, 2012.

in seguito al successo di Eco, mentre solo pochi anni prima La Storia di Elsa Morante non era stata salutato dallo stesso unanime consenso né aveva raggiunto un così ampio numero di lettori, per quanto, secondo altre proposte interpretative, è proprio la storia

La Storia «a sancire l’esaurimento dei progetti neoavanguardistici e a inaugurare la

lunga e fortunata serie dei romanzi neostorici di fine millennio».7

L’edizione del 1991 di Tirature, rapporto a cura di Vittorio Spinazzola, che si incarica di tracciare un bilancio in tempo reale della produzione dell’anno trascorso (e scorrendo i cui indici, annata per annata, si può ricostruire sinteticamente una storia delle parole che hanno fatto la letteratura italiana degli ultimi vent’anni almeno) ospita un’ampia indagine sul romanzo storico degli anni ottanta e dell’inizio dei novanta, considerato come un fenomeno decennale, a proposito del quale è ormai possibile trarre un bilancio. Il genere viene indagato non solo dal punto di vista delle produzioni letterarie, ma anche da quello degli assetti editoriali e distribuitivi e dei gusti dei lettori. Scrive Giovanna Rosa nel saggio che apre il volume:

Nel decennio appena trascorso, il mercato letterario è stato caratterizzato dal successo diffuso di opere costruite secondo la formula tradizionale del romanzo storico. Apertosi con l’exploit clamoroso del Nome

della rosa (Bompiani, 1980), cui fanno seguito, da subito una serie di altre opere «miste di storia e di

invenzione» (da Siciliano alla Mancinelli, da Cassola a Pederiali), l’arco temporale degli anni Ottanta si chiude con il successo di una terna di libri che, consegnata alla fama dai premi letterari, ottengono il favore del pubblico più ampio: Il fuoco greco di Malerba (Mondadori, 1990), La chimera di Vassalli

(Einaudi, 1990), La lunga vita di Marianna Ucria della Maraini (Rizzoli, 1990).8

Pertanto, che il passato sia una componente centrale delle scritture degli anni zero, non rappresenta una novità o un dato di particolare discontinuità rispetto al periodo precedente, per quanto lo sguardo rivolto all’indietro degli scrittori italiani fosse, negli anni ottanta e novanta, considerato un sintomo di una scrittura d’evasione. Il nome della

rosa veniva considerato, ad esempio, un romanzo pienamente postmoderno e

disimpegnato «Sotto il profilo del postmodernismo, il romanzo rispecchia la piena caduta dell’engagement. Ed è identificabile, ancora una volta fino a diventarne l’emblema, con quel fenomeno del “ritorno al piacere della letteratura” recitato dagli

7 Rosa G., Dal romanzo storico alla “storia romanzo”. Romanzo storico, antistorico, neostorico in Costa

S., Venturini M., (a cura di), Le forme del romanzo italiano e le letterature italiane dal Sette al

Novecento, Pisa, ETS, 2010, p.64

slogan ricorrenti degli anni ottanta».9 Al contrario, i romanzi storici degli anni zero

vengono più frequentemente letti in termini di volontà di riscrittura polemica o controstorica. Benvenuti sostiene che «nella contemporaneità l’idea del tempo si converte in quella pratica politica che è la scrittura della storia»,10 mentre i Wu Ming

riconoscono un portato oppositivo e conflittuale nelle scritture storiche degli anni zero comprese nella nebulosa del New Italian Epic: «libri che fanno i conti con la turbolenta storia d’Italia, o con l’ambivalente rapporto tra Europa e America, e a volte si spingono un po’ più in là».11 Un recente approfondimento critico dedicato agli sguardi politici

nella letteratura contemporanea precisa ulteriormente che la sfida politica della scrittura contemporanea - e, visto i temi affrontati dai dei tre saggi raccolti nel volume, si può aggiungere senza timore di modificarne il senso, sfida politica della scrittura storica contemporanea - «non sta nella restituzione testimoniale di ciò che è evidente o almeno narrabile, ma nell’apertura di uno spazio altro, che sposta lo sguardo e complica le cose».12 Tale affermazione rimanda al complesso intreccio dei rapporti tra storia,

testimonianza, racconto della realtà e verità che il romanzo storico stimola fin dalle sue prime manifestazioni e che viene nuovamente discussa dagli anni settanta in avanti, in