Indice generale
Introduzione... 2
Capitolo 1 Dante e l'invidia... 10
1.1 Il girone degli invidiosi... 10
1.2 La presentazione degli invidiosi...20
1.3 Origine e definizione dell'invidia... 25
Capitolo 2 Semantica dell'invidia latina... 36
2.1 Origini etimologiche di φθόνος ed invidia...36
2.2 φθόνος, ζῆλος e νέμεσις... 38
2.3 Proposte etimologiche di invideo... 51
2.4 Invidia e malocchio... 56
2.5 L'azione dell'occhio che affascina... 66
2.6 Le costruzioni di invideo... 71
2.7 La semantica di invidia... 76
2.8 Invidia attiva, passiva, “dinamica”...85
2.9 Polisemie di invidia in uno stesso contesto...102
Capitolo 3 Aglauro e l'Invidia nel secondo libro delle Metamorfosi...107
3.1 La presentazione dell'episodio...107
3.2 Met. 2. 534-539: peculiarità formali...116
3.3 Il corvo e la cornacchia... 120
3.4 L'exemplum della cornacchia...123
3.5 La loquacità dei due volatili... 126
3.6 Curiositas ed invidia... 131
3.7 Gelosia ed invidia... 136
3.8 La narrazione della cornacchia: la vicenda delle Cecropidi...145
3.9 L'invidia, Minerva, Aglauro...156
3.9.1 La dimora dell'Invidia... 159
3.9.2 La presentazione dell'Invidia...168
3.9.3 L'azione dell'Invidia... 173
3.9.4 Le sofferenze di Aglauro... 178
Introduzione
In uno dei passi più interessanti e studiati delle sue Storie1, Erodoto descrive un dialogo tra Otane, Megabizo e Dario, tre dei sette nobili persiani che, sventato l’attacco dei Magi, tennero un consiglio su tutto il complesso delle faccende dello stato. Il passo è particolarmente celebre perché in esso viene presentato un vero e proprio dibattito sulla migliore forma di ordinamento costituzionale tra democrazia, oligarchia e monarchia.
Ai fini della nostra indagine, tuttavia, sarà sufficiente estrapolare alcune brevi considerazioni di Otane, fautore della democrazia. Per quest’ultimo, il potere monarchico sarebbe in grado di corrompere anche il migliore degli uomini: nel momento stesso in cui, infatti, l’ἄριστος ἀνδρῶν giungesse ad usufruire della disponibilità di beni, questi arrecherebbero in lui arroganza (ἐγγίνεται μὲν γάρ οἱ
ὕβρις ὑπὸ τῶν παρεόντων ἀγαθῶν), mentre, prosegue il persiano, sin dall’origini è
innata nell’uomo l’invidia (φθόνος δέ ἀρχῆθεν ἐμφύεται ἀνθρώπῳ).
Sia l’arroganza che l’invidia, ovviamente, vengono presentate, nel passo in oggetto, come passioni negative. Otane afferma, infatti, che il possesso di questi due vizi comporta, di per se stesso, πᾶσαν κακότητα, ogni malvagità.
Molte scelleratezze, infatti, vengono compiute dal tiranno per arroganza, altre per invidia (τὰ μὲν γὰρ ὕβρι κεκορημένος ἔρδει πολλὰ καὶ ἀτάσθαλα, τὰ δὲ φθόνῳ). Ora, nel passo in cui il nobile persiano descrive le conseguenze d’invidia e superbia, troviamo, nel testo greco, le particelle correlative μέν e δέ utilizzate per marcare una semplice distinzione tra due termini della stessa proposizione (indicati, in questo caso, dai neutri sostantivati τὰ).
Le azioni criminose del monarca sono ricondotte a due diversi principi, arroganza e invidia; sia l’una che l’altra, tuttavia, finiscono con il produrre il medesimo effetto, cioè azioni delittuose. Al contrario, quando Otane analizza non le conseguenze di arroganza e invidia, ma il loro rapporto con l’ἄριστος, le medesime particelle assolvono, in questo caso, ad una funzione chiaramente oppositiva: gli
elementi che, nel testo, vengono posti in opposizione reciproca sono i due verbi
ἐγγίνεται, utilizzato a proposito della arroganza, ed ἐμφύεται, che riguarda
l’invidia.
Il primo verbo assume, nel passo in oggetto, il valore di insorgere, strettamente connesso con il complemento d’agente; ἐμφύεται, invece, indica con grande precisione l’essere connaturato, l’essere insito dell’invidia, indipendentemente dai fattori esterni che potrebbero scatenarla.
Il concetto espresso, dunque, è che, mentre sarebbe possibile, per l’uomo eccellente, non essere soggetto all’arroganza (laddove non fosse in possesso dei beni, che ne sono causa
),
lo stesso non potrebbe essere esente dall’invidia: essa fa parte, infatti, della φύσις, della natura dell’uomo.Il medesimo concetto viene ripreso subito dopo, quando Otane enfatizza la paradossalità apparente del tiranno: un sovrano, infatti, dovrebbe essere privo di invidia (ἄφθονον), giacché questi si trova nella condizione di possedere ogni bene (ἔχοντά γε πάντα τὰ ἀγαθά); invece, prosegue Otane, anche il tiranno finisce col provare invidia, nel caso di specie verso i cittadini migliori (φθονέει γὰρ τοῖσι
ἀρίστοισι περιεοῦσί τε καὶ ζώουσι). La conclusione, inevitabile, è dunque che,
anche laddove un uomo si trovasse nella piena disponibilità di possedere tutti i beni invidiabili, egli finirebbe comunque col provare invidia nei confronti di altri, nel caso di specie dei migliori.
Da questo passo, nel quale peraltro, come anticipato, l’invidia non viene analizzata in maniera sistematica ma inserita all’interno di un contesto più ampio di natura squisitamente politica, possiamo comunque ricavare quattro importanti aspetti della fenomenologia dell’invidia: il suo essere connaturato alla più intima essenza dell’essere umano, l’essere alla base di una molteplicità di crimini ed azioni delittuose, la difficoltà, se non ad estinguere, quanto meno a mitigare tale sentimento, nonché, in ultima istanza, la sua natura di relazionalità paritaria: chi si trova in posizione di preminenza, come il tiranno, non potrà che invidiare gli ἄριστοι. Lo scopo di questo mio lavoro è cercare di mostrare le principali caratteristiche e peculiarità della passione invidiosa così come concepita e presentata nel mondo latino. In particolare soffermerò la mia attenzione sulla descrizione allegorica dell’Invidia nel secondo libro delle Metamorfosi di Ovidio,
passo, questo, estremamente interessante per tutte le implicazioni che da esso possono essere tratte per cercare di delineare un quadro il più possibile preciso e puntuale della concezione degli antichi su questa particolare passione.
Come si può ben immaginare, le attestazioni letterarie sul fenomeno dell’invidia sono di numero assai elevato anche limitando l'indagine al solo mondo romano; eppure, ben pochi passi della letteratura latina possono presentare un quadro così ricco e completo sulla passione triste come quello offerto da Ovidio nel secondo libro delle sue Metamorfosi.
Personificazioni erappresentazioni metaforiche dell’invidia possono essere rintracciate, per rimanere nell'ambito della letteratura latina, sin dalla commedia
Persae di Plauto2. L'immagine personificata dell'Invidia compare, inoltre, nella
Rhetorica ad Herennium3, nel De natura deorum4 di Cicerone, nel secondo libro
delle Elegie di Properzio5, nel terzo libro delle Georgiche di Virgilio6.
Queste occorrenze sono certamente utili per una delineazione complessiva dell'immagine dell'invidia, ma non presentano la medesima ricchezza di dettagli, aspetti, caratteristiche che connotano la presentazione dell'Invidia personificata n e l II libro delle Metamorfosi ovidiane. In esso, infatti, il processo di personificazione, estremamente raffinato, si inserisce all’interno di un contesto generale di storie e vicende mitiche che introduce, prepara e poi sviluppa compiutamente alcuni tra i tratti più significativi e rappresentativi della concezione dell'invidia nell'antichità. Le storie della sequenza narrativa che occupa i versi 531-835 del secondo libro del poema epico Ovidiano sono, infatti, collegate tra loro da continui echi e rimandi che permettono al lettore di scorgere in un vero e proprio processo di degradazione e corruzione verbale e visiva il file rouge di collegamento tra le varie vicende. Processo, questo, che si adatta perfettamente alle caratteristiche e peculiarità principali del sentimento invidioso, il quale, come ampiamente e concordemente testimoniato da fonti letterarie diversissime tra loro nello spazio e nel tempo7, viene concepito non solo come una sostanziale
2 Plaut. Pers. 556. 3 Cic. Rhet. Her. 4.26.36. 4 Cic. Nat. Deor. 3.44. 5 Prop. 2.17.11. 6 Verg. Georg. 3.37-39.
degradazione mentale, psicologica e fisica del soggetto che prova e manifesta invidia (configurandosi, in tal caso, come una vero e proprio processo di consunzione), ma anche come una distorsione dell’organo sensoriale della vista (da cui, come vedremo, il nome stesso dato, nel mondo romano, al sentimento) e della parola.
Vista e parola che assumono, negli invidiosi, un processo di snaturamento sostanziale, in virtù del quale la vista assume toni sofferenti e straziati, configurandosi come sguardo obliquo ed occhi torvi, mentre la parola, il discorso, la comunicazione diventano strumenti dell’astio invidioso, assumendo i toni e la natura della calunnia, dell’infamia, della maldicenza, della delazione.
Tutti questi elementi rientrano, con compiutezza di dettagli, nelle vicende delle
Metamorfosi aventi origine dalla vicenda del corvo e della cornacchia e terminanti
con la pietrificazione di Aglauro.
In queste storie, infatti, come avremo modo di vedere, la tematica di un cattivo
usus vocis, nonchè di visioni nascoste, sofferenti, proibite diveranno elementi
fondamentali e continuamente ripresi e sottolineatidal poeta.
Oltre all’enfatizzazione di questi due aspetti, potremo notare le particolarità della struttura formale della nostra sezione, con il poeta che si discosta dal flusso narrativo, assumendo subito una posizione distanziata dalle vicenda che si accinge a narrare ed informando il lettore sugli esiti delle stessa prima ancora di cominciare a raccontarla, fornendo una sorta di morale complessiva dei racconti immediatamenti successivi. Questo distacco, infatti, permette al narratore di mostrare bene le discrasie, le contrapposizioni, le scissioni tra i pensieri, le giustificazioni adotte di volta in volta dai vari personaggi coinvolti nelle storie e le loro motivazioni più intime e profonde che ricadono, appunto, nella loquacità, nella curiosità indiscriminata e, alla base di tutto, nella delazione dettata da invidia e gelosia. Gli aspetti strutturali e formali, tuttavia, non esauriscono l’interesse del passo; accanto ad essi troveremo, infatti, nell'ekphrasis dell’invidia e dei suoi effetti su Aglauro, la presenza di un campo semantico specifico riguardante l’invidia, con l’utilizzo di termini, verbi, sostantivi ed aggettivi impiegati con grande frequenza nel mondo greco e romano per la descrizione degli sconvolgenti effetti del livore invidioso sull’animo di chi ne è afflitto.
Vedremo come il quadro d’insieme fornitoci dalle testimonianze prese in esame, pur nella differenza delle prospettive e dei generi letterari di riferimento, sia sostanzialmente omogeneo e coerente nel delineare l’invidia, presentandola e connotandola con parole e termini che, se da un lato ne mettono in luce i suoi elementi più sordidi, grotteschi, sofferenti e straziati, dall’altro permettono anche distinzioni, a volte sottili ma indicative, con sentimenti simili ed affini, a volte derivati dall’invidia stessa, come l’ira o la gelosia, senza essere, tuttavia, mai completamente sovrapponibili ad essa.
Le differenze tra le manifestazioni di questi sentimenti erano, se non completamente tematizzate nel mondo latino, anche in virtù della natura poliedrica di alcune di esse, tuttavia ben indicate dal punto di vista linguistico, con, ad esempio, l’impiego, dal punto di vista verbale, di determinati suffissi e tempi che marcano una scissione forte, e ben giustificata dal punto di vista psicologico, tra l’aspetto esplosivo-momentaneo dell’ira e delle pulsione ad essa corrispondenti, e quello incoativo-durativo dell’invidia, con utilizzo di verbi specifici per l’astio invidioso che, in Ovidio come in altre fonti, richiamano e rimandano ad immagini di vero e proprio afflato pestilenziale, consunzione, scioglimento interiore, liquefazione.
Il confronto con le fonti utilizzate da Ovidio per la descrizione dell’Invidia, in particolar modo la Fama e l’Aletto virgiliana, metterà in luce alcuni accostamenti significativi da un lato con la fama e la gloria poetica, il cui binomio e contrasto con l’invidia diverrà un topos letterario molto diffuso a Roma soprattutto per influenza del modello callimacheo, dall’altro con la pazzia, la follia, la perdita completa di controllo della realtà di cui la furia Aletto è incarnazione precisa e fedele nell’Eneide. L'analisi di questa specifica sezione delle Metamorfosi richiede, tuttavia, una preliminare osservazione del termine latino invidia e dei suoi connotati semantici; osservazioni che, per poter arrivare quanto meno ad una pretesa di compiutezza, non possono non prendere in considerazione le influenze del corrispettivo termine greco φθόνος. Nel secondo capitolo della mia ricerca ho così deciso di approfondire l'analisi sulle caratteristiche e peculiarità linguistiche e semantiche del termine, partendo dal verbo invidere, da cui invidia è derivante, e
soffermandomi in particolare sulle molteplici sfumature di significato ricoperte dal verbo e dal sostantivo.
Prima di iniziare ad osservare le molteplici sfumature della semantica dell'invidia latina, ho deciso però di iniziare il mio lavoro da una breve ricognizione del pathos in questione all’interno della Divina Commedia.
Anzitutto, infatti, il capolavoro dantesco si configura come una fonte imprescindibile di informazioni per chiunque voglia approcciarsi al tema in oggetto, in quanto essa offre, al proprio interno, una buon insieme di testimonianze relative ad alcuni degli elementi tipici e ricorrenti dell’astio invidioso, delle sue modalità di manifestazione e delle sue conseguenze, vista la presenza di personaggi profondamente segnati, in senso attivo (gli invidiosi) o passivo (gli invidiati), da questo sentimento in tutte e tre le cantiche della
Commedia.
In secondo luogo, il collegamento con il testo ovidiano risulta essere immediato in virtù della presenza, nel XIV canto del Purgatorio, della figura di Aglauro, introdotta come paradigma ed esempio di invidia punita.
L’influsso di Ovidio sul testo di Dante non è tuttavia limitato, nel caso di specie, alla ripresa del personaggio tratto dal secondo libro delle Metamorfosi, bensì, in maniera ancor più indicativa, alla costruzione di uno scenario, un’ambientazione, un contesto paesaggistico, quello del girone purgatoriale degli invidiosi, che molto risente, appunto, dell’episodio della pietrificazione di Aglauro in Ovidio come, ancor prima, della descrizione allegorica della casa dell’Invidia, anch'essa presentata e descritta nel secondo libro delle Metamorfosi.
Indicativa risulta essere, al contempo, la divergenza di rapporti tra presentazione dell’invidia e background testuale di riferimento nei due poemi: mentre, come anticipato, in Ovidio la presentazione diretta dell’invidia, la sua personificazione, non è che l’acme di una sezione comunque già fortemente contraddistinta da atteggiamenti e comportamenti geloso/invidiosi, in Dante l’icasticità della descrizione degli invidiosi nasce e si nutre soprattutto della contrapposizione assoluta con la cornice precedente dei superbi.
In Ovidio, infatti, come avremo modo di osservare, il tema del livore e dell'astio invidioso si collega direttamente a quello della vista; processo visivo che, nel
contesto del secondo libro, si carica di molteplici valenze e funzioni, tutte comunque degradanti: al vedere troppo, nella duplice sfumatura del vedere ciò che è nascosto e ciò che è severamente proibito vedere, si collega il non poter vedere, direttamente provato dall’Invidia stessa, e il vedere folle, eccessivo, malato di Aglauro, una volta infettata dal tarlo invidioso.
In Dante troviamo, invece, direttamente il non vedere assoluto, la negazione di qualsiasi tipo di visione che ottimamente contrasta, come anticipato, con il trionfo di luce e l’esaltazione sensoriale della vista nei canti, immediatamente precedenti, dedicati alla cornice dei superbi. Mentre, dunque, il procedimento ovidiano è sostanzialmente strutturato secondo un rapporto di analogia, vicinanza e parentela tra le storie, per cui l'invidia diviene potenziamento ed espressione ultima ed estrema dei nodi portanti delle stesse, Dante opera principalmente per contrasto e contrapposizione, collocando la cornice degli invidiosi subito dopo quella dei superbi, presentando un accostamento, certamente motivato, in prima istanza, da riflessioni ed analisi dottrinarie e filosofico-teologiche che vedevano una certa affinità tra la figura dei superbi e quella degli invidiosi, ma anche, aspetto questo certamente da non escludere, da considerazioni di ordine squisitamente stilistico-formale.
In ambedue i passi, comunque, l'invidia finirà col configurarsi come un sentimento totalizzante, i cui effetti, deleteri e nocivi, verranno presentati dai due poeti in una molteplicità di ottiche e prospettive: l'invidia inquinerà l'ambiente circostante sia in Dante che in Ovidio, infetterà i colori, avvelenerà i personaggi o li porterà alla rovina per mano altrui. La rete di rapporti intertestuali tra il secondo libro delle Metamorfosi ed il XVII canto del Purgatorio è dunque così fitta ed intricata da non poter, io credo, essere trascurata.
Ma l'invidia, nella Divina Commedia, non viene semplicemente descritta nei suoi caratteri empirici e fenomenici. Essa viene anche connotata in senso morale e dottrinale, con la ripresa di precise distinzioni semantiche che delineano un influenza da San Tommaso, il quale, a sua volta, si richiama, nella Summa
Theologiae, alla testimonianza della Rhetorica aristotelica, testo, quest'ultimo,
stessa di invidia che in essa viene fornita; definizione che, soprattutto in base alla struttura catalogante-classificatoria dell'opera, permette distinzioni sottili, ma certamente efficaci con altre passioni e sentimenti, ad essa in qualche modo affini, in virtù della loro natura comune di sentimenti di antagonismo e di rivalità. Presenteremo dunque i principali protagonisti della nostra ricerca, l'Invidia ed Aglauro, proprio a partire dalla descrizione offerta da Dante nel Purgatorio.
Capitolo 1 Dante e l'invidia
1.1 Il girone degli invidiosi
Nel XIII canto del Purgatorio Dante e Virgilio raggiungono la seconda cornice del monte che li condurrà al paradiso celeste: quella occupata dagli invidiosi.
I primi versi del canto sono interamente dedicati alla descrizione e rappresentazione degli elementi fisici, concreti e materiali del luogo appena raggiunto; questi elementi si caricano di una duplice valenza: una, immediata, di
ekphrasis paesaggistica, l’altra, simbolica, di anticipazione e, al contempo,
proiezione sull’ambiente circostante di alcune delle principali caratteristiche e peculiarità che vedremo contraddistinguere gli invidiosi, così come presentati da Dante nel prosieguo della descrizione.
Vediamo, dunque, quali sono gli aspetti che sembrano delineare maggiormente il nuovo paesaggio dantesco, partendo, come detto, proprio dai primissimi versi del canto. Il passaggio dal primo al secondo girone del Purgatorio avviene come per
incanto8. Gli ultimi versi del canto precedente erano, stati, infatti, incentrati su
pensieri gravi e soavi’9, ed, in particolar modo, sulla constatazione delle diversità delle entrate tra Purgatorio ed Inferno10, nonchè sul turbamento derivante, in Dante, dall’acquisto di una maggiore levità dopo la misteriosa scomparsa della prima P dalla sua fronte11.
8 C. Musumarra, LECTURA DANTIS SCALIGERA: PURGATORIO, Firenze 1967, p.441.
9 C. Musumarra, Ibidem, p. 441
10 Dante, Pg.XII, 112-114: Ahi quanto son diverse quelle foci/ dall’infernali! chè quivi per
canti/s’entra, e la giù per lamenti feroci.
11 Dante, Pg. XII, 118-120: Ond’io: < < Maestro, di’, qual cosa greve/ levata s’è da me, che nulla
Nel XIII canto12, approdato ad una nuova cornice, Dante descrive immediatamente la natura fisica e materiale del nuovo girone:
Noi eravamo al sommo de la scala, dove secondariamente si risega lo monte che salendo altrui dismala.
Ivi così una cornice lega
5 dintorno il poggio, come la primaia;
se non che l’arco suo più tosto piega. Ombra non lì è né segno che si paia:
parsi la ripa e parsi la via schietta col livido color de la petraia13
.
Due sono gli aspetti messi subito in evidenza dal poeta: prima di tutto viene sottolineata la minore ampiezza della nuova cornice rispetto a quella precedente (vv. 4-6); in seguito viene presentato l’elemento tipico e caratteristico del nuovo ambiente: la solitudine determinata dall’assenza di anime (Ombra non lì è), nonchè la mancanza assoluta di segni scultorei (né segno che si paia).
La sensazione immediata, dunque, è quella di un vuoto totale, assoluto, di un’aridità generale: tutto è uniforme nella nuova cornice: nessuno appare a
mostrare loro la via; non vi è traccia di carità nè di bellezza, che suole allietare le altre balze’14.
In un unico verso, il settimo endecasillabo, il poeta marca nettamente la differenza rispetto alla cornice precedente, occupata dai superbi, descritta nei canti X, XI, XII. In quest’ultima, infatti, la parete della roccia, di marmo bianco, era lavorata in bassorilievi che rappresentavano esempi di umiltà esaltata15.
12 Sui canti dell'invidia si vedano, tra i tanti, E. Santini, Il canto XIII del Purgatorio, in G. Getto (a cura di), Letture Dantesche , vol.II Purgatorio, Firenze 1964, pp. 915-933; E. Pistelli, Il canto XIV del
Purgatorio, ivi, pp. 935-949; A.K. Cassel, Il sapore dell'amore: i canti dell'invidia, in G.C. Alessio- R.
Hollander, Studi americani su Dante, Milano 1989, pp. 165-183; D. Della Terza, Il primo canto
dell'invidia (Purgatorio, XIII), <<FeC>>, 7 (1992), pp. 3-21; C. Singleton, La poesia della Divina Commedia, Bologna 1999, pp. 544-550.
13 Dante, Pg XIII, 1-9.
14 E. Santini, op.cit., p. 924.
15 Dante, Pg. X, 28-33 Là sù non eran mossi i piè nostri anco,/ quand’io conobbi quella ripa intorno/
Al contempo, sul suolo della stessa erano effigiati esempi di superbia punita che i penitenti, chini sotto il peso dei macigni, erano di fatto costretti a guardare per poterne trarre pentimento e rimorso.
Da una parte, dunque, troviamo ricchezza di rappresentazioni, immagini, bassorilievi, esempi di arte figurata; dall’altra, invece, un paesaggio che suscita una profonda sensazione di solitudine, un pianoro squallido, privo di anime e rilievi, livido, del colore della pietra.
Questa marcata differenziazione paesaggistica comporta, a livello testuale, una altrettanto evidente distinzione di costrutti stilistici.
In Purgatorio XII il verso incipitario di ciascuna terzina compresa tra il verso 24 e il verso 36 inizia, anaforicamente, con la terza persona singolare del verbo vedere: 25 Vedea colui che fu nobil creato
più ch’altra creatura, giù dal cielo folgoreggiando scender, da l’un lato.
Vedea Briareo fitto dal telo celestial giacer, da l’altra parte,
30 grave a la terra, per lo mortal gelo.
Vedea Timbreo, vedea Pallade e Marte, armati ancora, intorno al padre loro,
mirar le membra d’i Giganti sparte. Vedea Nembròt a piè del gran lavoro
35 quasi smarrito, e riguardar le genti
ch’n Sennaàr con lui superbi fuoro16
.
Come si può notare, ciascuna terzina presenta un esempio di superbia punita, il quale esempio viene al lettore presentato attraverso l’intermediazione dell’osservazione autoptica dell’Alighieri.
In due esempi di superbia punita la vista si carica di una complessità maggiore: nella rappresentazione della tracotanza dei giganti che si avventarono contro
Policleto/ ma la natura lì avrebbe scorno.
Giove per spodestarlo, Dante sottolinea soprattutto il comportamento dei vincitori, Apollo, Atena e Marte, che, ancora in armi a difesa del padre Giove, vengono colti nell’atto di osservare le membra dei giganti sparse per il campo di battaglia. Similmente avviene a riguardo di Nembrot, effigiato intento ad osservare fissamente coloro che, suoi compagni, insuperbirono nella piana di Sennaàr.
Si viene dunque a creare, in questi due casi, una sorta di gioco visivo, per cui il poeta concentra la sua visione su determinate immagini che, a loro volta. osservano altre figure.
A partire dal verso immediamente successivo, il 37, abbiamo al contempo una variazione ed una continuità. Il poeta continua infatti a descrivere gli exempla di superbia punita, ma questa volta ad essere posto in posizione incipitaria ed anaforica in tutte le terzine sino al verso 48 non è più il vedea precedente, bensì l'interiezione esclamativa
O-O Niobè, con che occhi dolenti vedea io te segnata in su la strada, tra sette e sette tuoi figliuoli spenti!
40 O Sa ú l, come in su la propria spada quivi parevi morto in Gelboè, che poi non sentì pioggia né rugiada!
O folle Aragne, sì vedea io te già mezza ragna, trista in su li stracci
45 de l’opera che mal per te si fé.
O Roboàm, già non par che minacci quivi ‘l tuo segno; ma pien di spavento nel porta un carro, sanza ch’altri il cacci17
.
La variazione anaforica permette, a mio modo di vedere, di realizzare una sorta di accrescimento della tensione patetica, giacchè Dante sostituisce, all’inizio di ogni
terzina, l’indicazione immediata dell’atto visivo con la presentazione diretta dell’oggetto della visione stessa (enfaticamente anticipato dall’O).
In ciacuna terzina, però, rimane forte la presenza della sfera tematica del vedere:Vedea al verso 38; parevi al verso 41; ancore vedea al verso 43; par al verso 46.
La prima terzina di questo secondo gruppo di versi, inoltre, riprende il medesimo gioco visivo che si era notato in due delle terzine precedenti; anche in questo caso il campo semantico relativo alla vista riguarda sia il poeta, che osserva l’immagine scolpita in bassorilievo, sia l’oggetto della visione di Dante, Niobe che a sua volta viena colta, nel processo ecfrastico, intenta nell’atto di osservare.
Persino l’immagine dei quattordici figli di Niobe ormai morti richiama, sebbene per contrasto, la sfera visiva. Il participio passato spenti, che è certamente più intensivo e poetico rispetto a quanto non avrebbe potuto essere il ben più semplice
morti, in fondo non fa che presentare la morte nella prospettiva della vista,
enfatizzando e rimarcando, all’interno di un fenomeno olistico che concerne ogni facoltà e percezione umana, l’immagine dello spegnersi della luce della vista nei figli18, oggetti, a loro volta, della visione degli occhi dolenti della madre.
Dal verso 49 ancora quattro terzine con anafora incipitaria nel primo endecasillabo di ciascuna terzina, ed ancora sottolineatura dell’importanza della vista, con il verbo Mostrava in anafora.
Mostrava ancor lo duro pavimento
50 come Almeon a sua madre fé caro
parer lo sventurato addornamento. Mostrava come i figli si gittaro sovra Sennacherib dentro dal tempio,
e come, morto lui, quivi il lasciaro.
55 Mostrava la ruina e ‘l crudo scempio che fé Tamiri, quando disse a Ciro: <<Sangue sitisti, e io di sangue t’empio>>.
Mostrava come in rotta si fuggiro
li Assiri, poi che fu morto Oloferne,
60 e anche le reliquie del martiro.
Questra struttura compositiva è certamente legata, come notato da critici e commentatori19, ad un gioco di tipo acrostico: le quattro terzine comincianti con
vedea, assieme a quelle con o e mostrava danno infatti vita all’acrostico VOM, cioè
uomo, volendo con ciò significare l’acrostico che, tra tutti i vizi, la superbia è quello che più caratterizza negativamente l’essere umano.
Indiscutibile, tuttavia, permane l’importanza del fattore visivo nell’intelaiatura complessiva degli exempla di superbia punita. La variazione anaforica, infatti, permette anche al poeta di presentare gli esempi stessi di superbia punita sub
triplice specie: dapprima attraverso l’intermediazione degli occhi di Dante, poi, per
il tramite dell’invocazione, in presa diretta; infine, con mostrava, abbiamo il riferimento al materiale, il rilievo sul duro pavimento, nel quale sono effigiate le immagini. In questo modo, dunque, la visione delle immagini da parte di Dante viene, di fatto, scomposta nei suoi tre elementi costitutivi: se il poeta (soggetto della visione) osserva su dei rilievi (materiale) delle immagini (oggetto della visione), questi tre elementi, nella realtà, non possono che agire sinergicamente e sincronicamente, mentre, nel testo, vengono presentati uno dopo l’altro, quasi come fossero indipendenti l’uno dall’altro. La sfera sensoriale della vista, insomma, viene, in questo canto, colta, studiata ed analizzata dal poeta in tutte le sue componenti, in tutte le sue sfumature e sfaccettature, sotto tutti, potremmo dire, i possibili punti di vista.
L’indicazione della sfera visiva continua anche nei versi successivi, dove troviamo
Vedeva al verso 6120, Mostrava al verso 6321, due volte il verbo vide in un unico verso, il 6822, per concludere, infine, al verso 72, con l'imperativo veggiate23.
Attenendoci a considerazioni di tipo meramente numerico- statistico, su 72 versi complessivi dedicati alla descrizione della cornice, troviamo 23 termini, tra verbi e sostantivi, attinenti alla sfera tematica della vista, degli occhi, del vedere.
19 Cfr., e.g., T. Di Salvo, Purgatorio, Milano 1993, p. 217.
20 Dante, Pg. XII, 61 Vedeva Troia in cenere e in caverne;
21 Dante, Pg. XII, 63 Mostrava il segno che lì si discerne!
22 Dante, Pg. XII, 68 non vide mei di me chi vide il vero.
Queste analisi, assieme alle riflessioni sopra esposte, permettono, da un lato, di definire il vedere e la vista come le key words dell’intero canto mentre, dall’altro, non fanno che sottolineare con maggiore forza il contrasto rispetto a quello che avverrà nella cerchia degli invidiosi.
Il lettore, infatti, appena uscito, assieme a Dante, da una cornice straordinariamente ricca di immagini ed effigi, ambedue ancora assorti (si può immaginare) nella contemplazione estatica delle stesse, non può che avvertire con forza il brusco scarto nella descrizione paesaggistica ed ambientale della seconda cornice, introdotta nel tredicesimo canto sin dai primissimi versi: Ombra non li è
né segno che si paia (v.7). Ombre e segni che avevano popolato i precedenti canti
dei superbi persistono nella memoria di un passato imminente di cui si deduce da un lato l'inutilità, dall'altro l'assenza frustante.
Quanto di qua per un migliaio si conta tanto di là eravam noi già iti, con poco tempo, per la voglia pronta;
25 e verso noi volar furon sentiti,
non però visti, spiriti parlando a la mensa d’amor cortesi inviti24
In quel furon sentiti, non però visti il lettore percepisce immediamente di trovarsi di fronte ad una nuova atmosfera, un nuovo ambiente, una nuova realtà.
Il verbo parlando è semanticamente indicativo della nuova situazione in cui si collocano le anime di questa cornice; l'azione dominante non è più la vista, ma l’udito, le parole, le note musicali, i suoni che si aggirano per l’aria non con continuità ma come improvvisi lampi sonori accompagnati da tonalità dolci e garbate.
In questa nuova cornice a svolgere il medesimo compito delle sculture della cornice precedente sono ora <<spiriti vocali>>, <<voci>>che misteriosamente si aggirano per l’aria le quali, attraverso gli esempi pronunciati ad alta voce che 24 Dante, Pg XIII, 22-27.
percorrono l’aria, inducono all’amore, alla carità, al recupero dei valori antitetici all’invidia. Dante non più vede ma ode, come indicano chiaramente sia l’udisse del verso 3125 che l’udirai del verso 4126
.
Al verso 43 ritorna l’indicazione della sfera visiva. Eppure, in un modo per certi versi paradossale, proprio la ripresa di questo campo semantico non fa che sottolineare, nel canto, la tensione cui viene sottoposta l’azione stessa del vedere, la quale, infatti, viene espressa non dal semplice verbo vedere, nè dai sinonimi
osservare, mirare o rimirare, bensì dall’espressione ficcare gli occhi.
Indicativo, in questo contesto, anche l'apostrofe di Virgilio al sole, la quale, se da un punto di vista tematico si giustifica con la necessità, per il pellegrino fiorentino e per la sua guida, di desumere dalla traiettoria salvifica dei raggi del sole la strada illuminante della Grazia che bisogna perseguire, permette anche, sotto la prospettiva stilistico-retorica, un simbolico contrasto con un ambiente in cui è proprio la vista ad essere oggetto di violenza.
L'immagine di Virgilio che fisamente al sole li occhi porse (v. 13) contrasta dunque sia con l'immagine del ficcare degli occhi del poeta nel tentativo di scorgere le anime dei penitenti purgatoriali della cornice (v. 43), sia con il campo semantico generale del nuovo canto, incentrato sull'udito, inteso, in quest'ottica, come unico strumento effettivo per gli ammonimenti morali del cerchio, in sostituzione dell'atto visivo
.
La vista, dunque, non solo ha assunto nel nuovo contesto di riferimento un’importanza secondaria rispetto a quella proposta dall’udito, ma anche laddove essa si trovi ad essere indicata e presentata, assume toni straziati, tesi, sofferenti, perfettamente consoni, come vedremo, alla natura e alla più intima essenza dell’invidia. Cambiano le modalità della azione visiva perchè a mutare, in primo luogo, sono gli oggetti della vista stessa: mentre, infatti, nella cornice dei superbi Dante e Virgilio osservano intagli in marmo candido e addorno, in quella degli invidiosi devono cercare di scorgere e notare, distinguendoli dall’ambiente circostante omocromo, ombre con manti al color de la pietra non diversi27
.
25 Dante, Pg XIII, 31 E prima che del tutto non si udisse
26 Dante, Pg XIII, 41 credo che l’udirai, per mio avviso,
Nella cerchia degli invidiosi, inoltre, la vista non è causa di sofferenza e tensione esclusivamente nell’atto stesso della sua realizzazione, nel suo compiersi difficoltoso, ma diviene anche tramite di osservazioni dolorose28, immagini sofferenti di visioni sofferte
.
I nuovi penitenti, infatti, si presentano al poeta coperti di vil cilicio, gli occhi cuciti con fil di ferro; il loro comportamento ed atteggiamento era identico, rileva Dante, a quello che assumono i ciechi ai quali manca la roba, il necessario per vivere, quando stanno davanti alle chiese, nei giorni in cui si concedono indulgenze, per poter chiedere l’elemosina29.
L'accostamento con le figure dei ciechi implica una, effettiva, identità assoluta di condizione: agli invidiosi, infatti, esattamente come ai ciechi, luce del ciel a sé largir
non vole; tuttavia, l'aspetto sul quale maggiormente si concentra l'attenzione e
l'analisi del poeta non è determinato tanto dalla condizione di cecità assoluta degli invidiosi, quanto dalle cause che rendono possibile tale condizione. Ciò che provoca la sofferenza del poeta non è infatti la visione della cecità dei penitenti, ma i loro occhi cuciti dal fil di ferro.
L'elemento chiave del tormento degli invidiosi è dunque la sofferenza visiva prima ancora della mancanza della vista stessa, giacché quest'ultima è diretta conseguenza della prima.
Anche nella descrizione della condizione dei ciechi mendichi il poeta enfatizza la pietà e la commiserazione destata negli uomini alla vista delle loro sofferenze30. Con l’indicazione della terribile condizione di cecità cui sono sottoposti gli invidiosi si raggiunge l’acme della degradazione del processo visivo realizzata dal poeta nel passaggio dal canto XII al canto XIII. Nei primi 60 versi del XIII canto la vista passa da elemento decisivo, in quanto tramite per la descrizione di immagini qualitativamente equvalenti alla realtà, come era stata nella cornice dei superbi, a condizione sofferente e straziata, fino a giungere, in una sorte di climax 28 Dante, Pg XIII, 57 per li occhi fui di grave dolor munto.
29 Dante, Pg XIII, 58-63 Di vil cilicio mi parean coperti,/ e l'un sofferia l'altro con la spalla,/ e tutti da
la ripa eran sofferti./ Così li ciechi a cui la roba falla,/ stanno a' perdoni a chieder lor bisogna,/ e l'uno il capo sopra l'altro avvalla; 70-72 ché a tutti un fil di ferro i cigli fóra/ e cusce sì, come a sparvier selvaggio/ si fa però che queto non dimora.
30 Dante, Pg XII,64-66 perché ‘n altrui pietà tosto si pogna,/ non pur per lo sonare de le parole,/ ma
discendente culminate nel verso 61, alla esplicita menzione della cecità, negazione assoluta della vista.
Il poeta, nel passare accanto ai penitenti, sottolinea una condizione di disagio psicologico che gli giungeva dal sentirsi un privilegiato, in quanto dotato di vista, in un mondo di gente priva di tale bene.
Questo contrasto viene espresso chiaramente ai versi 73-74:
A me pareva, andando, fare oltraggio, veggendo altrui, non essendo veduto;
Il verso 74 può essere accostato al verso 68 del XII canto, nel quale Dante, a rimarcare l’eccezionalità qualitativa dei rilievi incisi, sottolinea che:
-non vide mei di me chi vide il vero.
In ambedue i casi troviamo un confronto, sviluppato nel giro di un unico verso, tra la condizione del poeta e quella di altri individui (determinati nel primo caso, indeterminati nel secondo), ed in ambedue le circostanze l’elemento di comparazione è determinato dal grado di sviluppo delle facoltà visive.
Tuttavia, mentre nel canto XII il verso in oggetto comincia con la negazione non
vide (riferita all’osservatore diretto) per arrivare ad indicare che, in realtà, il poeta
vedeva delle immagini superiori alla consueta qualità artistica, e dunque la sua vista risultava sublimata, in quanto scorgeva direttamente, in immagini nient’affatto diverse dalla natura, la realtà effigiata nelle immagini stesse, nel secondo caso il confronto si apre con l’indicazione positiva determinata dal participio veggendo, riferito questa volta, in una sorta di chiasmo rispetto al verso 68 del canto XII, a Dante stesso, mentre quello che si vuole veramente sottolineare, l’elemento chiave del confronto, è la condizione dei penitenti, che non vedono. Nel canto XII, il canto della vista, il confronto è, insomma, tra chi vede elementi reali e naturali e chi, pur osservando rappresentazioni artistiche, di fatto viene equiparato al primo, in quanto la rappresentazione risultava essere per nulla inferiore alla realtà. Nel canto XIII, invece, il confronto non è più incentrato sulle
qualità e sui gradi di intensità di un bene comunque posseduta da ambedue i membri di riferimento del paragone, ma si svolge, in maniera decisamente più netta e radicale, tra chi possiede e chi (l'invidioso) non possiede quella determinata facoltà.
1.2 La presentazione degli invidiosi
Dagli elementi sopra osservati emergono alcune delle caratteristiche peculiari degli invidiosi danteschi. I tratti più significativi della descrizione di tale categoria di penitenti possono essere agevolmente suddivisi in due categorie: una paesaggistico-coloristica comprendente la descrizione dell’ambiente nudo, scabro, essenziale nonché l’indicazione del livido colore della pietra e delle anime ricoperte di manti al color de la pietra non diversi; la seconda è invece costituita dalle indicazioni sulla sofferenza visiva ed i tormenti cui sono sottoposti gli invidiosi. Il contrappasso è, in questo caso, chiaro: gli occhi degli invidiosi, infatti, operarono in vita solo in modi maligni, ribaltarono la retta visione delle cose; l’invidia, per Dante, è una forma di cecità morale, una privazione della luce.31. Poiché, nel corso della loro vita, questi penitenti hanno guardato di sbieco e di traverso i beni altrui, adesso vengono privati di tale bene, ed i loro occhi sono cuciti con un fil di ferro, coperti di cilicio, di panno setoloso, ruvido e pungente, livido come il loro peccato.32
31 Cfr. L. Getto, op.cit., p. 444 L’invidia è un peccato che viene da viltà, cioè bassezza morale, e per
questo gli invidiosi sono vilmente vestiti, e hanno gli occhi cuciti con un fil di ferro perché proprio attraverso gli occhi, mal sopportando la vista dei beni altrui, essi fecero penetrare il peccato nel loro cuore.
32 Significative indicazioni sulla natura simbolica ed allegorica della cornice degli invidiosi
vengono offerte dal commento al Purgatorio di Benvenuto da Imola, ad. loc.: quia illa strata erat facta ex lapide livido. Et hic nota quod sub ista artificiosa fictione autor dat subtiliter intellegi, quod vitium superbiae est manifestissimum, et reddit se notissimum per multa signa; vitium vero invidiae est occultissimum, sed manifestatur aliquando in colore livido: sicut apparet de facto quod unus vel audiens felicitatem, gloriam vel honorem alterius variat colorem, et respargitur livore.
Si può dire dunque che natura e penitenti vivano in perfetta simbiosi, amalgamandosi in un insieme dove risulta difficile distinguere l’una dagli altri33, accomunati come sono dal colore livido che pertiene ad entrambi.
La figura più significativa dell’intera cornice degli invidiosi è certamente quella rappresentata da Sapia senese: l’immagine di invidioso rappresentata da Sapia è quella di un individuo che gode della sofferenza altrui, in questo caso dei suoi stessi concittadini. La sua invidia la guida a sperare il peggio, una disgrazia per la sua stessa città: con la sua storia Dante introduce l’invidioso colto nell’attimo del godimento, connesso, inesorabilmente, in un rapporto di proporzionalità inversa con le vicende degli invidiati. Indicativa, nella narrazione di Sapia, è la ripresa della potenza della vista, fonte allora di godimento e gioia, ora, invece. di tormento e sofferenza:
115 Eran li cittadini miei presso a Colle
in campo giunti co’ loro avversari, e io pregava Dio di quel ch’e’ volle. Rotti fur quivi e vòlti ne li amari passi di fuga; e veggendo la caccia
120 letizia presi a tutte le altre dispari34
Così commenta il passo il critico Zenatti: Vivace, drammatica, la scena della
battaglia, che si svolge nel piano di Sant’Antonio dinanzi agli occhi di lei. Ritta alla finestra del suo castello, quei suoi occhi invidiosi ella affisa nelle schiere dei combattenti, pregando Iddio della sconfitta dei suoi Senesi, della sconfitta dell’odiato nipote, e di lor strage. Ecco gli avversari sono in campo, di fronte, e s’attaccano; ecco rotti i Senesi; eccoli in fuga (...) e sorge Sapia pazza di gioia feroce, e sprezza ormai anche Dio35.
33 Cfr. C. Musumarra, op cit.,p.445 i manti degli invidiosi, al color de la pietra non diversi,
contribuiranno a mantenere questa tonalità ambientale che, mossa da un’intenzione allegorica- la rispondenza tra peccato e luogo della pena- si è tradotta in una spirituale e poetica atmosfera di paesaggio.
34 Pg XIII, 115-120.
Anche nella descrizione del comportamento di Sapia,dunque, ad essere enfatizzata è la componente visiva, la vista ossessiva incentrata e concentrata sull’oggetto invidiato.
L’immagine degli invidiosi nella Divina Commedia, tuttavia, non si limita al solo XIII canto d e l Purgatorio: la loro presenza, al contrario, risulta essere costante all’interno del poema, a partire dal primo canto dell’Inferno, laddove, nell'episodio della profezia del feltro, Dante auspica la cacciata della lupa (simbolo della avarizia) nello stesso inferno da cui la prima invidia dipartilla36; l’invidia introdotta
in questo contesto è quella di Lucifero, invidioso, appunto, sia della felicità e della superiorità di Dio, sia dell’umanità fedele al signore.
Dante, per esperienza personale, conosceva bene anche i risvolti sociali dell'invidia37 ed era perfettamente consapevole di quanto l'astio, il rancore, i risentimenti personali potessero macchiare ed inquinare il tessuto sociale comunale, compreso, naturalmente, quello della sua Firenze. In quest'ottica si colloca il discorso di Ciacco nel sesto canto dell'Inferno, laddove, riferendosi direttamente alla città di Firenze, Ciacco dice a Dante:
(...) la tua città, ch’ è piena
d’invidia sì che già trabocca il sacco, seco mi tenne in la vita serena38
.
a proposito dei fiorentini, viene riferito che:
superbia, invidia ed avarizia sono le tre faville che hanno i cuori accesi.39
Un’altra celebre presenza dell' Invidia nell’Inferno dantesco è quella ravvisabile nel XIII canto, dedicato alla descrizione del girone dei suicidi. Lo scenario del girone
36 Inf. I, 108-111.
37 Cfr. C. Casagrande- S. Vecchio, I sette vizi capitali. Storia dei peccati nel medioevo, Torino 2000, pp. 43-49.
38 Inf. VI, 49-51. 39 Inf. VI, 74-75.
infernale è, in un certo qual modo, simile a quello degli invidiosi: esso, infatti, è costituito da un fitto boschi di pruni foschi e selvaggi, nel quale risuonano lamenti, senza però che venga scorta persona alcuna: anche in questa occasione, dunque, assistiamo ad un depauperamento della funzione visiva.
In Purgatorio XIII la luce è oscurata dalle rocce livide, qui, invece, da secchi e grossi alberi che fanno avanzare nell'ombra i due viaggiatori. L'invidia viene introdotta a riguardo di uno dei personaggi più conosciuti e studiati dell'intera Commedia: Pier Della Vigna. Questi, segretario alla corte di Federico II, cadde vittima delle accuse calunniose dei cortigiani, originate dall’astio per la posizione preminente che il giurista capuano era riuscito ad ottenere alla corte di Sicilia:
Io son colui che tenni ambo le chiavi del cor di Federigo, e che le volsi
60 serrando e disserando, sì soavi,
che dal segreto suo quasi ogn’uom tolsi;40
al che :
La meretrice che mai da l’ospizio
65 di Cesare non torse gli occhi putti
morte comune e de le corti vizio, infiammò contra me li animi tutti;41
L'esito della vicenda sarà, come ben noto, terribile e drammatico. Il principe presterà fede alle calunnie presentate dai cortigiani e ripudierà il segretario, facendolo arrestare, accecare e tradurre in carcere. Non sopportando un così gran disonore, Pier Della Vigna si suicidò. La sua storia testimonia dunque, in maniera emblematica, la forza che può possedere un sentimento malevolo come quello dell'invidia, nonché le conseguenze devastanti che esso può comportare ed arrecare anche a persone che siano riuscite, con il loro operato a raggiungere posizioni di prestigio e potere.
40 Inf. XIII, 58-61 41 Inf. XIII, 64-67.
Un richiamo all'invidia ricorre anche nel XV canto dell'Inferno, laddove Brunetto Latini, scagliando un’invettiva contro i concittadini di Dante, arriverà ad imputare loro gli stessi peccati di superbia, avarizia ed invidia già presentati da Ciacco, seppur in ordine inverso:
Vecchia fama nel mondo li chiama orbi; gent’è avara, invidiosa e superba: dai lor costumi fa che tu ti forbi42.
Meritevole di menzione è anche la storia di Romeo di Villanova, presentata nel VI canto del Paradiso.
Personaggio storico, nato attorno al 1170, fu ministro e gran siniscalco dell’ultimo conte di provenza Raimondo Beringhieri IV, al quale non solo riuscì a recuperare la città di Nizza, ma, soprattutto, assicurò matrimoni alle sue quattro figlie.
Il virtuoso prodigarsi di Romeo finì per essere malvisto dagli altri nobili, e gli procurò ingratitudine e miseria; in questo caso la sfera d'azione dell'invidia si sposta dal campo visivo, che abbiamo visto essere ancora operante nella storia di Pier Della Vigna, a quello verbale, con l'esplicito riferimento alle parole ingiuriose e calunniose che comportarono la caduta in disgrazia del principe.
E poi il mosser le parole biece a dimandar ragione a questo giusto, che li assegnò sette e cinque per diece,
indi partissi povero e vetusto43;
Il quadro generale della presentazione dell'invidia dantesca è, come si può desumere dalle varie testimonianze riportate, variegato e poliedrico, pur nella presenza di importanti elementi di continuità tra le varie vicende.
L'invidia si presenta come un sentimento continuamente ripreso da Dante, con attestazioni in tutte e tre le Cantiche, citazioni di esempi tratti da fonti bibliche
42 Inf. XV.67-69. 43 Pd. VI.136-139.
(Lucifero e, come vedremo, Caino sono due exempla biblici ripresi da Dante a proposito degli invidiosi), ma anche classico-pagane (Aglauro); sentimento individualmentesperimentato (Sapia e il suo godimento personale alla disfatta dei compagni senesi), ma anche dalle significative ripercussioni sociali, sia in ambito comunale e cittadino (Firenze), sia in quello cortigiano signorile (Pier Della Vigna e Raimondo). Un altro aspetto che merita, in questo contesto, di essere sottolineato è relativo a quella fortissima componente di sofferenza, dolore e tormento che accompagna e si lega fortemente al sentimento dell'invidia, non solo in chi sperimenta direttamente la passione, ma anche in chi ne subisce gli effetti, dove l'azione lesiva e deleteria è, naturalmente, svolta dal corredo di accuse e di maldicenze ad essa strettamente connesse.
1.3 Origine e definizione dell'invidia
Nella Divina Commedia troviamo, oltre alle varie figure di invidiosi, anche la descrizione dell’origine dell’invidia stessa, originata, dice il poeta, da un disordine d’amore.
Esattamente a metà del Purgatorio44, in posizione di grande evidenza, Dante inserisce la trattazione sulla natura dell’amore, da cui deriva la suddivisione dei vizi nelle varie cornici. Il presupposto fondamentale per la classificazione dei vizi nel purgatorio è dato dalla constatazione della presenza di una duplice forma di amore in ogni creatura: l’amore naturale, sempre senza errore45, e quello di elezione, che può errare in duplice senso: per malo obietto, volgendo, cioé, il fine dell'amore nel male46, oppure indirizzandosi al bene con troppa o troppo poca intensità47.
Ora, a proposito del male che si volge verso fini sbagliati e malvagi, Dante sottolinea come ogni creatura non possa odiare se stessa nè l’Essere primo, cioè
44 Pg. XVII, 91-139. 45 Pg. XVII, 94. 46 Pg. XVII, 95. 47 Pg. XVII. 96.
Dio. Ne consegue, dunque, che l’unica forma di odio, l’unico male che si può effettivamente e concretamente desiderare è quello contro il prossimo48
.
Da questο nascono negli essere umani la superbia, l’invidia, l’avarizia: Il superbo
E’ chi, per esser suo vicin soppresso, spera eccellenza, e sol per questo brama ch’el sia di sua grandezza in basso messo49
;
l’invidioso viene presentato con questo parole:
è chi podere, grazia, onore e fama teme di perder perch’altri sormonti,
120 onde s’attrista sì che il contrario ama50
;
Dell’irato, infine, vien detto che:
ed è chi per ingiuria par ch’aonti, sì che si fa de la vendetta ghiotto, e tal convien che ‘l male altrui impronti.51
La definizione dell’invidia e quella della superbia sono state giudicate da alcuni critici eccessivamente somiglianti; in particolar modo il critico Porena sostenne che Dante aveva bisogno di far rientrare la superbia nella categoria dell’altrui male,
e ne ha fatto un quissimile all’invidia, discernendola in quella distinzione sottile che il superbo vuole deprimere gli altri, l’invidioso vuole abbassare a sè gli altri per non rimanere più basso, mentre la differenza dei due peccati è tanto profonda, che spesso la superbia non è invidiosa, e quasi sempre l’invidioso non è superbo52.
48 Pg. XVII, 106-114. 49 Pg. XVII, 115-117. 50 Pg. XVII, 118-120. 51 Pg. XVII. 121-123.
52 M.Porena, L'ordinamento morale del Purgatorio, in Dante Alighieri, La Divina Commedia, Bologna 1955, pp. 166-168.
In realtà Dante seguì, in questa presentazione dei vizi, il pensiero di S. Tommaso e, di riflesso, di S.Agostino.
Nell a Summa theologiae, infatti, il collegamento tra invidia e superbia viene ricollegato alla testimonianza agostiniana: Augustinus dicit in libro De Virginitate
quod superbia invidiam parit, nec umquam est sine tale comite53.
Come rilevato da Casagrande-Vecchio, infatti, l'invidioso è un superbo deluso nella
sua volontà di eccellenza, un arrogante frustrato dall'eccesso di gloria altrui, un orgoglioso che si vuole superiore agli altri e che si addolora se vede che costoro sono riconosciuti migliori di lui54.
I l s u p e r b o , i n s o m m a , p u ò anche essere invidioso, come dimostra emblematicamente l’esempio di Lucifero, la cui insubordinazione a Dio fu dettata sia da superbia, ritenendosi superiore a questi, sia da invidia, laddove chi si reputa superiore si trova, di fatto, in una condizione di inferiorità rispetto a qualcun’altro, creduto inferiore. Così Lucifero viene assunto da Dante come primo esempio di superbia punita nel XII canto del Purgatorio55
,
in Paradiso XXIX viene ricordato ilmaladetto/ superbir di colui che tu vedesti/ da tutti i pesi del mondo costretto56,
mentre in Paradiso IX del principe delle tenebre viene citata l’invidia, non la superbia57.
L’aspetto che, tuttavia, maggiormente mi preme mettere in risalto in questa definizione dantesca dell’invidia è la caratterizzazione della stessa come sofferenza (s’attrista) provata alla vista dei beni altrui: il superbo, infatti, spera di poter acquisire una posizione di prestigio, ed è unicamente per tal fine (sol per questo) che non esita a sminuire o a vedere sminuiti gli altri; l’invidioso, invece, teme che il successo altrui possa essere lesivo della propria reputazione e del proprio onore, e, per questo, ama la sofferenza altrui. Mentre, insomma, la superbia, nella definizione dantesca, nasce da una speranza, l’invidia ha origine dal timore e si configura essenzialmente come tristezza (s’attrista).
53 Sum. Theol. 2.2.162.8. Per Tommaso, in generale, l'invidia nasceva da una mancanza di misura nell'amor di se, potendo, dunque, trarre origine, oltre che dalla superbia, anche dalla
pusillanimità; Cfr. Sum. Theol. 2.2.36.a1.3. Sulla stessa linea Ar. Rhet., 2.10.1387b. 54 C. Casagrande- S. Vecchio, op.cit., p. 42.
55 Pg. XII. 25-27. 56 Pd. XXIX. 55-57. 57 Pd. IX. 127-129.
La definizione di Dante si ricollegava, come detto, a quella della Summa Theologiae di San Tommaso, il quale definì l’invidia come una vera e propria tristitia58 de bono
alterius, tristezza derivante dall'altrui bene.
Il passo di San Tommaso è particolarmente importante ai fini della nostra indagine per lo spessore filosofico-morale-dottrinario che contraddistingue la Summa. Il problema dell'invidia era stato, naturalmente, osservato ed analizzato in ambiente cristiano molto prima delle osservazioni di Tommaso; del resto, il testo sacro offriva e presentava un buon materiale di analisi e ricerca, con i suoi numerosi esempi di astio e livore malevolo: la già menzionata vicenda di Lucifero, la storia di Caino ed Abele (Genesi, 4.1-15), la reciproca rivalità tra Giacobbe ed Esaù (Genesi, 25.25-40); i fratelli di Giuseppe che vendono come schiavo il fratello (Genesi, 37-50); il rapporto conflittuale tra Saul e Davide (Samuele, 16-31); ed ancora, nel Nuovo Testamento, laconsegna di Gesù ad opera dei sommi sacerdoti, determinata da astio e risentimento (Marco, 15.6-15); l'episodio del figliol prodigo, laddove il figlio maggiore, invidioso delle attenzioni paterne nei confronti del figlio minore dissoluto, rivendica con forza i propri diritti (Luca, 15.11-32); la celebre immagine delle carità non invidiosa di San Paolo nelle Lettere ai Corinzi (Corinzi 13.1-8).
Un ventaglio così ampio ed esteso di exempla biblici spinse i grandi Padri della chiesa a riflettere e studiare in maniera approfondita il fenomeno dell'invidia: si inseriscono in questo contesto un'omelia di Basilio di Cesarea (Hom. IV), poi tradotta in latino da Rufino, ed il trattato De zelo et livore di Cipriano59. Queste opere si pongono fondamentalmente come guide spirituali per le comunità di fedeli; esse sono, infatti, intessute di continui riferimenti agli episodi biblici appena citati, appelli accorati ai fedeli affinché questi non cadano nella tentazione del peccato, esaltazione della concordia e della solidarietà fraterna come contraltare all'egoismo e alla malevolenza invidiosa: ritorneremo su questi testi quando analizzeremo il lessico della sintomatologia invidiosa, visto che essi offrono, in tal senso, indicazioni importanti in virtù di un utilizzo continuo di termini semanticamente indicativi.
58 Su tristia Cfr., infra, n.61.
Quello che invece manca in questi testi, proprio in virtù della loro funzione principalmente educante-ammonitoria, è, nonostante un elevato numero di descrizioni delle varie manifestazioni fenomeniche dell'invidia e dell'invidioso, una riflessione sul significato proprio dell'invidia, sulla sua essenza, sui suoi elementi costituivi. Riflessione ed analisi che, invece, non potevano non essere presenti in un'opera, come la Summa, che si proponeva di realizzare uno studio razionale e dottrinario-filosofico sui grandi temi della religiosità cristiana. San Tommaso, nello specifico, discute il tema dell'invidia nella Quaestio XXXVI.
L a Quaestio, suddivisa in quattro articoli60, fornisce non solo una definizione dell'invidia, ma anche una importante distinzione semantica tra l'invidia stessa ed altre passioni ad essa in qualche modo accostabili ed avvicinabili, mantenendo, tuttavia, importanti elementi di differenza e contrasto, prontamente rilevati dal filosofo e teologo cristiano.
Nel primo articolo (Utrum invidia sit tristitia) Tommaso distingue l'invidia dal
timor: ambedue sono accomunati dall'essere forme di tristitia61 de bono alieno:
L'invidia si distingue però dal timore in quanto, mentre questo si configura quando il bene altrui coincide con un pericolo direttamente rivolto verso di noi, come quando temiamo che l'esaltazione di un nemico possa in qualche modo lederci (sicut cum homo tristatur de exaltatione inimici sui, timens ne eum laedat, Et talis
tristitia non est invidia, sed magis timoris effectus), l'invidia soffre per il bene
dell'altro solo in quanto il bene altrui viene ad identificarsi, agli occhi dell'invidioso, come una diminutio della sua persona62
.
Nel secondo articolo (utrum invidia sit peccatum), Tommaso, oltre a riprendere la differenza tra timore ed invidia, tematizza altre importanti distinzioni: l'invidia viene infatti distinta dallo zelus in quanto quest'ultimo sentimento pur essendo,
60 Utrum invidia sit tristia; utrum invidia sit peccatum; utrum invidia sit peccatum mortale; utrum
invidia sit vitium capitale.
61 Come sottolineato da C. Casagrande- S. Vecchio. op.cit., p. 39, tristitia è un termine che nel
vocabolario delle passioni designa quel particolare dolore che nasce dall'interiorità.
62 Sum.Theol.2.2.36.a1. Contigit autem id quod est alienum bonum apprehendi ut malum proprium.
Et secundum hoc de bono alieno potest esse tristitia . Sed hoc contigit dupliciter. Uno modo, quando quis tristatur de bono alicuius inquantum imminet sibi ex hoc periculum alicuius nocumenti: sicut cum homo tristatur de exaltatione inimici sui, timens ne eum laedat. Et talis tristitia non est invidia, sed magis timoris effectus (…). Alio modo bonum alterius aestimatur ut malum proprium inquantum est diminutivum propriae gloriae vel excellentiae. Et hoc modo de bono alterius tristatur invidia.
come l'invidia, una tristitia de alienis bonis, al contrario di essa, dice Tommaso, non nasce dal dolore per il fatto che qualcuno possieda un determinato bene, ma dalla sofferenza, provata dallo zelosus, a non possedere queldeterminato bene.63
Alla vista dell'altrui bene, dunque, chi prova zelus è spinto a riflettere sulle proprie mancanze e debolezze, cercando, propria sulla spinta dei successi altrui, di migliorare e raggiungere gli stessi traguardi ed obiettivi.
L'ultima distinzione riguarda il rapporto tra invidia e nemesis. In questo caso, la differenza si basa essenzialmente su una componente di merito, assente nel caso dell'invidia e presente, invece, nella nemesi. Contrariamente all'invidioso, il quale soffre sic et simpliciter per il bene altrui, chi prova nemesis soffre per la felicità degli altri, nel momento stesso in cui chi usufruisce di un determinato bene appare esserne indegno, non meritarlo64
.
A sua volta, la classificazione di Tommaso si ricollegava, esplicitamente, alla
Rhetorica aristotelica.
In questo trattato, il filosofo teorizzò come un oratore, al fine di poter persuadere l'uditorio, avesse a disposizione tre risorse fondamentali: le argomentazioni logiche (λόγος), il suo carattere (ἦθος), ed il porre l'ascoltatore in una certa disposizione mentale (ἐν τῷ τὸν ἀκροατὴν διαθεῖναί πως)65.
Suscitare determinate emozioni nell'uditorio era dunque considerata come una vera e propria propria risorsa e strategia a disposizione del retore. Per questo, lo Stagirita, nel secondo libro della Rhetorica, si occupò di delineare le caratteristiche di quindici πάθη. Tra questi, nella sezione dedicata alle emozioni provate dinnanzi alle fortune degli altri, Aristotele accostò lo sdegno, l'invidia, l'emulazione66.
Aristotele definì lo sdegno come specularmente opposto alla pietà. Mentre la pietà, infatti, veniva intesa come sofferenza provata dinnanzi alle altrui sfortune
63 Sum.Theol. 2.2.36 a2 Alio modo potest aliquis tristari de bono alterius, non ex eo quod ipse habet
bonum, sed ex eo quod nobis deest bonum illud quod ipse habet. Et hoc proprie est zelus.
L'ottica cristiana del santo lo porta, differentemente da Aristotele, a distinguere lo zelo rivolto ai
beni spirituali, sempre lodabile, da quello rivolto ai beni terreni, che può essere peccato o meno, a seconda delle circostanze.
64 Sum.Theol. 2.2.36 a2 Tertio modo aliquis tristatur de bono alterius inquantum ille cui accidit
bonum est eo indignus. (…) Et haec tristitia (…) vocatur nemesis.
65 Arist. Rh. 1.2.1356a1-4.
66 Per un'analisi su invidia, emulazione, zelo nella retorica di Aristotele, Cfr A. Ben-Ze'ev, Aristotle
immeritate, lo sdegno veniva definito come una sofferenza provata dinnanzi alle altrui fortune immeritate; sia lo sdegno che la pietà erano proprie, per Aristotele, di un animo nobile (ἀντίκειται δὲ τῷ ἐλεεῖν μάλιστα μὲν ὃ καλοῦσιν νεμεσᾶν. Τῷ
γὰρ λυπεῖσθαι ἐπὶ ταῖς ἀναξίαις κακοπραγίαις ἀντικείμενόν ἐστι τρόπον τινὰ καὶ ἀπὸ τοῦ αὐτοῦ ἤθους τὸ λυπεῖσθαι ἐπὶ ταῖς ἀναξίαις εὐπραγίαις. καὶ ἄμφω τὰ πάθη ἤθους χρηστοῦ)67
.
Lo sdegno, dunque, era sofferenza dinnanzi alle fortune immeritate degli altriτờ νεμεσᾶν λυπεῖσθαι ἐπὶ τῷ φαινομένῳ ἀναξίως εὐπραγεῖν; proprio per questo, continua Aristotele, non si proverà sdegno dinnanzi ad ogni bene altrui; non ci si potrà sdegnare, infatti, con un uomo giusto, o coraggioso, o se acquisterà la virtù (infatti, non si proverebbe neppure compassione di fronte al contrario di queste qualità), ma per la ricchezza, il potere, le cariche pubbliche, ed altri beni
s
imili: οὐ γὰρ εἰ δίκαιος ἢ ἀνδρεῖος ἢ εἰ ἀρετὴν λήψεται, νεμεσήσει τούτο (οὐδὲ γὰρ ἔλεοι ἐπὶ τοῖς ἐναντίοις τούτων εἰσίν), ἀλλὰ ἐπὶ πλούτῳ καὶ δυνάμει καὶ τοῖς τοιούτοις68. Poiché ciò che è antico sembra prossimo a ciò che è naturale, gli uomini si sdegneranno maggiormente, tra le persone che possiedono il medesimo bene, con quelli che si trovano a possederlo da minor tempo (ἐπεὶ δὲ τὸ ἀρχαῖονἐγγύς τι φαίνεται τοῦ φύσει, ἀνάγχη τοῖς ταὐτὸ ἔχουσιν ἀγαθόν, ἐὰν νεωστὶ ἔχοντες τυγχάνωσιν καὶ διὰ τοῦτο εὐπραγῶσι, μᾶλλον νεμεσᾶν)69.
Le persone arricchite da poco tempo infastidiscono più di quelle che sono ricche da maggior tempo (μᾶλλον γὰρ λυποῦσιν οἱ νεωστὶ πλουτοῦντες τῶν πάλαι)70; lo stesso discorso, sottolinea il filosofo, vale per tutti gli altri beni (Ὁμοίως δὲ καὶ ἐπὶ
τῶν ἄλλων). Lo sdegno viene provocato, in generale, sia quando una persona
meritevole non ottenga ciò che le si addice (ἂν οὖν ἀγαθὸς ὢν μὴ τοῦ αρμόττοντος
τυγχάνῃ, νεμεσητόν), sia quando l'inferiore si oppone al superiore (καὶ τὸ τὸν ἥττω τῷ κρείττονι ἀμφισβητεῖν).71
Aristotele passa poi ad analizzare l'invidia: loϕθὸνος sembrerebbe contrapporsi alla pietà, identifcandosi, dunque, con l'indignazione; in realtà, esso viene
67 Arist. Rh. 2.9.1386b8-12. 68 Arist. Rh. 2.9.1387a11-12 69 Arist.Rh. 2.9.1387a16-18. 70 Arist. Rh. 2.9.1387a17-18. 71 Arist. Rh. 2.9.1386a31-32.