• Non ci sono risultati.

Il tramonto del colonialismo europeo in Africa. Il caso italiano e il conflitto franco-algerino

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "Il tramonto del colonialismo europeo in Africa. Il caso italiano e il conflitto franco-algerino"

Copied!
235
0
0

Testo completo

(1)

INDICE

INTRODUZIONE ... 4

CAPITOLO 1 LA STORIOGRAFIA DELLA DECOLONIZZAZIONE ... 9

1.1 La storiografia in Africa: fenomeno eurocentrico o lotta di liberazione ?9 1.2 La storiografia e i problemi dei nuovi stati sorti in Africa ...14

1.2.1 Caratteristiche politiche e problemi dello stato-nazione africano ...14

1.2.2 Lo studio economico dei paesi di nuova indipendenza ...19

1.3 Neocolonialismo...24

1.4 Postcolonialismo e Subaltern Studies: un nuovo metodo storico...27

1.5 Fanon, la decolonizzazione e la guerra d’Algeria: un’introduzione...33

1.6 La storiografia italiana sulle ex colonie e sull’Africa nel corso del Novecento ...36

CAPITOLO 2 LA GUERRA D’ALGERIA ...42

2.1 L’Algeria francese e la nascita del movimento nazionalista ...42

2.1.1 La colonizzazione francese e i suoi effetti...42

2.1.2 Le origini del movimento nazionale algerino ...46

2.1.3 Il movimento nazionale si avvia alla lotta armata...49

2.2 La guerra d’Algeria: dall’insurrezione armata all’inizio della crisi dello stato francese (1954-1958)...53

2.2.1 I primi quattro anni di guerra degli algerini...57

(2)

2.4 La società francese e algerina durante il conflitto...66

2.4.1 L’opinione pubblica francese durante gli otto anni di conflitto franco-algerino ...66

2.4.2 I cambiamenti sociali avvenuti nella popolazione algerina durante la guerra...69

2.5 Le istituzioni italiane di fronte al conflitto franco-algerino ...73

2.6 La stampa italiana sulla guerra franco-algerina: il punto di vista dell’Unità ...90

CAPITOLO 3 LA STRANA DECOLONIZZAZIONE DEGLI EX POSSEDIMENTI ITALIANI IN AFRICA ...105

3.1 Il colonialismo italiano: dai primi possedimenti all’Impero fascista (1882-1941) ...105

3.1.1 Le prime azioni coloniali dell’Italia liberale (1882-1896)...105

3.1.2 La guerra in Libia, l’ultima conquista coloniale dell’Italia prefascista...109

3.1.3 La politica coloniale fascista in Libia, Somalia ed Eritrea ...113

3.1.4 La guerra d’Etiopia (1935-1936)...116

3.1.5 L’Impero italiano e la perdita delle colonie (1936-1941)...119

3.2 Il futuro dei possedimenti italiani in Africa (1941-1949) ...121

3.2.1 I progetti inglesi ed americani sul futuro dei territori d’oltremare italiani (1941-1943) ...122

3.2.2 I colloqui tra gli Alleati: la Conferenza di Potsdam (Luglio-Agosto 1945) ...125

3.2.3 La Conferenza di Londra (Settembre-Ottobre 1945) ...129

3.2.4 La Conferenza di Parigi (Aprile-Luglio 1946) ...135

3.2.5 La definizione del Trattato di Pace del 10 Febbraio 1947...143

3.2.6 Il tentativo di un’intesa tra le quattro grandi potenze (Marzo 1947-Settembre 1948) ...145

(3)

3.2.8 La decisione finale delle Nazioni Unite sulle ex colonie italiane ...158

3.3 La politica italiana sul problema coloniale (1945-1949)...173

3.4 L’amministrazione fiduciaria italiana in Somalia (1950-1960) ...199

3.4.1 I preparativi per il ritorno italiano in Somalia...200

3.4.2 L’amministrazione Fornari ...203

3.4.3 L’amministrazione Martino ...209

3.4.4 L’amministrazione Anzillotti...213

3.4.5 L’amministrazione De Stefano e l’indipendenza della Somalia ...216

3.4.6 Dieci anni di amministrazione fiduciaria italiana: un bilancio finale ...221

CONCLUSIONE ...224

(4)

INTRODUZIONE

La parola decolonizzazione è entrata a far parte del vocabolario negli anni trenta, ma si è diffusa solamente negli anni sessanta ed «è un termine conciso che, utilizzando il prefisso de-, lascia presupporre separazioni e allontanamenti»1. La decolonizzazione non è stata un processo unico, ma un insieme di attività e eventi convulsi che si sono svolti o nelle sale congressuali o nelle strade, sottoforma di manifestazioni e cortei, o nelle giungle e sulle montagne, sottoforma di combattimenti. Per alcuni è stata troppo rapida, per alcuni troppo lenta ma per la maggior parte degli accademici risulta incompiuta, dando luogo a tantissimi dibattiti che non riguardano solamente la dinamica del problema storico ma se ciò ha avuto conseguenze sugli altri continenti, sottoforma di problemi politici, economici e culturali.

Con il secondo dopoguerra, la politica internazionale assunse un atteggiamento decisamente favorevole alla decolonizzazione. Già la Carta di San Francisco, del 25 Giugno 1945, che dette vita all’ONU, conteneva dichiarazioni dirette a sostenere le aspirazioni autonomistiche del mondo coloniale. Tale orientamento ha avuto i presupposti più importanti nell’anticolonialismo di Stati Uniti e Unione Sovietica, uscite dalla guerra come le due grandi potenze mondiali. Le istituzioni statunitensi si rifacevano ad un dovere ideale, dovuto alla creazione degli USA, e ad un pensiero meramente economico-politico: «con l’apertura dei territori coloniali alla concorrenza economica internazionale, ciò avrebbe consentito agli investimenti di capitale nordamericani di penetrare in nuovi importanti mercati»2. Anche i sovietici si rifacevano a motivi ideologici e concreti per far inserire i processi di liberazione nazionale nella ideologia marxista-leninista, per riempire il vuoto lasciato dalle potenze colonialiste europee in Africa, e in Asia, e per spostare a proprio vantaggio l’equilibrio di potenza a livello mondiale.

All’interno delle Nazioni Unite si sarebbe potuto fare di più da subito, ma le resistenze dei paesi colonialisti impedirono una presa di posizione netta a favore della decolonizzazione, anche se le opinioni andarono ben oltre le norme della Carta fondamentale che, al capitolo XI, fissò a carico delle potenze amministratrici dei

1

Raymond F. Betts, La decolonizzazione, Il Mulino, Bologna 2007, p. 7.

2

Gianluigi Rossi, L’Africa verso l’unità (1945-2000). Dagli stati indipendenti all’atto di unione di Lomè, Nuova Cultura editore, Roma 2010, p. 7.

(5)

“territori non autonomi” il progresso politico fino all’autogoverno, mentre i capitoli XII e XIII introdussero il regime di amministrazione fiduciaria, consistente nell’affidare a qualche potenza l’amministrazione di determinati territori per condurli verso l’autogoverno o l’indipendenza.

Al di là di ciò, l’azione delle Nazioni Unite in favore della decolonizzazione si mostrò durante le audizioni dell’Assemblea generale e nelle risoluzioni approvate da quest’ultima, azione che aumentò in tendenza con l’ingresso dei paesi afro-asiatici all’interno dell’organizzazione. L’anno cruciale di tutto ciò fu il 1960, quando diciassette stati africani divennero indipendenti ed entrarono a far parte dell’ONU, portando una nuova spinta contro il colonialismo. La conferma arrivò il 14 Dicembre dello stesso anno, con l’adozione della Dichiarazione sulla concessione

dell’indipendenza ai popoli e ai paesi coloniali, rappresentando un punto di

riferimento imprescindibile per tutte le azioni successive in politica internazionale su questa materia. Inoltre, subito dopo tale dichiarazione, venne istituito un Comitato

speciale delle Nazioni Unite per la decolonizzazione (Comitato dei 24) «con

l’incarico di seguire costantemente gli sviluppi in atto nei paesi rimasti sotto regime coloniale tenendone informata l’Assemblea generale»3.

La fratellanza tra i paesi di nuova indipendenza in materia di decolonizzazione aveva trovato una importante dimostrazione concreta nella Conferenza afro-asiatica di Bandung, nell’Aprile 1955. Storicamente considerata come il primo passo verso la creazione del gruppo dei non allineati, fu un fattore di accelerazione di condanna del colonialismo, che colpì l’opinione pubblica internazionale perché, per la prima volta, i paesi di nuova indipendenza prendevano posizione collettivamente su tale questione.

In generale, parlando di decolonizzazione africana, si fa riferimento a due fasi distinte, sia a livello cronologico che di modalità di accesso all’indipendenza. Il primo periodo va dal 1951 fino alla metà degli anni sessanta e le indipendenze di tale intervallo, nella maggior parte dei casi, sono frutto di un accordo tra le vecchie potenze coloniali e le élite indigene. Il secondo, invece, va tra la metà degli anni settanta fino agli anni novanta ed è stato l’esito di una guerra di liberazione, di una lotta armata contro le potenze coloniali.

Il presente lavoro prende in esame il primo periodo della decolonizzazione e, in particolare, si cerca di evidenziare questo evento attraverso la ricerca storiografica

3

(6)

degli ultimi cinquant’anni, nelle sue differenze e sfaccettature, cercando di comprendere gli elementi principali di questo fatto. In successione si tenta, tramite l’analisi di due casi specifici, di comprendere appieno l’essenza della decolonizzazione attraverso un momento di grande tensione internazionale come la guerra d’Algeria, l’indipendenza più cruenta della prima fase africana, e il futuro degli ex possedimenti italiani negli anni quaranta, l’inizio della decolonizzazione che si tramuterà nel mandato decennale italiano in Somalia per traghettare il paese all’indipendenza.

La storiografia occidentale ha dato ampio spazio alla decolonizzazione africana, sotto molteplici aspetti, dalla seconda metà del XX secolo fino ai giorni nostri, ridefinendo la metodologia di studio sull’Africa e mettendola al centro del dibattito storiografico. Le prime novità riguardarono la creazione di cattedre e studi specifici sul continente africano, dato che fino a quel momento era visto solamente come un’appendice della storia europea e, con il colonialismo e l’imperialismo, aveva perso quasi totalmente di interesse. A partire dalla fine degli anni cinquanta e l’inizio dei sessanta, la storiografia si divide tra chi continua con il metodo tradizionale, ovvero che i processi politici ed economici internazionali vanno sempre considerati nell’ottica europea, in questo caso la decolonizzazione è solamente una concessione degli stati del vecchio continente dato che gli imperi coloniali stavano crollando sotto il loro stesso peso, tra chi vede un influenza decisiva delle conseguenze del Secondo conflitto mondiale, della nascita delle Nazioni Unite e del mondo bipolare e chi sostiene che sia tutto merito delle popolazioni colonizzate che hanno rovesciato il potere coloniale.

Dagli anni sessanta, la storiografia ha cercato di comprendere e di analizzare la situazione delle nuove entità statuali africane, in particolar modo soffermandosi sui problemi politici ed economici. Quest’ultimi, saranno alla base del nuovo filone storiografico sorto anch’esso negli anni sessanta, il neocolonialismo, che studia il proseguimento dei rapporti di inferiorità dei paesi africani con l’Occidente dal punto di vista economico e, di conseguenza politico, con quest’ultimi che continuano nella loro presa delle ricchezze dell’Africa. All’inizio degli anni ottanta prende piede un nuovo metodo di studio storico, i Postcolonial Studies, che si sono imposti con concetti nuovi per analizzare e comprendere la società contemporanea, riconoscendo i drammi generati dal colonialismo e dalle sue propaggini contemporanee e vedono in questa nuova logica una critica della vecchia logica colonialista eurocentrica.

(7)

Una figura di primo piano del movimento terzomondista ed indipendentista è certamente Frantz Fanon che, attraverso la sua opera più conosciuta I dannati della

terra, riesce a far cogliere l’affermazione e la presa di coscienza del significato

universale della rivoluzione dei popoli coloniali e dell’avvento del terzo mondo come protagonista della nuova storia. Il saggio dello psichiatra martinicano, anche se prende origine dalla sua esperienza nella rivoluzione algerina, riesce a trascendere l’ambito nazionale, il movimento di liberazione dei popoli africani, «per investire l’intera corrente terzomondista sul piano internazionale, che tende a dare alla storia una universalità effettiva e a fare dell’umanità intera il suo soggetto consapevole»4.

Anche in Italia la storiografia nazionale si è occupata dell’Africa e delle ex colonie italiane africane, partendo in ritardo, però, rispetto agli altri paesi europei ed occidentali. Un punto importante per la definizione degli studi accademici è essenzialmente la fine del Secondo conflitto mondiale e la conseguente perdita delle colonie, dato che esisteva, e si protrarrà ancora per più di un decennio, una storiografia coloniale basata solamente sui racconti dei funzionari presenti in Africa e su ciò che era stato scritto durante il fascismo. Una concezione eurocentrica della questione rimarrà anche durante gli anni sessanta, attraverso figure come quella di Carlo Giglio, mentre negli anni settanta, con una nuova leva di storici come Giampaolo Calchi Novati e Angelo Del Boca, si comincerà a trattare di Africa e del passato coloniale partendo da un punto di vista diverso, più vicino alle popolazioni indigene rispetto al passato, analizzando criticamente il colonialismo italiano ed europeo.

Successivamente, il saggio cerca di analizzare attraverso due esempi concreti la decolonizzazione africana. La guerra d’Algeria rappresenta la presa di coscienza di un popolo che vuole staccarsi definitivamente dalla madrepatria europea, attraverso l’uso della forza, dato che non gli viene riconosciuto l’autogoverno da parte dei francesi. Nei 132 anni di colonialismo, la popolazione algerina è sempre stata tenuta in subordine rispetto ai coloni d’oltralpe, ha subito espropri delle terre più fertili e non era mai stata inclusa nell’amministrazione del paese. Durante questi decenni si formò un movimento nazionalistico che, progressivamente, arriverà a formare il FLN che, il 1 Novembre 1954, darà il via all’insurrezione armata che si concluderà solamente otto anni più tardi, con conseguenze marcate per il futuro dell’Algeria e della Francia stessa, basti pensare al cambio di regime repubblicano, dal

4

(8)

parlamentare al semipresidenziale. Interessante è anche constatare l’interesse italiano per questo conflitto, dato che la Francia era un partner importante nella costruzione dell’Europa unita e dell’alleanza occidentale, e l’interesse suscitato nella stampa, in particolar modo ne «L’Unità», organo del Partito Comunista Italiano, che, con un punto di vista nettamente anticolonialista ed antimperialista, segue con attenzione le vicende franco-algerine.

Infine, nella terza ed ultima parte, la ricerca si sofferma sulla «lunga e complessa vertenza intorno alle ex colonie italiane in Africa – alla questione, cioè, della sistemazione da dare alla Libia, all’Eritrea e alla Somalia – che ha rappresentato un momento importante nella storia della decolonizzazione africana»5. La questione delle ex colonie italiane sarà al centro del dibattito internazionale per molti anni, dati i problemi che sorgono tra le quattro potenze con l’inizio della Guerra Fredda e con le diverse vedute anche tra gli alleati occidentali, durante le varie conferenze del dopoguerra, fino alle audizioni dell’Assemblea generale. Adattandosi a ciò che verrà adottato in sede internazionale, dato che non fa ancora parte di nessuna organizzazione sovranazionale, l’Italia si troverà di fronte ad un bivio: continuare a richiedere indietro le colonie ed adottare una politica che stava arrivando alla sua conclusione, oppure cercare un nuovo tipo di approccio nei confronti delle popolazioni africane. La politica italiana dal 1945 al 1949, si troverà di fronte a questo problema e, se in un primo tempo sarà compatta nel richiedere i possedimenti italiani secondo le nuove norme internazionali, dal 1947, con l’uscita dai governi di unità nazionale di socialisti e comunisti, i vari esecutivi se la dovranno vedere anche con un’opposizione interna alle manovre effettuate dai ministri preposti in sede sovranazionale. L’Italia, con la sentenza dell’Assemblea generale dell’ONU, avrà solamente l’opportunità di consolidare e stabilizzare la sua vecchia colonia somala, tramite un mandato internazionale decennale, per portarla all’indipendenza nel 1960.

5

(9)

CAPITOLO 1

LA STORIOGRAFIA DELLA DECOLONIZZAZIONE

A metà del Novecento, in concomitanza alla decolonizzazione africana, la storiografia europea ha ripensato e posto al centro del dibattito storiografico l’approccio metodologico degli studi di storia africana. Un grande storico dell’Africa come Basil Davidson, ci dice come questo movimento di liberazione dei continenti dalla dominazione europea sia riuscito a cambiare anche l’insegnamento e gli studi storici nelle università dei vari paesi europei. Dagli anni cinquanta iniziarono le prime esperienze dirette degli storici con la popolazione locale, che permisero di approfondire gli studi sull’Africa precoloniale. Più in generale, nel dopoguerra si assiste alla proliferazione di studi extraeuropei: l’indipendenza dell’Indocina francese e la Conferenza di Bandung attirarono le attenzioni degli studiosi occidentali, permettendo l’avvio di una nuova corrente che si proponeva di ribaltare il vecchio modo di scrivere la vecchia storiografia coloniale.

Traspaiono all’interno dell’intero panorama storiografico sulla decolonizzazione visioni diverse e, in alcuni casi, discordanti: se da una parte si considera una volontà tutta europea di chiudere con il passato coloniale, dall’altra si attribuisce un ruolo determinante alle popolazioni indigene nel voler superare la condizione di colonizzati ed emancipare la propria “civiltà” al pari delle altre. Altri studi si concentrano invece sugli aspetti economici e politici delle nuove e travagliate entità statali sorte alla fine dei processi di decolonizzazione. Interessanti sono anche gli studi definiti “postcoloniali”, che cercarono in modo del tutto originale un nuovo approccio alla disciplina; ma anche gli studi psichiatrici, come ad esempio quelli di Frantz Fanon, e il contributo, seppur ridotto, degli studi storici italiani sull’argomento.

1.1 La storiografia in Africa: fenomeno eurocentrico o lotta di liberazione ?

Per chi si avvicina agli studi sulla decolonizzazione africana si pone il problema di ricalibrare le questioni poste dalla storiografia precedente, soprattutto quella che vuole assolutizzare le cause del fenomeno storico sopracitato1. Gary

1

(10)

Thorn, che nella parte introduttiva del suo End of Empire: European decolonisation

1919-1980, riprende i vari studi effettuati sull’argomento, finisce per riscontrare tre

principali modelli di studio. Il primo è quello eurocentrico, che considera la volontà delle potenze coloniali europee come motore della progressiva liberazione dei vecchi stati coloniali dalle sue maglie politiche: la fine dell’impero portoghese in Africa è rimandabile, ad esempio, a problemi economici e politici interni allo stato metropolitano e ciò ha comportato la necessità di disgregare l’assetto politico esistente. Il secondo, ritenendo l’assetto politico internazionale bipolare, scaturito dal secondo conflitto mondiale, l’evento centrale del Novecento ha tentato di spiegare i moti d’indipendenza come eventi strettamente legati a questo nodo: l’ideologia delle nuove superpotenze mal si sposava con l’assetto coloniale di stampo europeo. Il terzo ed ultimo modello, in contrasto con i due precedenti, vede nel nazionalismo asiatico e africano l’incipit al gran numero di richieste d’indipendenza e lotte per la liberazione. Thorn aggiunge che era molto popolare tra gli storici degli anni sessanta guardare con simpatia ed interesse al nazionalismo sorto nelle ex colonie e ai leader di quei paesi.

Tra gli assertori della prima visione spicca la figura di Carlo Giglio che, attribuendo all’Africa e all’Asia “storie raccapriccianti”, considera benefica la colonizzazione di quei luoghi da parte europea, che ha portato ordine, amministrazione, libertà personale dove esistevano caos, schiavitù e guerre tribali; aggiungendo inoltre che ciò ha avuto luogo grazie anche all’appoggio di una parte della popolazione autoctona. Lo storico italiano critica quanto “gli indipendentisti siano irriconoscenti verso gli europei che hanno portato così tante migliorie alla loro terra” 2, vede il colonialismo come una fase positiva per le popolazioni africane, per il loro sviluppo e per il loro avvenire. La decolonizzazione, per Giglio, è il frutto naturale della stessa azione colonizzatrice: il fatto che Gran Bretagna e Francia, già alla fine della prima guerra mondiale, stessero ripensando le modalità di gestione politica ed economica delle colonie, dando vita alla forma giuridica del mandato3, evidenzia, secondo lo studioso, quanto le potenze colonizzatrici fossero consapevoli della temporalità del sistema politico imperiale sorto nell’Ottocento. Il periodo tra le

2

Carlo Giglio, Colonizzazione e decolonizzazione, Mangiarotti editore, Cremona 1964, pp. 229-233.

3

Istituto creato dalla Società delle Nazioni per regolare, dopo la prima guerra mondiale, la sorte di alcuni territori già dipendenti dalla Germania e dal disciolto Impero Ottomano: quei territori vennero affidati ad alcune potenze vincitrici che si impegnarono a governarli secondo il principio che “il benessere e lo sviluppo di tali popoli costituivano una missione sacra di civiltà”.

(11)

due guerre, sottolinea Giglio, è centrale per la comprensione di quello che successe nelle colonie subito dopo la Seconda Guerra Mondiale. Le élite, dei successivi stati indipendenti, si erano infatti formate nelle scuole europee o presso gli ordini religiosi nelle colonie, finendo poi a frequentare le università francesi ed inglesi, dove impararono nozioni e principi come nazionalismo, indipendenza e rappresentanza politica, concetti largamente usati durante la lotta per l’indipendenza. Giglio considera tutto ciò un errore delle potenze coloniali, poiché queste nuove élite divennero il primo nucleo di rivoluzionari e nemici della potenza coloniale.

Bernard Droz, storico eurocentrico, attraverso l’analisi del passato coloniale e degli “errori” dell’imperialismo europeo presenta come cause basilari della formazione di un’identità nazionale indigena la pacificazione coloniale e la promozione al potere dell’élite. Per lo studioso francese, “nell’affermazione dei nazionalismi, i mutamenti delle società coloniali rivestirono un ruolo cruciale. La prima trasformazione avvenne grazie all’esplosione demografica…effetto della pacificazione e del regresso delle carestie, ma soprattutto dell’istituzione di un sistema sanitario…Le trasformazioni economiche prodotte dalla colonizzazione furono altrettanto importanti, poiché il dualismo iniziale tra un’economia di speculazione e un’economia indigena di sopravvivenza cedette il passo a un’interpretazione parzialmente realizzata attraverso una serie di adattamenti. Il boom coloniale degli anni venti favorì la rapida crescita del mondo occidentale…moltiplicandone tuttavia gli effetti perversi nei confronti dei popoli colonizzati” 4.

Lo studio approfondito di Dietmar Rothermund, invece, denota come le caratteristiche occidentali imposte dagli stati europei alle colonie siano rimaste inalterate nonostante l’indipendenza. Gli aspetti presi in considerazione dallo studioso inglese riguardano: i confini delle nuove nazioni disegnati dagli europei a seconda dei propri interessi politici ed economici e mai modificati; le nuove istituzioni e costituzioni degli ex possedimenti che riprendono fedelmente le strutture degli stati del vecchio continente; e lo stallo del sistema amministrativo e giudiziario, a causa delle mancate riforme e delle difficoltà di avvicendamento dei dipendenti pubblici5.

4

Bernard Droz, Storia della decolonizzazione nel XX secolo, Mondadori, Milano 2010, pp. 16-25.

5

Dietmar Rothermund, Delhi 15 Agosto 1947: la fine del colonialismo, Il Mulino, Bologna 2000, pp. 227-231.

(12)

Molto spazio all'influenza dell'Europa sulla formazione dell'anticolonialismo moderno ha dedicato G. Borsa, che ha introdotto nella storiografia italiana l'espressione rivoluzione copernicana per indicare la fine dell'eurocentrismo come metodo di interpretazione delle relazioni fra Europa e mondo colonizzato. Debitore dell'illuminismo liberale, Borsa ritiene che sia stato l'impatto coloniale a scuotere le società africane da uno stato virtualmente statico, rendendo possibile il ricorso ai propri valori e alle proprie energie per pervenire alla modernizzazione e all’indipendenza. Non riduce la rivolta anticoloniale solo al nazionalismo ma ad un aspetto rivoluzionario che porta alla formazione del mondo moderno anche al di fuori dell’Occidente6.

L’indagine di R.F. Holland si concentra sulle difficoltà degli imperi coloniali nella prima metà del Novecento, che sorte sul finire della Prima Guerra Mondiale, si aggravano durante la Seconda, segnando la fine del predominio politico internazionale degli stati europei. A metà degli anni cinquanta il nuovo assetto politico, con l’inizio della Guerra Fredda, congiunto alla crisi economica, dovuta alla riconversione dell’economia di guerra, portò allo squilibrio tra gli interessi coloniali europei e il resto del mondo, sfociando nel processo di decolonizzazione7.

In mezzo ai sostenitori della seconda concezione si segnala la teoria dell’accademico Rudolf Von Albertini, che reputa essenziale la Seconda Guerra Mondiale e l’assetto internazionale che ne è derivato per l’avvio del processo di decolonizzazione. In aggiunta a quanto già detto da Rothermund, lo studioso sottolinea come la guerra per l’egemonia europea venne interpretata dalle popolazioni indigene come un segnale di debolezza degli stati coloniali, provocando la nascita o la maturazione dei movimenti di opposizione nelle colonie. Causa di ciò fu che,“a differenza della prima guerra mondiale, in cui, anche se fu sconfitta addirittura una potenza coloniale, la Germania, i più caratteristici rappresentanti del colonialismo, l’Inghilterra e la Francia, si presentarono come vincitori militarmente e politicamente, potendo così affermare la loro forza nonostante la perdita di prestigio,

6

Giorgio Borsa, La nascita del mondo moderno in Asia Occidentale, Rizzoli, Milano 1977, pp. 150-152.

7

R.F. Holland, European decolonization, 1918-1981: an introduction survey, MacMillan, London 1985, pp. 300-302.

(13)

la seconda guerra mondiale portò una inattesa quanto completa sconfitta militare proprio di queste potenze, di cui alcune spettacolari proprio nei territori coloniali” 8.

Tra i sostenitori del terzo modello si pone Jean Chesneaux, che critica profondamente il termine “decolonizzazione”, poiché lo considera un esplicito riferimento alle decisioni assunte dalla madrepatria. La tesi sostenuta dal suddetto storico imputa la trasformazione del rapporto tra lo stato metropolitano e le colonie solamente alla lotta di liberazione e alla promozione dell’unità nazionale dei vari movimenti nazionali. “La trasformazione del rapporto di preponderanza tra la metropoli e colonie è dunque all’attivo del movimento nazionale, e deve essere definita in termini asiocentrici, ma che possono valere anche per l’Africa, in particolare per gli stati nordafricani, in una prospettiva, cioè, che offre il vantaggio di mostrare in tutta la sua complessità il movimento nazionale stesso, in seno al quale la lotta di liberazione contro l’Occidente non è che un aspetto tra gli altri: il movimento infatti aspira anche a promuovere l’unità nazionale, e definirlo soltanto in rapporto all’Occidente significa sminuirlo” 9.

Accanto a Chesneaux, Guy de Bosschère pone il decolonizzato come il solo e principale artefice della decolonizzazione, poiché il colonizzatore tenendo in considerazione la creazione di movimenti nazionali ha due scelte: opporsi con la forza al cambiamento, come accaduto in Algeria o accettando la fine del proprio dominio sugli altri popoli. “Nella migliore delle ipotesi, egli accetterà l’idea della decolonizzazione quando appare inevitabile e collaborerà più o meno di buon grado al suo avvento. Nella peggiore, vi si opporrà, e alla fine verrà travolto”10. Un concetto molto interessante che ritroviamo in de Bosschère è la distinzione tra i significati di indipendenza e decolonizzazione dato che, citando alcuni esempi concreti riguardanti paesi latino-americani, “l’indipendenza non può, in alcun caso, coincidere con la decolonizzazione, né identificarsi con essa. Nella migliore delle ipotesi l’indipendenza corrisponde alla prima fase della decolonizzazione: la più appariscente, ma la meno profonda”11.

Giampaolo Calchi Novati, noto africanista italiano, si concentra sulla decolonizzazione non solo come fenomeno d’indipendenze nazionali, ma come forza

8

Rudolf Von Albertini, La decolonizzazione: il dibattito sull’amministrazione e l’avvenire delle colonie tra il 1919 e il 1960, SEI, Torino 1971, pp. 70-73.

9

Jean Chesneaux, L’Asia nella storia di domani, Laterza, Bari 1967, pp. 276-277.

10

Guy de Bosschère, Storia della decolonizzazione, Feltrinelli, Milano 1973, pp. 12-13.

11

(14)

catalizzatrice di trasformazioni sociali interne ai nuovi stati, grazie al nazionalismo che è fatto proprio dai movimenti di liberazione e di rivolgimenti nella politica internazionale: basti pensare, ad esempio, al numero di paesi membri dell’ONU che dagli anni sessanta vede la preminenza dei paesi “terzomondisti”12.

Dopo aver delineato i vari modelli a cui gli storici si sono ispirati, possiamo dedurre che esistono delle connessioni fra la realtà creata nel passato dalla colonizzazione e i fattori che hanno portato alla sua fine e all’indipendenza dei paesi africani. A favore di questa tesi abbiamo citato molti storici che hanno una visione completamente diversa tra loro, ma sono riusciti ad accertare che gli avvenimenti negli ex possedimenti coloniali, tra gli anni cinquanta e sessanta, sono dovuti a ciò che gli europei hanno fatto durante l’età imperiale fino alla Seconda Guerra Mondiale. Ciò che viene affermato è che il processo storico è un’unitaria continuità di svolgimento.

1.2 La storiografia e i problemi dei nuovi stati sorti in Africa

Si è aperto negli anni sessanta il dibattito sulla natura dello stato postcoloniale in Africa, sugli aspetti giuridici ed ideologici che lo caratterizzano e lo differenziano rispetto allo stato moderno occidentale. Verranno presi in considerazione gli aspetti istituzionali e le varie politiche che sono state portate avanti nei primi anni d’indipendenza. Successivamente si cercherà di comprendere i problemi economici che affliggono le nuove entità statali, prendendo in considerazione anche il passato coloniale e il ruolo “occulto” che viene giocato dall’Occidente attraverso una nuova forma di colonialismo.

1.2.1 Caratteristiche politiche e problemi dello stato-nazione africano

Gli studi storici sui nuovi stati africani prendono in considerazione molteplici aspetti politici. Il graduale processo di accentramento che si è compiuto nei primi anni dopo l’indipendenza, a causa del lascito europeo di centralizzazione amministrativa del potere coloniale, ha portato al rafforzamento dell’esecutivo, con lo svuotamento di funzioni delle assemblee legislative, e al partito unico al potere, dato che lo stato è il mezzo necessario, secondo le élite africane, per realizzare il

12

(15)

sogno nazionale ed eliminare le divergenze etniche e tribali che esistono all’interno del paese. É qui che si situa la relazione privilegiata tra amministrazione e partito unico13. I grandi partiti politici africani sono sorti nel secondo dopoguerra sulla base di formazioni politiche e movimenti culturali preesistenti, rifacendosi alle battaglie delle vecchie entità pre-coloniali contro gli invasori europei.

Yvés Benot parte dal presupposto che la logica propria del movimento nazionale in Africa, anche prima dell’indipendenza, esigeva un’organizzazione politica unificata, capace di dare un senso alle aspirazioni nazionali nel loro insieme e di opporre al potere coloniale la forza di pressione di un intero paese. Ovunque il partito unico rappresenta l’unità della nuova nazione contro le forze di disgregazione rappresentate da organizzazioni politiche su base tribale o regionale14. Gli studiosi ne distinguono tre tipi: partiti a carattere elistico, caratteristici delle città più evolute della costa occidentale ove è presente una classe indigena di professionisti e commercianti legata all’economia di esportazione e culturalmente influenzata dal liberalismo europeo; partiti pragmatico-pluralisti, come ad esempio il Partito democratico della Costa d’Avorio di Felix Houphoüet-Boigny e il partito nazionalista del Camerun Upc, Union des Peuples du Camerun, i quali riescono a consolidare dietro di sé diversi gruppi, tribali e sociali, su programmi di moderato progresso verso forme di autogoverno, nel rispetto della collaborazione di fondo con la politica metropolitana e dei rapporti di interesse clientelari interni. Infine, partiti di massa rivoluzionari, che si legano alle istanze portate avanti dai proletari e dalle masse contadine, non cercando una sponda con gli strati borghesi legati alle strutture di potere tradizionali15.

Vari studi, sulla base delle esperienze di gestione del potere dopo l’indipendenza, hanno fornito alcuni elementi di critica ai sistemi di partito africani, constatando il fallimento del pluripartitismo e dei regimi monopartitici, che ha così portato al rafforzamento dell’amministrazione statale rispetto alle istituzioni politiche. Ahmed Mahiou delinea il meccanismo di evoluzione verso il partito unico in Africa, specificando le ragioni e i fattori che portano a tale evoluzione politica, tentando di rilevarne le cause, la loro struttura organizzativa e le ideologie su cui si

13

Anna Maria Gentili, Africa come storia: Elementi del dibattito sulla natura della transizione nelle società e nei sistemi africani, Franco Angeli editore, Milano 1980, pp. 143-144.

14

Yvés Benot, Ideologie dell’indipendenza africana, Editori riuniti, Roma 1976, p. 362.

15

(16)

basano. Lo studioso algerino vede il partito unico africano come una via di mezzo tra il partito unico presente nel blocco socialista e quelli presenti negli stati pluralisti, simile al partito autoritario creato in Turchia da Ataturk nel 1923. Le cause della nascita del partito unico, secondo Mahiou, sono essenzialmente due: la necessità sociale di creare un carattere comunitario all’interno del nuovo stato e la volontà di creare una vera nazione che si discosti sempre di più dal passato coloniale. Lo studioso algerino completa la sua analisi sul divenire del partito unico, che rischia di diventare uno strumento nelle mani delle élite che si sono poste al vertice della vita politica del paese, utilizzandolo per preservare ed aumentare i privilegi economici che gli procurano i posti dirigenziali che occupano all’interno dell’amministrazione dello stato16.

I problemi del partito unico al potere provocano eventi traumatici all’interno della struttura di potere, portando al colpo di stato militare in molte realtà africane. Una tesi portata avanti da Calchi Novati propone il colpo di stato militare come la soluzione inevitabile all’immobilismo politico dei nazionalisti africani, confermato dal fallimento dei programmi da loro esposti al momento dell’indipendenza nazionale17.

Contrastanti opinioni dividono gli studiosi: c’è chi ha voluto vedere nell’intervento militare uno slancio per la modernizzazione e coesione sociale delle nazioni africane e chi, invece, lo trova come un ritorno alle tradizioni tribali ed etniche dell’era precoloniale. Le caratteristiche prese in considerazione dagli storici per cogliere al meglio le prese di potere degli eserciti vanno dalla composizione etnica delle forze armate alla loro forza, fino allo studio della crisi economico-sociale che attraversa i vari stati africani. Un passaggio importante nello studio storico di questi avvenimenti riguarda il rapporto tra lo stato e le forze armate, visto che l’intervento delle truppe ha il compito di spoliticizzare le istituzioni e metterle al di sopra delle parti. Nella realtà, però, l’esercito cerca sponda in alcuni settori della

16

Ahmed Mahiou, L’avènement du parti unique en Afrique noire. L’expérience des États d’expression française, coll.«Bibliothèque africaine et malgache. Droit et sociologie», Libraire générale de droit et de jurisprudence, Parigi 1969, pp. 374-375.

17

(17)

società civile che possono essere d’aiuto nel ribaltare le strutture di potere nazionali, in particolar modo quelle etnicamente più vicine ai militari18.

Gli storiografi considerano i colpi di stato del primo periodo, alla metà degli anni sessanta, restauratori dell’ordine neocoloniale, messo in pericolo dalle politiche dei governi civili, visti i rapporti stretti tra i vertici militari africani e quelli delle ex metropoli. L’avvento delle forze armate porta alla restaurazione istituzionale e politica di forme di governo simili all’amministrazione coloniale europea, privilegiando i rapporti con le élite tradizionali e l’uso della forza. La presa di potere dei militari, a cavallo tra gli anni sessanta e settanta, viene definita progressista, per le vedute di ampio respiro dei più giovani ufficiali, in alcuni casi fautori del socialismo, che capiscono il malessere popolare nei confronti della pessima gestione politica monopartitica dello stato da parte della classe dirigente che ha condotto la nazione all’indipendenza. Jacques Giri, storico francese, mostra come negli anni settanta soltanto pochi paesi sfuggano all’azione dei militari che, nella maggior parte dei casi, gestiscono direttamente il potere, con la creazione di comitati di salute pubblica, oppure lo dividono con le élite nazionali, messe al potere dall’esercito per controllare indirettamente le istituzioni19.

Il socialismo africano è un tema centrale all’interno dello studio storico sulle ex colonie e viene descritto come un fenomeno politico originale a causa della mancanza di un capitalismo locale, soffocato da quello straniero, che sfrutta una parte della popolazione per arricchirsi20. Due studiosi francesi, Albert Mabileau e Dimitri Lavroff, sottolineano come il socialismo africano adatti i grandi temi classici alla realtà del continente, creando così una nuova ideologia che si mischia con i valori tradizionali, tra cui la religione che è considerata un sostegno fondamentale al socialismo21.

Yvés Benot critica aspramente il socialismo africano, colpevole di giustificare la situazione neocoloniale sul continente, di sfruttare i contadini per produrre materie

18

Nella maggior parte dei casi, in Africa, i militari venivano reclutati in una sola regione e quindi l’apparato militare non può essere immune dalla politicizzazione delle differenze etniche e lotte fra élite.

19

Jacques Giri, L’Africa alla fine del XX secolo: la decolonizzazione imperfetta, Paravia, Torino 1998, p. 106.

20

Calchi Novati, Le rivoluzioni nell’Africa Nera, cit., p. 141.

21

Dimitri Lavroff e Albert Mabileau, L’Afrique noire contemporaine, Colin, Parigi 1968, pp. 364-366.

(18)

prime da immettere nel mercato capitalistico e di utilizzare la dottrina socialista senza un retroterra ideologico adeguato22.

Gli studiosi, inoltre, sottolineano come la strategia principale del socialismo africano sia un monopolio esclusivo della classe dirigente al potere, incarnata dal leader carismatico, che impone le proprie decisioni dall’alto senza mediazioni o confronti. In pratica i modelli di socialismo, di stampo sovietico, vengono accettati totalmente, comprese le nazionalizzazioni economiche e il rafforzamento dell’apparato centrale dello stato. La statalizzazione non viene accompagnata dal coinvolgimento popolare nel processo di organizzazione della produzione poiché, secondo alcune analisi economico-politiche, non c’è stato nessun mutamento produttivo e si è solo pensato al rafforzamento dello stato centrale. Il socialismo rimane un’ideologia di vertice, una pedagogia che si deve diffondere con l’educazione, con l’esempio e con la forza a popolazioni che devono imparare ad apprezzarne i benefici e a cui si chiedono pesanti sacrifici nel presente. Da qui proviene il forte accento moralistico dei socialismi africani23.

Il problema sociale degli stati indipendenti africani è stato molto dibattuto tra gli storici negli ultimi decenni, viste le varie teorie che si sono susseguite dagli anni cinquanta in avanti. Gli studi di scienza politica funzionalisti o comportamentisti, che hanno prevalso nella ricerca sui sistemi politici africani negli anni cinquanta e sessanta, hanno usato come oggetto di analisi le élite tradizionali e individuato quei fattori, soprattutto l’istruzione, che hanno permesso l’emergere di classi dirigenti e ne hanno determinato le caratteristiche.

Gli studiosi marxisti si sono trovati davanti alla difficoltà di individuare le classi sociali, in una situazione in cui era esigua la presenza di lavoro salariato ed inesistente la borghesia industriale dal momento che la maggior parte della popolazione era impiegata nel settore agricolo. Negli anni settanta, una serie di studi empirici ha riaffrontato il problema attraverso la ricerca delle trasformazioni nella società, come conseguenza del cambiamento nei rapporti di produzione e delle mutate dinamiche sociali. Oltre a ciò, vengono effettuati studi minuziosi sull’effetto della penetrazione coloniale e le modalità di dominio europeo sulla formazione delle classi sociali africane e sul loro sviluppo futuro24.

22

Benot, Ideologie dell’indipendenza Africana, cit., p. 210.

23

Gentili, Africa come storia, cit., p. 190.

24

(19)

Avendo toccato i principali temi sulle problematiche politiche degli stati africani, non possiamo esimerci dal riconoscere anche in questo caso una continuità temporale tra il colonialismo e la decolonizzazione. Se questi stati hanno avuto problemi drammatici al loro interno, ciò è dovuto a come era stato distribuito e mantenuto il potere coloniale, da parte degli stati europei, durante l’imperialismo. Ciò si è perpetrato, in seguito, attraverso la manomissione della situazione politica interna degli stati africani, grazie all’appoggio delle vecchie élite civili e militari e del capitalismo internazionale.

1.2.2 Lo studio economico dei paesi di nuova indipendenza

Molti studiosi, europei e non, hanno indagato i problemi economici dei paesi di nuova indipendenza, cercando una spiegazione al sottosviluppo in determinate aree del mondo. Uno studio approfondito non è completo se non si analizza la struttura economica coloniale europea e l’eredità che ha lasciato ai nuovi stati indipendenti, rendendoli, con alcune eccezioni, economicamente e finanziariamente deboli rispetto ai paesi degli altri continenti. Un punto importante da dove far partire l’analisi riguarda il controllo governativo europeo, da cui iniziavano i vari modellamenti della vita economica nelle colonie, che andavano in due direzioni: i rapporti tra la colonia e il resto del mondo, attraverso le tariffe e la politica monetaria, e i rapporti interni su problemi quali l’uso del terreno, l’uso del fattore lavoro e l’intervento governativo negli affari economici25. Importanti erano le politiche interne dei vari governi coloniali, poiché erano loro a prendere le decisioni più importanti che portavano a cambiamenti nel sistema economico-fiscale nazionale.

Lo storico David K. Fieldhouse ha indagato sull’amministrazione coloniale, prendendo ad esempio il sistema britannico, francese e belga e arrivando alla conclusione che i freni alle politiche economiche interne sono da ricercare nelle misure finanziarie, basate solamente su elementari parametri fiscali e sull’investimento pubblico nella costruzione di infrastrutture. L’unico settore in cui si perseguì una politica attiva fu l’agricoltura, dal momento che forniva gran parte delle esportazioni consentendo le importazioni, sulle quali si potevano imporre i diritti

25

David K. Fieldhouse, Politica ed economica del colonialismo 1870-1945, Laterza, Roma-Bari 1995, pp. 123-124.

(20)

doganali, i cui proventi sostenevano il costo dell’amministrazione. Successivamente, lo studioso cerca di contestualizzare l’agricoltura attraverso l’analisi dei vantaggi e degli svantaggi del sistema delle piantagioni, del ruolo dei contadini e della scelta tra la coltura d’esportazione e l’agricoltura di sussistenza, e l’industria nelle colonie attraverso gli esempi dell’India britannica, del Congo Belga e dell’Africa occidentale francese. In quest’ultimo caso, le tre analisi sui possedimenti coloniali portano l’autore a dimostrare che il fenomeno è da attribuirsi al fatto che pochissime società extraeuropee possedevano la mentalità, le capacità e i capitali necessari per avviare da sole un processo di industrializzazione. Al contrario, la produzione industriale venne ignorata: lo stato non incoraggiò attivamente gli imprenditori indigeni a investire nella produzione di manufatti industriali locali e non forniva finanziamenti a medio o lungo termine per assistere i potenziali capitalisti. L’impero non fu di per sé la causa della modesta crescita dell’industria che si verificò, ma fino agli ultimi decenni dell’epoca coloniale le autorità imperiali accettarono troppo facilmente la tesi che l’industria fosse il prodotto di circostanze naturali che non bisognava forzare26. Fieldhouse, partendo da questa analisi, vede una divisione nella storiografia, tra chi reputa che le colonie siano divenute dei semplici satelliti del capitalismo internazionale, sfruttandole per le loro materie prime, e chi ritiene il colonialismo un metodo potenzialmente valido per assistere le società precapitalistiche a compiere i primi passi per accedere allo sviluppo, anche se i risultati concreti del periodo coloniale furono deludenti27.

Uno studio importante sull’economia dei paesi terzomondisti è il saggio Lo

sviluppo ineguale: saggio sulle formazioni sociali del capitalismo periferico di Samir

Amin, noto economista marxista egiziano, in cui si indagano le conseguenze dell’azione economica dei governi indipendenti, come ripercussioni della politica coloniale europea28. Il primo punto analizzato è il predominio del capitalismo agrario, generato dallo scontro tra il latifondo capitalistico e la comunità contadina, per far integrare il settore primario all’interno del mercato mondiale. La predominanza del capitalismo agrario, non avendo sfogo nell’industrializzazione, trova il suo sbocco naturale nell’espulsione di manodopera dal settore agricolo, 26 Ibid., p. 191. 27 Ibid., p. 156. 28

Samir Amin, Lo sviluppo ineguale: saggio sulle formazioni sociali del capitalismo periferico, Einaudi, Torino 1977, p. 359.

(21)

comportando l’aumento dei contadini senza terra che si spostano verso le città, nonostante i pochi lavori presenti nei vari centri urbani africani per la popolazione indigena29. Successivamente, Amin tratta il capitalismo commerciale associato all’agricoltura d’esportazione, portato avanti da una borghesia urbana che si è formata molto lentamente a causa degli ostacoli posti dal processo di colonizzazione europeo e dalla poca capacità di sviluppo dei commercianti tradizionali, per i pochi mezzi finanziari a disposizione e per la concorrenza dei grandi monopoli commerciali istituiti dalle colonie all’inizio del XX secolo. Inoltre, ciò è stato accentuato dall’assenza di una ricca aristocrazia fondiaria, che avrebbe potuto fondersi con la borghesia commerciale, accelerando il ritmo di accumulazione di beni, e dalla ristrettezza dei mercati africani, che diminuirà con l’accesso all’indipendenza. La fioritura di una borghesia nazionale è stata favorita dall’appoggio del potere politico locale e dallo spostamento di interessi del capitale straniero verso il grande complesso industriale o minerario e non più del settore commerciale. La borghesia nazionale non avendo i mezzi per imporsi sul mercato nazionale ed internazionale, continua ad avere legami con il capitale straniero, lasciando interi settori nelle mani degli occidentali. In altre parole, è la borghesia africana ad avere e richiedere un ruolo nel processo produttivo, diventando borghesia di stato che si appropria di un surplus generato dalle forze produttive del paese mediante il controllo statale dell’economia, rimanendo dipendente dalle forze capitaliste occidentali. Un altro aspetto da non sottovalutare è il ruolo giocato dalle burocrazie nazionali, che, avvicinandosi e uniformandosi alla borghesia privata, avviano un processo di sviluppo economico statale. Ciò comporta la marginalizzazione delle classi sociali più deboli, a causa dell’ineguaglianza nella distribuzione del reddito, che aumenterà con il passare del tempo, visto che la classe dirigente dei paesi africani ha il solo problema di rimanere al potere, garantitogli dalle concessioni fatte alle multinazionali occidentali che ricoprono d’oro i governi nazionali30.

Pure Giovanni Arrighi, noto sociologo italiano, cerca di mostrare le dinamiche dello sviluppo economico africano, cogliendo l’essenza del sottosviluppo e provando ad individuare gli aspetti di una strategia di rilancio economico e politico del continente. Tenta di identificare i fattori che concorrono a determinare la realtà

29

Ibid., pp. 360-365.

30

(22)

dell’Africa contemporanea e a quali forze va attribuita la dinamica dello sviluppo squilibrato e, come processo di natura continentale, presuppone un’attenta valutazione della struttura degli interessi del capitalismo occidentale in Africa. Ciò suggerisce due ipotesi di importanza cruciale: a causa della più diretta presenza delle grandi società multinazionali, in quel poco d’industrializzazione che ha luogo nelle periferie, si è assistito a un’espansione degli interessi capitalistici occidentali nel mondo sottosviluppato; secondariamente, i fattori che determinano la spinta all’esportazione di capitale dai centri capitalistici avanzati hanno essi stessi subito una vistosa trasformazione sotto la spinta della rivoluzione tecnologica postbellica. La combinazione di questi due nuovi aspetti dello sviluppo capitalistico su scala mondiale ha finito con il determinare una vera e propria «seconda fase» del predominio capitalistico31. Il capitalismo straniero, secondo Arrighi, vorrà garantire la continuazione del flusso di profitti e pagamenti, di diversa natura, e di orientare quel tanto di industrializzazione che può aver luogo in Africa, in modo tale da far dipendere il tutto dai centri capitalistici industriali degli stati occidentali, interagendo con i loro interessi nazionali. Da qui hanno inizio i rapporti neocoloniali, come ad esempio le ex colonie francesi che hanno rapporti con la Francia attraverso i meccanismi della zona franca e gli accordi stipulati nel Mercato Comune, ed anche la Gran Bretagna e il Belgio hanno salvato i propri privilegi sui vecchi possedimenti nonostante il processo di decolonizzazione. Arrighi nota come il poco mutamento che ha interessato la natura della presenza capitalistica nel continente ha avuto l’effetto di accrescere la dipendenza strutturale delle economie dell’Africa indipendente dai centri capitalistici avanzati. Questa presenza è caratterizzata dall’impiego di tecniche produttive ad alta intensità di capitale e da bassi tassi di reinvestimento del surplus generato, specialmente nel settore dei beni strumentali e, l’accelerazione della crescita economica finisce con il dare luogo in poco tempo a carenze di valuta estera, che lasciano i paesi africani alla mercé di una prevedibile gamma di pressioni politiche, inducendo quasi sempre a soggiacere alla tentazione di compromessi economici con governi e investitori privati stranieri32.

La struttura sociopolitica interna degli stati africani è direttamente legata a queste tendenze, vista l’inesistenza e il lento formarsi di un proletariato classico, che in Africa tende a polarizzarsi in uno strato più basso, che trova un po’ di benessere

31

Giovanni Arrighi, Sviluppo economico e sovrastrutture in Africa, Einaudi, Torino 1969, p. 282.

32

(23)

grazie ad attività svolte al di fuori delle attività lavorative, che Arrighi inserisce nel mondo contadino, e uno più alto, che percepisce redditi abbastanza elevati da giustificare la rottura con le campagne. Le contraddizioni di classe in Africa sono meno drammatiche rispetto a molte altre regioni del mondo e sono mascherate da componenti razziali, etniche e nazionalistiche, che ostacolano lo sviluppo di condizioni soggettive propizie alla realizzazione di mutamenti radicali. Un aiuto ad uscire da questo sottosviluppo, aggiunge Arrighi, potrebbe e dovrebbe arrivare dagli intellettuali e da disciplinati movimenti politici che potrebbero spingere verso un cambiamento radicale della situazione sociale nei vari paesi africani. In buona parte dell’Africa indipendente la necessità storica oggi predominante è quella di una lotta ad oltranza contro i regimi che su di essa incombono, per quanto difficile possa essere il compito33. Per il sociologo italiano, le problematiche economiche dei paesi africani di nuova indipendenza sono dovute alla conquista e spartizione europea di fine Ottocento, che ha creato una cesura traumatica nella sfera culturale, sociale e politica. Tutto ciò viene accentuato dal prolungamento della soggezione occidentale nei confronti degli africani, a causa dell’apertura dell’economia al capitalismo internazionale e alla compiacenza dei governi e delle élite nazionali. Il continuo interferire da parte degli occidentali nella preparazione economica e nello sviluppo dei paesi africani ha portato quest’ultimi in una situazione generale di sottosviluppo, che porta il capitalismo occidentale ad arricchirsi sfruttando le materie prime del continente, lasciando in una situazione di indigenza la quasi totalità della popolazione34.

Una soluzione ai problemi economici dei paesi terzomondisti viene dettata da Fernand Braudel, importante storico francese, che, analizzando la situazione di questi stati, vede necessaria una miglioria all’agricoltura risolvendo i problemi di tecnica e di politica agraria, impiantare imprese industriali e collegarle ogni volta all’economia dell’intero paese, risolvere la questione degli investimenti, perché implica aiuti stranieri, ed educare e formare la manodopera attraverso l’insegnamento e la formazione tecnica35.

Il risultato degli studi sulla situazione economica dei paesi africani, porta a prendere in seria considerazione l’idea di una perpetrazione di errori dall’epoca 33 Ibid., pp. 320-321. 34 Ibid., pp. 345-346. 35

(24)

coloniale all’indipendenza, a causa dell’influenza occidentale in alcuni settori di primaria importanza, come il comparto industriale – siderurgico. Come vedremo nel paragrafo successivo, la quasi totalità delle colpe di un mancato sviluppo economico dei paesi africani è da ricercare in questi rapporti, in cui le borghesie nazionali, nonché i governi, hanno la loro abbondante dose di colpa.

1.3 Neocolonialismo

Il concetto di neocolonialismo fu coniato dai marxisti francesi alla fine degli anni cinquanta e recepito dai dirigenti delle ex colonie africane ed asiatiche nel decennio successivo, portato avanti, tra gli altri, dal presidente ghanese Nkrumah, ed incorporato all’interno delle tesi dei neomarxisti. I primi studi sul neocolonialismo sono stati effettuati sui paesi dell’America Latina, vista la loro lunga storia di indipendenza politica e dipendenza economica, grazie a studiosi come Andre Frank e Keith Griffin, che hanno cercato di interpretare il neocolonialismo di oggi in Africa e in Asia in base a quell’esperienza. I dirigenti degli stati africani indipendenti descrivevano il neocolonialismo come la sopravvivenza del sistema coloniale, a dispetto dell’indipendenza politica delle ex colonie, a causa di un nuovo tipo di dominazione da parte di forze politiche, economiche, sociali e militari. Nella maggior parte dei casi, il neocolonialismo imponeva i suoi dogmi economici sui paesi più deboli con il perdurare della dipendenza economica dal potere coloniale, l’integrazione in blocchi economici coloniali, l’infiltrazione economica attraverso investimenti di capitale, prestiti, aiuti, concessioni ineguali e mezzi finanziari controllati dalle potenze coloniali. Secondo i neomarxisti, lo scopo principale del neocolonialismo era l’impiego dell’apparato statale delle potenze coloniali per trasferire il potere politico a una classe dirigente nazionale in modo da mantenere i territori nel sistema capitalista mondiale.

Barrat Brown, studioso inglese, individua nel deposito nelle metropoli delle riserve valutarie delle ex colonie francesi e britanniche, nella perdurante presenza sul suolo delle ex colonie di società aventi la sede centrale nella metropoli e il ruolo svolto dalle banche metropolitane nell’attrarre il risparmio locale come elementi importanti nella creazione del legame neocoloniale36. Lo schema neocoloniale di sviluppo economico dipendente è stimolato dalle grandi società transnazionali, che

36

(25)

utilizzano il capitale locale e coinvolgono lo Stato dei paesi sottosviluppati in una divisione del lavoro che assegna certi processi ad aree aventi lavoro a basso costo, come un tempo erano le piantagioni coltivate da schiavi, contravvenendo agli ideali che hanno spinto le ex colonie a rendersi indipendenti e ad unirsi nel gruppo dei non allineati. Ciò è dovuto al fatto che, i vari movimenti di liberazione tendono, oltre che a disintegrarsi, a ricercare un compromesso con le potenze coloniali da cui essi si vogliono liberare. In aggiunta, nelle classi dirigenti dei governi che si sono succeduti alle istituzioni coloniali vi si trovano capitalisti locali, proprietari terrieri feudali e mediatori indigeni che operano come agenti del capitalismo. Le forme populiste di governo sono state abbattute perché non sono riuscite a sviluppare un loro processo economico e i diversi interessi si alleeranno in maniera differente con le imprese di proprietà estera. L’unico modo che hanno gli stati sottosviluppati per controllare la propria economia, secondo Brown, è la nazionalizzazione delle attività delle società estere perché senza questo provvedimento i loro tentativi di controllare i profitti o la bilancia commerciale dello stato possono essere facilmente neutralizzati dalle politiche di fissazione dei prezzi delle società capitalistiche. Lo studioso inglese conclude la sua analisi sul neocolonialismo affermando che il perdurante interesse dei capitalisti comporta più investimenti in attività manifatturiere che nella produzione primaria, implicando un certo sviluppo economico, ma di natura dipendente; nel contempo, la mancanza di un loro interesse in uno sviluppo più rapido mostra come l’obiettivo principale dei gruppi capitalisti metropolitani non fu l’espansione dei mercati ma il mantenimento del processo produttivo nell’ambito del sistema capitalista. Questo è per Brown il significato di neocolonialismo; in tale contesto la realtà cruciale è rappresentata dalla simbiosi tra la grande società transnazionale e lo stato nei paesi sottosviluppati37.

Jack Woddis, autore di An Introduction to Neo-colonialism, oltre a denunciare i tratti caratteristici del neocolonialismo, punta l’indice nei confronti dei governi locali, formati da esponenti della feudalità, della piccola e grande borghesia, poiché preferiscono lasciare il proprio paese nelle mani degli stranieri, accettando ogni forma di aiuto, che si trasformerà in dipendenza, piuttosto di avviare la pratica socialista38.

37

Ibid., pp. 297-298.

38

(26)

Jacques Vignes, giornalista francese, approfondisce il discorso di Woddis analizzando gli accordi tra le élite locali e i vari poteri capitalistici occidentali, il cui compromesso porta all’arricchimento individuale e rapido dei primi, che utilizzano la soluzione più facile senza sviluppare economicamente il proprio paese. Nonostante le battaglie per l’indipendenza, i beneficiari dei posti di potere retrocedono poco alla volta dalle loro posizioni causando la creazione di nuove strutture di sfruttamento economico di modo che l’antagonismo potere politico – potere economico si modifica, portando quest’ultimo ad insinuarsi nella sfera tecnica e finanziaria fuori dalla portata delle ambizioni immediate dei nativi. Vignes aggiunge che il potere politico, come il vecchio sistema amministrativo coloniale, è interessato solamente alla spartizione dei posti amministrativi, degli affari commerciali e dei terreni agricoli39.

Lo storico francese Guy de Bosschère utilizza un punto di vista diverso dai precedenti e vede nel neocolonialismo una maggiore influenza americana nella politica internazionale rispetto al passato coloniale. L’azione neocoloniale, o coloniale, porta con se degli strascichi politici e militari nei paesi del terzo mondo, se questi “disubbidiscono” alle direttive occidentali, perché ciò di cui Washington ha paura è il minimo sussulto rivoluzionario e nazionalistico. Questo atteggiamento, secondo de Bosschère, è dovuto alla paura degli USA di non poter continuare a tenere il loro standard di vita, avendo il timore di rialzi dei prezzi delle materie prime da parte dei governi terzomondisti e nazionalisti, al quale rispondono attraverso l’instaurazione di dittature, di governi fantoccio oppure cercando sponda nelle oligarchie militari40.

Il punto d’arrivo degli studi storici sul neocolonialismo ha come termine comune il problema della continuità di rapporti di inferiorità da parte delle ex colonie nei confronti del mondo occidentale, non soltanto degli stati europei, come abbiamo visto in precedenza. Ciò porta a problemi di ordine economico che non sono risolvibili continuando su questa strada e la maggior parte degli studiosi è d’accordo sul tentare vie diverse, come il socialismo, piuttosto che mettersi nelle mani del capitalismo occidentale, che stringe le cinghie nei confronti dei paesi in via di sviluppo grazie agli aiuti dati da istituzioni internazionali, come ad esempio il Fondo Monetario Internazionale o la Banca Mondiale. Se queste maglie non saranno

39

Jacques Vignes, Sguardo sull’Africa, Feltrinelli, Milano 1968, pp. 162-163.

40

(27)

allargate i paesi africani, ma anche di altri continenti, non arriveranno mai al pieno sviluppo economico.

1.4 Postcolonialismo e Subaltern Studies: un nuovo metodo storico

Gli studi postcoloniali hanno avuto uno sviluppo importante, a partire dagli anni ottanta, nelle accademie anglosassoni come campo di studi trasversale a molte discipline umanistiche, ad esempio: letteratura, storia, antropologia e filosofia politica. Alcuni dei problemi iniziali di questa nuova disciplina stanno nel suo ambiguo termine, che per alcuni richiama il postmoderno e la teoria decostruzionista mentre per altri ha effetti contraddittori poiché si va nella direzione di un concetto contenitore dove è possibile riscontrare teorie differenti tra loro41.

L’espressione postcoloniale, diffusa già negli anni sessanta, fu una creazione dei sociologi dello sviluppo che analizzavano il processo di decolonizzazione, il crescente desiderio di modernizzazione e la situazione politica, economica e sociale dei nuovi stati indipendenti. Negli anni successivi, però, fu utilizzato il termine neocolonialismo, utile per spiegare la continuità dell’imperialismo in alcuni settori dei nuovi stati. La voce postcolonialismo viene ripresa all’interno della critica letteraria britannica che, alla fine degli anni ottanta e l’inizio dei novanta, prenderà il nome di letteratura postcoloniale attenta alla comprensione, all’analisi e all’approfondimento degli effetti culturali della colonizzazione sui popoli indigeni. I teorici del postcolonialismo, che hanno dato un contributo fondamentale alla nascita della disciplina, sono essenzialmente Edward W. Said, Homi K. Bhabha e Gayatri Chakravorty Spivak che hanno instaurato un legame tra la problematica postcoloniale e le tematiche del poststrutturalismo e postmodernismo42.

Un ruolo di prima importanza è attribuito al saggio Orientalismo di Edward W. Said, dato che nei postcolonial studies si crea un ampio dibattito sui temi portati in auge dallo studioso di origini palestinesi sul carattere culturale della fase imperialistica di fine Ottocento. Riprendendo e rielaborando i concetti e i pensieri di due intellettuali molto importanti del Novecento come il filosofo francese Foucault e l’intellettuale comunista Antonio Gramsci, mette in risalto il carattere mistificatorio

41

Miguel Mellino, La critica postcoloniale: decolonizzazione, capitalismo e cosmopolismo nei postcolonial studies, Meltemi, Verona 2005, pp. 18-21.

42

(28)

della nozione di Oriente. Orientalismo è l’indagine e la rappresentazione di un capitolo di storia tra i più complessi, dal XVIII secolo fino ai giorni nostri, in cui l’autore cerca di individuare le motivazioni ideologiche e culturali che hanno dato vita ad un vero e proprio stile di pensiero, in cui la cultura e la coscienza europea hanno cercato di conoscere, di appropriarsi e di dominare l’Oriente trasformandolo in un luogo desolante e non civilizzato in cui risiedevano altri popoli, diversi dalla incivilita Europa. L’obiettivo principale di Said in Orientalismo, come più volte è stato sottolineato, non era tanto la critica di una qualche falsa nozione dell’Oriente presente nell’immaginario collettivo della cultura occidentale quanto rendere problematica la stessa idea di Occidente minando alla base la legittimità dei suoi criteri di rappresentazione. A partire dalla strada aperta da Michael Foucault nell’analisi della nascita dell’ordine culturale moderno, ciò che Said voleva dimostrare era che il dominio dell’Occidente sull’Oriente funzionava anche attraverso la produzione di certi discorsi sull’altro43. In Cultura e Imperialismo, l’altro importante saggio di Said, l’autore sostiene in modo esplicito che il colonialismo moderno ebbe il ruolo decisivo nella costruzione del paradigma della società occidentale e della cultura europea. Le nozioni espresse da Said nelle sue opere, in particolar modo in Orientalismo, hanno avuto delle ripercussioni sui concetti espressi dalla teoria sociale e dallo studio dei rapporti culturali tra l’Occidente e gli altri, in particolar modo in discipline quali l’Antropologia e la critica letteraria. Orientalismo e le sue premesse sono alla base dei successivi lavori postcolonialisti da parte di Spivak, Bhabha ed altri, le cui teorie costituiscono i punti di partenza per la nuova metodologia di studio.

Gayatri Chakravorty Spivak, importante esponente del femminismo americano e globale, considera l’intero campo del pensiero sociale moderno, e le sue categorie conoscitive, del tutto pervase dalla logica eurocentrica, imperialista e razzista da parte del potere coloniale, portando l’esempio della letteratura britannica che è analizzata solo in base al colonialismo. Il termine postcoloniale, quindi, significa una presa di distanza dai gradi di rappresentazione e valutazione tipici della superiorità coloniale, ed occidentale, a livello mondiale. In altre parole, la teoria postcoloniale concentra il suo sguardo critico sui miti del colonialismo occidentale, sul processo di violenza epistemologica condensato nella scrittura occidentale del sé, dell’altro e quindi della Storia. Un compito che, dall’ottica degli stessi autori

43

Riferimenti

Documenti correlati

È così che, dopo un inquadramento introduttivo delle principali que- stioni sul tappeto (Bindi, Le sanzioni della Banca d’Italia e della Consob: i re- centi orientamenti interni

Il nostro lavoro oggi è quello di prendersi cura dei documenti, delle informa- zioni, di lasciare delle tracce, al fine di permettere a quelli che verranno dopo di noi di scrivere

L’avvio della decolonizzazione. Il primo dopoguerra è anche il momento storico in cui si avvia la decolonizzazione. Ovvero quel processo che porta le colonie ad emanciparsi

La neces- sità di confrontarsi con la complessità sociale, economica, tecnologica, rappre- senta il fil rouge della tela che Guido Alpa ha intessuto nel corso del tempo,

1 La necessità di riordinare le BCC scaturisce dalle Raccomandazioni specifiche per il paese 2015, formulate dalla Commissione europea all’Italia nell’ambito del coordinamento

MUUNGANO, Coordinamento EELL per la Pace e i diritti Umani, Agenzia della Pace, Tavola per la Pace, Comitato promotore Marcia Perugia Assisi, Club dell’UNESCO Udine,

Il dibattito sugli strumenti è stato introdotto dagli Stati Uniti alla fine del 2003 con la proposta della GMEI, che mirava alla realizzazione di un massiccio programma di

[r]