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In principio è la relazione. Morale e politica in Martin Buber.

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Academic year: 2021

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UNIVERSITÀ DI PISA

Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere

Corso di laurea Magistrale in Filosofia e Forme del Sapere

IN PRINCIPIO È LA RELAZIONE.

MORALE E POLITICA IN MARTIN BUBER

Relatore:

Candidata:

Prof. Adriano Fabris

Martina Gili

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(3)

Premessa

6

Parte prima: Martin Buber. Il pensatore e l'uomo.

Capitolo1: Martin Buber e l'ebraismo

8

1.1 Cenni biografici 8

1.2. Militanza nel movimento sionista 11

1.3 Ebraismo come via 15

Capitolo 2: Il Chassidismo

17

2.1 Occidente e oriente a confronto 17

2.2 La dottrina dei vasi 19

2.3 Il ruolo del mito 22

Capitolo 3: Filosofia dialogica

26

3.1 Io e tu 26

3.2 Il problema dell'uomo: “relazione” come nuova categoria critica 29

3.3 Bibbia: un'esegesi non tradizionale 30

Parte seconda: Antropologia filosofica

Capitolo 4: Chi è l' uomo?

34

4.1 Lineamenti dell'antropologia buberiana 34

4.2 Il Confronto con Heidegger 39

4.3 Fenomeno della chiamata e della risposta 42

Capitolo 5: La realtà pratica della relazione

46 5.1 Il confronto diretto con le scienze psicologiche e sociali 46 5.2 Ontologia della relazione: ripensare il sociale 48 5.3 La tecnica moderna e l'eclissi della responsabilità 54

Capitolo 6: Antropologia filosofica

57

6.1 In che modo possiamo conoscerci? 57

6.2 L'incontro con il trascendente che è Dio 60

(4)

Parte terza: Il pre-etico, al di là del bene e del male verso

una prospettiva non-nichilistica. Il problema politico.

Capitolo 7: Rivelazione: la riscoperta di Dio nella realtà sociale

64

7.1 L'incontro con il tu eterno 64

7.2 Il Tu eterno come relazionalità 67

7.3“Prolegomeni ad una filosofia della religione”, religione come presenza 72

Capitolo 8: Comprensione:

percorso di avvicinamento al linguaggio divino

78 8.1 Forme di dialogo fra uomo e Dio negli scritti dei profeti:

il significato di rivelazione 78

8.2 Per un utilizzo umano della parola divina: verità come fedeltà 83

8.3 Il pre-etico 86

Capitolo 9: Conversione:

la via dell'uomo religioso, attraverso il chassidismo

92

9.1 Ritorno 92

9.2 Unitarietà 95

9.3 Apertura 97

Capitolo 10: Riformulare il linguaggio politico

99

10.1 Il “surplus” del politico 99

10.2 Utopismo 103

10.3 La questione ebraico-araba 105

Conclusione

108

(5)

Il sole è nuovo ogni giorno

1

.

1

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- 6 -

Premessa

Il mio intento in questa tesi è quello di analizzare il modo in cui Martin Buber, partendo dalla domanda su

chi è l'uomo?, riconosce un fondamento umano alternativo a quello dell'intelletto: la relazione dell'uomo

con l'uomo. A partire da questo fondamento ontologico, si vedrà come Buber smentisca la posizione nietzschiana della morte di Dio, ed attraverso una rivalutazione del rapporto uomo-Dio, riesca a ristabilire una prospettiva di senso cui l'uomo accede attraverso la sua semplice presenza, e che, dispiegandosi al modo di un accadere fenomenico, si pone al di fuori del pericolo di essere smentita.

Il pensiero e la cultura occidentali ci hanno abituati a considerare l'uomo nei termini di un costruttore, di un inventore, e a concepire l'intelletto come lo strumento di questo inventare. Proviamo a cambiare prospettiva: ancor prima dell'uomo che pensa e che vuole (al contrario di ciò che ha sostenuto Cartesio), l'uomo è un essere presente, la cui presenza è evento primo, che precede il riflettere da parte sua sul proprio esserci. Martin Buber compie due manovre nei confronti del cogito ergo sum cartesiano: la prima è quella di invertire i due termini, e la seconda quella di eliminare il “dunque”, ossia la necessità nel rapporto fra i due termini.

L'uomo esiste e pensa, senza che fra l'esistenza e il pensiero vi sia alcun tipo di implicazione sostanziale. Cartesio, affermando “io sono poiché penso”, aveva legato l'esistenza al pensiero e in tale modo aveva congiunto il fatto dell'esistenza a quello della sua pensabilità. Martin Buber tenta di ristabilire le cose nei giusti termini: il fatto di pensare è accessorio al fatto di esistere, l'esistere al contrario, più che essere oggetto riflesso è in realtà qualcosa che l'uomo in primo luogo si trova a subire. Il pensiero occidentale è improntato a questa prospettiva: se l'intelletto è lo strumento che ci collega al nostro esistere, allora i prodotti del nostro intelletto saranno concepiti come ciò in cui noi possiamo trovare il senso dell'esistenza. Martin Buber vede nei prodotti dell'intelletto come ciò attraverso cui l'uomo si distanzia dal proprio fondamento esistenziale, al quale l'uomo non arriva, non giunge attraverso il proprio intelletto, bensì attraverso il suo semplice reagire concreto alla situazione esistenziale in cui si trova: una situazione essenzialmente dialogica.

L'uomo occidentale, erede di Cartesio, ha fondato il proprio modo di vivere sulla riflessione attorno all'esistere: la politica, l'etica, la morale, la scienza e perfino la religione sono i prodotti di questa riflessione. Questo sistema ha funzionato fino agli inizi del secolo scorso, fino a che qualche pensatore più sospettoso e scettico come Nietzsche, provando a scavare un poco più a fondo a queste dimensioni di senso, non ne ha scorto l'arbitrarietà: tutto ciò che fino a quel preciso momento era stato creduto poteva essere altrimenti o addirittura non essere del tutto. Ma Nietzsche, annunciando la morte di Dio, si sbagliava: quel Dio infatti era solo il frutto della riflessione intellettuale dell'uomo, mentre il Dio vivente era ancora nascosto nell'attesa del suo verace incontro con l'uomo.

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Nelle seguenti pagine rifletterò sul modo in cui Buber cerca di far uscire allo scoperto il Dio nascosto, il Dio che l'uomo incontra nella relazione con l'altro e che fonda -in modo non dogmatico- ogni possibilità a cui l'uomo è aperto nel corso della propria esistenza.

La mia tesi procederà attraverso tre passaggi, che scandiranno le sue tre parti. La prima di esse sarà introduttiva, dedicata a tracciare le linee contestuali che possano permetterci, nelle parti successive, di entrare in profondità nelle tematiche trattate nei vari scritti del filosofo. Parlerò della sua biografia, delle opere principali e del suo rapporto con il Chassidismo. Nel secondo capitolo analizzerò l'antropologia buberiana, a partire dalla dichiarazione di intenti da lui fatta ne Il problema dell'uomo, e cercherò di tracciare la peculiarità di questa prospettiva dialogica. La terza ed ultima parte, strettamente collegata alla precedente, sarà dedicata al tema della “religiosità”. L'incontro con Dio nelle relazioni sociali, sarà il presupposto da cui andare preliminarmente ad analizzare il linguaggio divino e conseguentemente rintracciare i modi attraverso i quali è possibile all'uomo realizzare nella prassi l'incontro con Dio. A questo punto si analizzerà, anche in chiave socio-politica, i presupposti per la realizzazione di una comunità vivente sull' autentica relazionalità e reciprocità comunitaria. Qui, facendo riferimento alla questione arabo-israeliana, riprenderò la domanda sull'uomo posta da Buber ne Il problema dell'uomo e cercherò di delineare il concetto di comunità considerato da Buber quale destinazione al di là del collettivismo e dell'individualismo, auspicabile per l'uomo che voglia mantenere le proprie sembianze umane.

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Parte prima: Martin Buber. Il pensatore e l'uomo.

Capitolo 1: Martin Buber e l'ebraismo

1.1 Cenni biografici

È difficile confinare la personalità e le riflessioni di Martin Buber entro una specifica definizione2 o etichettatura. Egli fu teologo, filosofo, pedagogista e militante sionista. Tuttavia non sono pochi, fra i suoi interpreti, coloro che lo hanno definito un “uomo di frontiera”, espressione che ci conduce a tratteggiare la figura di un uomo che si affaccia oltre una linea di confine, entrando in contatto con ciò che sta al di là. Ma la frontiera fa pensare anche ad una lotta, quella che Buber conduce attraverso i suoi discorsi che non rimangono nella sfera del teoretico, bensì sono costruiti per mezzo di parole che sono destinate a prendere la fisionomia del gesto, del moto, del movimento, protesi verso l'affermazione di un cambiamento reale. In ultimo, non si può tralasciare il tipo di panorama che implica lo sguardo attraverso una frontiera, quello di occhi che si stagliano su di una totalità, sopra una dimensione composita non frazionabile, da cui tutto deve essere tratto ed entro cui deve sempre essere ricondotto3. Tutto ciò si unisce all'impegno di non disgiungersi mai da questa totalità, che non è l'ebraismo bensì la vita stessa, la comunità e le forme elementari che la animano.

Buber cerca di affermare questa dimensione di frontiera nel mondo stesso, ponendo il confine, e la dimensione relazionale che questo implica, alla base della natura umana, fino ad affermare che ognuno di noi è il prodotto dei molteplici confini posti e varcati fra sé e l'altro durante tutta la sua stessa vita, e che nessuno di noi può affermare “io sono” senza poter fare a meno di menzionare anche l'altro.

Comincerò con qualche cenno biografico, soffermandomi sugli eventi che più di tutti hanno condizionato e direzionato il pensiero di Martin Buber. Lui non scrisse di sé stesso alcuna biografia intesa in senso classico, bensì scrisse Incontro4 (1961), una raccolta di frammenti autobiografici, scritti in vari periodi, ma che decise di pubblicare solo in età avanzata. In esso, certo racconta di sé, ma non nel modo di una storia o di una narrazione per tappe, bensì nel modo di una confessione, con l'intento di dare alle proprie

2 “Mi è stata più volte rivolta la domanda se io sia un filosofo, un teologo, o qualcos'altro. La questione è sollevata a ragione, dal

momento che, a seconda delle circostanze, vengo messo a confronto con le regole e con le leggi che appartengono al dominio della filosofia piuttosto che della teologia. Io non posso, comunque, fare sì che una delle risposte che esse propongono sia la mia. Nella misura in cui mi è dato autocomprendermi, vorrei definirmi un uomo atipico.”In M. Buber, Il Chassidismo e l'uomo occidentale, a cura di F. Ferrari, Genova, Il nuovo Melangolo, 2012, p.39

3

“Buber era, disciplinarmente e politicamente, un esempio di uomo di frontiera, figura che il Novecento, secolo delle discipline specializzate e mono-competenza, ha lentamente abolito o soppresso”. In M. Buber, Incontro. Frammenti autobiografici, a cura di D. Bidussa, tr. it. A. Franceschini, Roma, Città Nuova, 1994

p.7

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esperienze personali, agli eventi che hanno caratterizzato la sua infanzia e giovinezza quasi il tono dell'archetipo, come avesse la volontà di proporle al lettore quasi fossero esperienze, che seppur personali, egli potesse fare proprie e ricondurle al proprio vissuto, ed è con questo tono confessionale che si apre questo suo breve libro: “Qui non si tratta di raccontare qualcosa della mia vita privata, ma unicamente di riferire alcuni momenti che affiorano dal mio sguardo rivolto al passato e che hanno esercitato un influsso determinante sulla forma e sulla direzione dei miei pensieri”5.

Come vedremo tutta la produzione letteraria di Buber si colloca in questo solco: fare delle proprie esperienze il luogo e la materia di fondazione del proprio pensiero ed insegnamento. È così anche per la sua stessa concezione religiosa, essa nasce da un incontro con Dio, ed è questo l'evento, dal quale Buber propone la sua personale prospettiva, la quale non rimane però particolaristica ma si rende condivisibile ed universale, come un incontro in cui tutti gli uomini sono destinati ad imbattersi. Lo stesso avviene nelle pagine di Incontro, in cui “le poche, preziose prospettive sono tracciate per illuminare non tanto sé stesso quanto l'argomento che diede al libretto il suo titolo e rimase, dall'inizio alla fine, una chiave per accedere alle sue idee: l'incontro, visto come vertice della vita relazionale”6.

Martin nacque a Vienna l'8 febbraio 1878, e l'evento che lui stesso riconobbe come primo caratterizzante la sua vita, risale ai quattro anni successivi alla sua nascita, ed è la separazione dei suoi genitori. A causa di tale fatto Buber fu affidato ai suoi nonni paterni e visse con loro a Leopoli per tutta l'infanzia e prima adolescenza. Dai nonni ereditò la passione per le lingue e per la parola. Come ricorda lo stesso Buber nelle pagine dedicate alla nonna: “il nonno era un autentico filologo, un amante della parola, ma l'amore della nonna per la pura parola mi influenzò ancor più fortemente che quello del nonno: perché quest'amore era così immediato e così devoto”7.

I nonni, tuttavia -a detta di Buber- erano entrambi poco inclini a discutere di problemi personali, e non lasciarono mai trapelare nulla riguardo le motivazioni di separazione dei suoi genitori. Un giorno, al piccolo Martin, sempre proteso verso l'attesa e sofferente speranza di ritorno della madre, che, al contrario del padre, non aveva più visto, venne detto , che quella non sarebbe mai più tornata. Buber ricorda: “so che rimasi ammutolito, ma so che non ebbi alcun dubbio sulla veridicità di quelle parole”, e aggiunge “Hanno lasciato un' impronta che dopo anni si è sedimentata nel mio cuore; tuttavia già all'incirca dieci anni dopo cominciai a percepire in esse qualcosa che non riguardava più solo me stesso ma l'essere umano in generale8”. Fu da questo episodio che Buber coniò il termine dis-incontro (Vergegnung). A distanza di anni riconobbe l'episodio come momento fondamentale in cui capì l'essenza dell'incontro autentico, attraverso la sua mancanza, il non-avvenimento dell'incontro con la madre. In queste pagine troviamo già appaiate, collocate ad un livello sintonico i termini incontro e verità, il primo come luogo in

5

Ibid., p.35

6

P. Vermes, Martin Buber, tr. it. di Piero Stefani, Milano, Edizioni Paoline, 1990, p.11

7

M. Buber, Incontro. Frammenti autobiografici, op. cit., p.38

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cui avviene, si produce e manifesta la seconda. In questo caso il dis-incontro con la madre fu un luogo di assenza di verità, di chiusura di una relazione, e dunque di cessazione di una possibilità. Si vedrà successivamente come il concetto di verità in Buber si trovi effettivamente collegato alla dimensione pratica dell'agire e del relazionarsi, in quel luogo mediano fra un io ed un tu che comunicano sulla base di una reciproca fiducia.

Un altro forte ricordo che Buber riporta dalla sua infanzia riguarda la sua esperienza scolastica. Fino all'età di dieci anni Martin fu istruito in casa, soprattutto nelle lingue ebraico, latino e francese, dopodiché frequentò il ginnasio polacco Franz Joseph di Leopoli. Di esso ricorda soprattutto un evento che soleva ricorrere giornalmente e rispetto al quale Buber da sempre nutrì un sentimento di repulsione. Era l'assemblea che si teneva ogni giorno alle 8 del mattino, in cui si soleva svolgere una preghiera al di sotto del crocifisso. Buber ricorda: “quel quotidiano e doveroso stare in piedi nella sala risonante di una preghiera estranea, aveva su di me un effetto peggiore di quello che avrebbe potuto avere un atto di intolleranza. Ospiti forzati dovevamo partecipare come fossimo degli oggetti ad una cerimonia sacra, alla quale nemmeno un granello della mia persona poteva e voleva partecipare, e questo per otto lunghi anni, giorno dopo giorno … la mia avversione a ogni tipo di proselitismo è radicata nelle esperienze di quel periodo”9. Si tratta di un evento, anche questo, destinato ad avere un ruolo incisivo nella ricerca che Buber maturerà nel viaggio che, da uomo maturo, avrebbe condotto all'interno del Chassidismo, alla ricerca di una verace ed effettiva dimensione partecipativa in cui potesse svolgersi l'incontro del fedele con il divino. A questo proposito introdurrà il termine “religiosità” per specificare un certo tipo di relazione fra uomo e Dio, radicato anch'esso -al modo in cui prima abbiamo detto del concetto di verità- nella dimensione della presenza e dell'agire sociale fra uomo e uomo.

A quattordici anni Buber riandò a vivere presso il padre Karl Buber che si era risposato. Il padre era un buon uomo, un agricoltore, e fu lui ad introdurre il ragazzo da uno Zaddiq, capo di una comunità chassidica nella città di Sadgora vicino a cui il padre possedeva delle terre. All'età di quindici e diciassette anni lui stesso racconta di come si avvicinò alla filosofia, attraverso due libri, I prolegomeni ad ogni

futura metafisica di Kant, e Così parlò Zarathustra di Nietzsche. Di quest'ultimo - di cui egli stesso

dichiara come abbia agito su di lui non tanto come un dono, quanto più “come aggressione e perdita della libertà”10- egli si appassionò alla teoria del tempo come eterno ritorno dell'uguale, la quale esercitò in lui una certa seduzione, portandolo con il tempo a muoversi su binari opposti, e ad intendere il tempo non tanto solo come forma, ma come esistenza, intesa quale insieme di attimi unici e decisivi.

L'incontro, la religione e il tempo sono i temi che vengono considerati e portati in risalto in queste prime pagine di frammenti autobiografici, ma fra di essi l'elemento, la chiave d'intelligibilità dei tre risulta essere l'incontro stesso. È sulla base di una certa tipologia di incontro con Dio che si instaura un determinato tipo di relazione fra fedele e Dio e dunque un certo tipo di religione; ed è sempre l'incontro

9

Ibid. pp. 43-44

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ad essere il valore, il metro di misura del senso dei vari momenti dell'esistenza di ognuno di noi. L'incontro “rappresenta il culmine della vita relazionale, l'intenso bagliore che repentinamente illumina la vita, ma esso è soltanto qualcosa di attuale”11. Diversamente, la relazione, consiste nella realizzazione di un incontro, quest'ultimo è fatto primo che accade e non può essere deciso, come scriverà successivamente in Ich und Du (1923), “ogni vita autentica è un incontro”12.

Nel 1896 Buber si iscrisse al primo anno di università a Vienna, alla facoltà di filosofia. Ciò che ricorda di questa esperienza ancora nascente -al di là delle diverse tipologie di corsi che frequentò, dalla storia dell'arte, alla psicologia, filologia e persino psichiatria- fu “il rapporto, regolato e tuttavia libero, fra professori e studenti, l'interpretazione in comune dei testi, alla quale talvolta il professore partecipava con insolita umiltà”. Questo rapporto di interscambio e collaborazione “paritaria” fra studente e professore lo portò - come lui stesso scrive- a rivelargli “la realtà effettiva dello spirito in quanto intermediario”13. Anche questa fu l'esperienza di una realtà relazionale autentica in cui egli cominciò a vedere inscritta una certa potenzialità creatrice. In questo periodo si appassionò anche al teatro in cui riversò la sua passione per la parola pronunciata ed “effettiva”. Fu in quel mondo di finzione, sostiene lo stesso Buber, che la parola poteva raggiungere la sua adeguatezza venendo innalzata.

Il terzo trimestre lo trascorse a Lipsia, città in cui Buber rientrò in vivo contatto con il mondo ebraico attraverso il sionismo, movimento fondato in quegli anni da Theodor Herzl.

Successivamente i suoi studi proseguirono nelle università di Zurigo e Berlino, in cui seguì le lezioni di George Simmel e di Wilhelm Dilthey.

1.2 Militanza nel movimento sionista

Buber aveva appena ventuno anni, quando tenne a Basilea il suo primo discorso al terzo Congresso sionista del 1899, cioè era appena agli inizi della sua attività politica, e partecipò a quel congresso in qualità di delegato degli studenti di Lipsia . Come membro della commissione di propaganda, pronunciò un discorso nel merito.

Era il terzo di due congressi tenutasi a Basilea nei due anni precedenti. Fra di essi, quello del 1897, fu ricordato a posteriori come l'evento nel quale Teodor Herzl tenne il famoso discorso che sarebbe poi stato riconosciuto come il documento fondativo del sionismo politico mondiale. Fu allora che Herzl per mezzo di una grande opera di semplificazione fece coesistere e riunì i diversi sionismi di tutta l'Europa ed America, dissimili sia storicamente che geograficamente, attraverso un'azione che determinò la nascita

11

P. Vermes, op. cit., p.66

12

M. Buber, Ich und Du, (I. ed. 1923) in Il principio dialogico e altri saggi, tr. it. di Anna Maria Pastore, a cura di A. Poma, Milano, Edizioni San Paolo, 1993 , p. 16

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del Sionismo politico. Movimento che avrebbe portato, attraverso l' ottenimento di “garanzie di diritto pubblico” alla creazione e riconoscimento dello stato di Israele all' interno dell'assetto internazionale. La dimensione prettamente e strettamente politica in cui Herzl, assieme con la Zionistische Weltorganisation (ZWO), racchiuse la questione ebraica, ben presto determinò la nascita e il progressivo acuirsi di un'opposizione: quella guidata da Achad Haam. Quest'ultima opponeva, contro la linea austro-tedesca e prettamente politica dello ZWO, un sionismo culturale di orizzonte russo, di lingua ebraica, di tradizione illuminista e radicata nel patrimonio biblico e post-biblico dell' ebraismo. Questa opposizione poneva come punto fondamentale la questione culturale, sostenendo che compito del sionismo fosse quello di ricostruire e rinsaldare la cultura ebraica per far nascere negli ebrei una coscienza della propria identità nazionale, in modo da “far rinascere le forze di creazione culturale che l' ultima fase della diaspora aveva spento”14.

Fu lo stesso Achad Haam a riconoscere come, l'affermarsi del sionismo politico di Herzl determinò la diminuzione dell'interesse nei confronti della questione culturale ebraica, essa perse la sua centralità, cominciando ad essere percepita come trascurabile ai fini di quello che si affermò essere questo movimento. Al contrario, la questione culturale, nei movimenti sionisti precedenti alla comparsa di Herzl, aveva sempre rivestito un ruolo centrale, di fulcro imprescindibile di ogni riflessione sulla possibilità della creazione di uno stato d'Israele.

È nel corso del Terzo Congresso, tenutosi a Basilea nel 1899, che lo scontro fra queste due linee di sionismo differenti si acuì, divenendo esplicito nel durissimo scontro fra Herzl e Leo Motzkin. È nel mezzo di questa tensione nel movimento che Buber prese parola,

“Far propaganda significa comunicare movimento, ma significa anche conservare e rafforzare il movimento. Si tratta di coltivare e sorvegliare i semi che abbiamo gettato. Il sionismo non è una questione di partito, è una visione del mondo”15.

In esso Buber si esprime in favore della linea culturale di Achad Haam, il discorso infatti non rimane di carattere propagandistico, ma tocca il tema della questione culturale ebraica. Il giovane militante sostiene come la cultura ebraica non debba essere considerata solo come mezzo propagandistico del movimento, ma al contrario debba essere considerata quale fondamento, base dello stesso sionismo. Da qui la sua partecipazione segnerà anche il quinto Congresso, in cui si porranno le basi per la nascita della

Demokratische Fraktion.

Punto di rottura forte fra Buber e il sionismo politico di Herzl era il fatto che quest'ultimo si fosse svincolato dalla necessità di una preliminare costruzione di una identità ebraica, che consentisse la nascita di un forte nucleo nazionale ebraico contraddistinto da un forte senso di appartenenza. L'elemento politico

14

M. Buber, Rinascimento ebraico, tr. it. di A. Lavagetto, Milano, Mondadori, 2013, p.15

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in Herzl sembrava trascurare tale condizione, che per Buber e le linee sioniste precedenti al primo congresso di Basilea, era “la condizione”, sentita come presupposto e fine necessario del movimento. Ed è qui che già nel giovane Buber si fa spazio la dimensione comunitaria come condizione imprescindibile per la realizzazione di progetti anche politici. È questo il caso del progetto sionista, in cui è la comunità a dover determinarsi non solo come partecipante ad un movimento ma anche e soprattutto come fine a cui è destinato il progetto. Il movimento potrà giungere a compimento soltanto entro una comunità in cui si diano legami saldi e trasparenti fra rappresentanti e rappresentati di modo che -come sostenuto da Buber- “i rappresentanti non siano legati con i loro rappresentanti da vuote astrazioni, attraverso la fraseologia di un programma di partito, ma concretamente, attraverso una comune attività ed esperienza”16.

Anche nel caso della politica, Buber non è disposto a svincolarsi dalla totalità, dall'intero comunitario. Questa è la ragione della sua opposizione nei confronti di Herzl il cui programma subordina il fattore vitale a quello politico-territoriale. La posizione di Buber è esattamente all'opposto, quella per cui si potrebbe affermare che quando la politica è praticata a prescindere dalla forma di vita, per la quale si muove, essa risulta essere pura forma, categoria vuota, privata di senso.

Buber sente la necessità di fondare le basi culturali di uno spazio vitale autonomo in cui la comunità ebraica possa rispecchiarsi e sentirsi di appartenere.

Nel quinto Congresso nascerà così la Demokratische Fraktion, formata da un gruppo di studenti, delusi dall'andamento dei lavori, che si incontravano in maniera non istituzionale per progettare la fondazione di un'organizzazione a sostegno di una maggiore trasparenza e democrazia nei vertici della ZWO. Fu così che essi, guidati da Chain Weizmann, Leo Motzkin e Buber stesso usarono proprio quel Congresso per divulgare le loro nascenti idee.

Fortissimo fu l'attacco nei confronti di Herzl. Durante questo incontro, la posizione di Buber era alquanto ambigua: egli infatti si dichiarava a favore delle posizioni del nuovo raggruppamento giovanile, contro il modo in cui Herzl conduceva i vertici della ZWO e,allo stesso tempo, era stato nominato da Herzl direttore responsabile della Welt, il giornale ufficiale dell' organizzazione. Fu lui affidata anche la relazione sulla Judische Kunst, incarico che conferì a Buber un ruolo attivo e determinante all' interno del movimento.

Durante quel Congresso Buber prese parola rimarcando la necessità della costituzione di un solido nucleo nazional-culturale ebraico e cominciò a porre delle richieste alla commissione cultura, chiedendo innanzitutto che l'assemblea approvasse la dichiarazione ufficiale secondo cui l'elevazione culturale, ossia la nascita del popolo ebraico in senso nazionale, fosse uno degli elementi essenziali del programma

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sionista. Richiese inoltre la fondazione di un'università ebraica e propose che lo Judischer Verlag diventasse la casa editrice ufficiale della ZWO.

Herzl era ben deciso a non lasciare alcuno spazio di realizzazione a tali richieste, e lasciò che da sola la D.

Fraktion si mettesse in una posizione di rottura e di isolamento nel congresso. Essa aveva perso, mentre la

linea di Herzl avrebbe continuato ad esercitare forte consenso fino alla morte di Herzl, nel 1904.

Sarà infine fra il 1911 ed il 1913 che si avrà un momento di svolta all' interno del movimento. Grazie a Kurt Blumenfeld, il sionismo culturale tedesco prenderà il cammino intrapreso dai giovani democratici: fonderà giornali, case editrici, promuovendo conferenze, dibattiti e letture, e sarà allora che Buber avrà un ruolo fondamentale, vitale.

I discorsi politici di Buber tenuti durante queste assemblee e raduni politici pur essendo votati, come abbiamo visto in alcuni casi, alla propaganda e quindi costruiti in modo da rispondere ad una particolare utilità, hanno un comune denominatore: essi non sono semplici discorsi politici, ma sottolineano sempre l'avere a che fare con una “forma di vita”, rispetto cui la politica ha sempre un ruolo di subordinazione. Essi portano con sé un intento tanto politico quanto antropologico, sono votati a ritrarre e portare in superficie le peculiarità caratteristiche della cultura ebraica, rispetto a cui si cerca di andare a fondo, provando a giungere al nocciolo, a ciò che sta al livello ultimo e più profondo del senso di appartenenza all'ebraismo.

La produzione culturale ebraica è contraddistinta da un certo tipo di sensibilità che domina nello spirito e nelle membra di coloro che vi appartengono -asserisce Buber-: quella di uomini più portati a porgere l'orecchio e cogliere il suono e proferire parola che non a cogliere le immagini del mondo circostante, un popolo in cui la creazione artistiche sarà più legata alla musica ed alla poesia che non alle arti plastiche o figurative. “l'ebreo dell'antichità è più uomo del tempo che dello spazio. Fra tutti i suoi sensi, l'udito contribuisce più di ogni altro a formare la sua immagine del mondo”17. Il mondo dell' ebreo è un mondo di relazioni, in cui egli mai si dimostra devoto nei confronti di un oggetto, l'ebreo non coglie il mondo attraverso la dimensione, proprietà figurativa, ma attraverso l' intuizione.

In quegli anni, accanto all'entrata nella militanza, Buber si sposò, ventunenne, con Paula Winkler, una ragazza cattolica di Monaco. E sempre nel 1899 fece la conoscenza di Gustav Lavander, il cui pensiero politico influenzò il socialismo religioso buberiano. Circa un decennio dopo, nel 1916 Buber fonderà la rivista “Der Jude”, che rappresenta le sue posizioni nell'ambito sionista.

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1.3 Ebraismo come via

Ciò che fa dell'ebraismo una questione totale, riguardante tutta l'umanità è la sua destinazione, il suo intento. Nell'ebraismo Buber cerca ciò che è venuto a mancare nel mondo occidentale: la libertà e la creatività, le due caratteristiche che Dio infuse nell' uomo nell' atto di creazione, rendendoci simili a lui. La prima legge che venne insegnata da Dio agli ebrei fuggiaschi dall'Egitto fu una legge di libertà. Essi nel deserto furono educati ad essa, e per manchevolezza nei Suoi confronti furono gravemente puniti alle pendici del Sinai, in cui, fratelli contro fratelli, si uccisero a fil di spada per aver costruito un idolo di Dio. Questa prima legge di libertà è accompagnata da una seconda che incita gli uomini ad essere fecondi, non solo nella prole, ma anche intellettualmente. Non vi può essere infatti libertà in un luogo privo di alternative come fu l' Egitto. Per essere liberi gli ebrei dovettero prima venire a contatto con un'intuizione creativa e pensare ad un altrove ancora non esistente, alternativo all'Egitto.

Fu così che per mezzo di Mosè, cui Dio suggerì questo principio creativo, gli ebrei, ancora non divenuti popolo, si misero in marcia e rischiarono la propria vita per un'idea, per un mondo a cui avevano avuto accesso soltanto con il loro pensiero. L'evento fu straordinario: fra l'Egitto, paese reale e di cui gli ebrei ricorderanno spesso, nelle mormorazioni, le pentole piene di carne, e quella Terra Promessa, ancora soltanto idealizzata, gli ebrei scelsero quest'ultima, disposti, per essa, a perdere la propria stessa vita. È l'ebraismo, - che si contraddistingue da tutte le altre religioni esistenti, per il fatto di essere stata fondata attraverso la diretta e storica relazione con Dio, - che deve cominciare, a detta di Buber, per primo, a dare il suo contributo alla risoluzione del problema dell'uomo moderno diviso intimamente in due.

Come si vedrà, ed anche soprattutto nel suo testo Due tipi di fede18 (1950), -scritto in età già matura,- è nell'ebraismo che Dio e uomo sono caratterizzati dall'essere due individualità che si relazionano non confondendosi e non subordinandosi l'uno all'atro, una relazione attraverso cui l'uomo impara a conoscere il significato della legge di libertà.

Sarà questa relazione con Dio ad essere paradigma e base fondamentale di tutte le relazioni umane del tipo io-tu, relazioni produttive del nuovo in cui i due soggetti si danno come fine l'altro, modificando se stessi, pur non perdendo la propria libertà e autonomia.

Dunque, così come l'ebraismo insegna, il luogo in cui avviene l'incontro con Dio, ed in cui è all' uomo possibile ritornare simile la divino, è il luogo della relazione: Dio non dimora nelle cose, perché “non l' essere delle cose, (ma) solo il loro compimento è il suo luogo”19. La “Realizzazione” si pone come “il

18

Due tipi di fede: fede ebraica e fede cristiana, tr. it. Sergio Sorrentino, postfazione di David Flusser, Cinisello Balsamo: Paoline, 1995

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segreto dell'alleanza fra Dio e l'uomo”20, essa si compirà sulla terra attraverso la vita della vera comunità. Il tipo di verità che conduce a questa destinazione non è una verità in quanto idea, non in quanto figura, “bensì la verità in quanto azione ”21

. L'azione è la chiave di volta che collega l'umano e il divino, tramite cui l'uomo, attraverso la realizzazione di azioni che siano compiute in maniera unitaria, per mezzo del fisico e dell' intelletto umano, può ritrovare la sua similitudine con Dio; proprio come gli ebrei schiavi d'Egitto decisero di mobilitarsi per l'idea della Terra Promessa, la stessa terra cui Buber spinge ancora l'umanità a cercare.

La terra promessa in Buber nasce, cresce e si compie nelle relazioni interumane che sono caratterizzate alla loro base dal sentimento d'amore, e dal dialogo, e che vedono come protagonisti due persone che dialogano ed hanno come obiettivo la relazione stessa, senza che l'una si appropri dell'altra. Tipi di relazione che - similmente a quella dell'uomo con Dio, che ne sta alla base - non sono suscettibili di alcun meccanismo riduttivo, e che non esauriscono sé stesse attraverso uno dei due soggetti relazionanti. Buber analizzerà i testi biblici e la parola di Dio in questa chiave dialogica, i sacri scritti saranno da lui intesi quali testimonianza della storia del dialogo fra uomo e Dio, a cui rivolgersi per cogliere le qualità di cui si deve caratterizzare la relazione interumana.

20

Ibid. p. 214

21

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Capitolo 2: Il Chassidismo

2.1 Occidente e oriente a confronto

“L'occidentale comprende la propria sensazione a partire dal mondo, l'orientale comprende il mondo a partire dalla propria sensazione. Nella sua immagine del mondo l'occidentale muove dall'oggettività del mondo, anche quando si eleva all'astrazione suprema o discende nei segreti più profondi dell'anima; l'orientale muove dall'interiorità del mondo e la vive nella sua propria interiorità”22

Buber trova la differenza fra occidente ed oriente nel modo in cui le due tipologie di uomo entrano in contatto con il mondo, nel primo caso a partire dal luogo in cui si trovano, nel secondo a partire dalla propria interiorità. Questa doppia e diversa relazione si caratterizza da due movimenti inversi: un tornare presso sé stesso dell'occidentale, ed un uscire da sé stesso dell'orientale. Il movimento dell'uscire implica una relazione al mondo che sarà costituita da modi e limiti posti preliminarmente dall'uomo, annessi quindi alla propria umanità. Nel caso del rientrare, invece si scorge l'inverso: il luogo “mondo” sarà ciò da cui l'uomo occidentale trarrà le categorie, i modi ed i limiti da porre al proprio pensiero, alla propria interiorità. Quindi ciò che caratterizza l'uomo occidentale sarà un “pensare mondano” che deriva il proprio atteggiamento dal suo stare nel mondo.

Il mondo, in quanto luogo in cui si trova dà, all'uomo occidentale, le coordinate del suo agire in esso. Egli guarda al mondo, lo capisce, lo emula e vi abita. Non così è per l'ebreo, per l'orientale, per il quale il mondo non è semplice luogo, in cui si imbatte e da cui deve estrapolare le sue infinite leggi e regole per potervi sopravvivere, esso per lui è compito, meta che lo attende eternamente.

“Il greco vuole dominare il mondo, l'ebreo vuole portarlo a compimento; per il greco il mondo è, per l'ebreo diviene; il greco gli sta dinnanzi, l'ebreo gli è legato; il greco lo conosce sotto l'aspetto della misura, l'ebreo sotto quello del senso”23.

L'uscire da sé stesso che caratterizza l'orientale, mette quest'ultimo di fronte ad un mondo di cui egli ha già intravisto il senso, il percorso, ed il suo doveroso entrare in contatto con esso in un certo qual modo che preservi le sue proprie caratteristiche umane. Ciò che istituisce il senso della reazione con il mondo, non è quest'ultimo, bensì il senso ed il significato di essere uomo la cui umanità si coglie -come detto nel paragrafo precedente- nell'essere ad immagine di Dio.

Non è il luogo in cui l'orientale si trova, a forgiare la sua interiorità bensì la decisione del singolo che conferisce forma al mondo sulla base della propria umanità. L'occidentale entra in contatto con il mondo impreparato e non conoscendo sé stesso in quanto uomo. Sono le cose, gli oggetti e le forme che

22

M. Buber, Rinascimento ebraico, op. cit., p. 160

23

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costruiscono le sue vedute, è il mondo stesso ad esercitare su di lui un potere ed una autonoma capacità plasmatrice.

Ciò che caratterizza l'interiorità orientale, - capace di plasmare il mondo e di non lasciarsi conformare a tutti i costi dal luogo in cui si trova ad abitare- sembra essere dunque una certa autonomia, libertà che non si lascia assoggettare e convincere da elementi esterni ad essa. Quando l'orientale entra in relazione con il mondo non lo fa per conoscere, ma per affermare nel modo dell'azione ciò che già sa voler fare di esso e in esso. La sua azione è protesa alla realizzazione di quella Terra Promessa che Dio preannunciò agli ebrei fuggiaschi dall'Egitto. La verità che l'ebreo ricerca non la trova nel mondo bensì in sé stesso: nella propria azione.

“L'orientale reca la verità nel nocciolo della sua vita e la trova nel mondo in quanto la dà al mondo”24

L'occidentale non è libero poiché cerca nel luogo in cui abita i modi attraverso cui ripartire e destinare la propria interiorità, priva di interezza. Egli cerca i connotati dell'umanità nel luogo in cui si trova ad abitare, giungendo alla paradossale situazione in cui si dà che sia il luogo a definire il “fatto uomo” e non viceversa.

Il tratto “particolarmente minaccioso” che Buber riconosce nella crisi dell'occidente è “la forma secolarizzata della separazione tra il sacro ed il profano. Il sacro è divenuto in molti casi un concetto vuoto di realtà, la cui importanza risulta adesso meramente storica o etnologica”25. Questa separazione segna nel profondo l'uomo occidentale, non più in grado di accedere al sacro per mezzo della propria vita vissuta.

Il sacro si configura come quella stessa capacità di realizzare nel mondo ciò che il vivente “nel fondo della propria coscienza di sé, comprende ed osserva come giusto”26, esso è quindi l'essere capaci a creare un mondo che sia alla misura del vivente umano che siamo. È attraverso la rivisitazione del Chassidismo che il filosofo cerca di riportare il sacro ad abitare nella quotidianità. Esso insegna che ogni vita naturale può essere santificata, “la vera santificazione di uomo è la santificazione dell'umano che è in lui”27. Non esiste una vera separazione fra sacro e profano -afferma Buber, - ciò che è sacro è aperto a Dio e ciò che è profano è a lui chiuso, cosicché “la santificazione è l'evento di tale apertura”28, essa dunque dipende dalla nostra volontà di aprirci al divino.

C'è un dialogo, fra uno zaddik ed il proprio figlio, che Buber riporta in Chassidismo e Uomo occidentale, che esprime concretamente quello che è l'intimo senso e destinazione dell'insegnamento chassidico:

24

Ibid.

25

M. Buber, Il Chassidismo e l'uomo occidentale, op. cit., p. 32

26 Ibid. 27 Ibid. p. 27 28 Ibid. p. 26

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In esso, il padre domanda al proprio figlio, con cosa egli pregasse, ed il figlio, cogliendo dietro alla domanda un riferimento ad uno specifico versetto di preghiera, rispose recitando a memoria un sacro detto: “ Tutto ciò che vi è di alto, s'inchina dinnanzi a te ”. Quando fu il figlio a rivolgere la domanda al padre, quest'ultimo rispose: “Con la tavola e con la panca”.

La risposta dello zaddik si può leggere come un atto di “santificazione” con cui egli dà dimostrazione al figlio di come si possa aprirsi a Dio non solo nell'intelletto, attraverso la dedizione alla preghiera, bensì facendo “entrare” presso Dio tutto ciò che sta nel luogo in cui ci si trova, in questo caso ad esempio la tavola, su cui egli è proteso, e la panca su cui siede,

“facciamo entrare Dio nel mondo e tutto troverà pace”29

È con il “fare entrare” Dio nell'interezza della propria persona coinvolta negli impegni mondani, che davvero si santifica il mondo.

2.2 La dottrina dei vasi

Fu nel 1903-1904 che avvenne il secondo grande incontro di Buber con l'ebraismo: avvenne ciò che egli chiamò una delle “piccole rivelazioni della sua vita”. Fu nel mezzo della sua attività politica e di ricerca che “si imbattè in un documento del fondatore del Chassidismo, il Ba-al Shem Tov. Fu in quel momento che subito afferrò, dopo anni di indifferenza, la realtà della religiosità ebraica, in particolare dell'antica fede secondo cui l'uomo è fatto ad immagine di Dio”30.

Il Chassidismo nacque in Polonia attorno al XVIII sec., presso le comunità ebraiche dell'Europa orientale, e Rabbi Israel ben Eliezer, chiamato il Baal-Shem Tov, cioè il maestro del meraviglioso nome di Dio, ne fu il fondatore. Nel 1648 gli ebrei di Polonia furono colpiti da una serie di cruenti massacri che durarono per più di un decennio e distrussero le fondamenta del loro vivere in quei luoghi. In tutto il periodo che precede l'epoca nazista, gli ebrei dell'Europa orientale, furono soggetti a continue persecuzioni che li portarono a disperdersi nel mondo. Il terrore e l'esilio furono gli elementi che distrussero la vita di quelle comunità sopravvissute in Europa Orientale. Di fronte a questa situazione l'attesa e desiderata venuta del messia, -parte integrante della religiosità ebraica- divenne forte al punto da trasformarsi in un fanatico fervore. E fu proprio in corrispondenza di questo periodo in cui gli ebrei di Polonia aspettavano un intervento soprannaturale come mai prima avevano fatto, che fece la comparsa lo pseudo-messia, Sabbatai Zevi che provocò un profondo scisma interno in seno all'ebraismo.

29

Ibid. p.29

30

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Fu questa dispersione dell'ebreo nel mondo che generò la perdita di ciò che lo contraddistingueva31: la sua unitarietà. L'ebreo posto al di fuori della propria comunità, in una patria dalla terra e lingua straniera lo condusse per volontà e bisogno di sopravvivenza ad adottare quell'atteggiamento di mondano accomodamento al mondo che contraddistingueva l'occidentale.

“Siamo arrivati al punto che l'ebreo, dietro le spalle dell'assoluto, ha saputo sistemarsi con una certa comodità. Il che è più terribile dei massacri crociati e delle torture dell'inquisizione, più terribile di tutti i pogrom. La dipendenza dal potere di un mondo estraneo, dove, come qui, non si possa cercare di scuoterne via il giogo con guerre di liberazione, non può che portare ad adeguarsi all'elemento straniero, a un doppio adeguarsi: attraverso la resistenza e attraverso l'adattamento”32 .

Buber considera il Chassidismo, assieme con la haskalah (illuminismo ebraico), come quei nascenti antidoti contro quell'ormai inaridita esistenza dell'ebreo post-diaspora. Essi si imposero nell'Europa orientale come forze di rinascita dell'uomo intero, come “la cosa più forte, più caratteristica che la diaspora abbia creato: l'annunzio del rinascimento”33.

In questo periodo di “Rinascimento” l'uomo si accorge della presenza di Dio sulla terra, ed è allora, che l'uomo comincia a trovare Dio nelle relazioni con l'altro, nelle azioni quotidiane. Ciò che viene a mutare è il modo in cui l' uomo concepisce lo sguardo di Dio su di lui: inizialmente l'uomo si relazionava a Dio come se questo fosse al di sopra del suo mondo e potesse vederne solo le teste dall'alto, un Dio a cui, per porgere lui la propria devozione si sia costretti ad innalzare la testa al cielo, un Dio, appunto che vede l'uomo dall'alto. È questa nuova “presa di campo” di Dio che produce una nuova relazione fra Dio e uomo. L'uomo smette di alzare la testa per servire Dio e come Abramo al querceto di Mamrè incontrerà Dio incarnato nei tre viandanti, ossia nell'ospitalità stessa, così l'uomo da allora in poi incontrerà Dio in tutte le sue relazioni con l'altro. Buber parla di questo cambiamento utilizzando le categorie di religione e religiosità come fra loro opposte e designanti queste due differenti modalità di rapportarsi con Dio. Dopo la fase di rinascimento non saranno più i rituali liturgici a unire l' uomo a Dio ma il suo amore per gli altri uomini. Ed è così che Buber trova nelle relazioni io-tu il luogo in cui gli uomini continuano la creazione divina.

È nel Chassidismo, e nella sua peculiare interpretazione di esso, come si vedrà più approfonditamente nei capitoli successivi, che Buber trova quel tipo di religiosità a cui l'uomo può accedere attraverso la realizzazione di una vita comunitaria vissuta all'insegna della reciprocità, e del rispetto. Esso, si rivela essere quella specifica forma attraverso cui lo spirito orientale può trovare traducibilità anche presso il pragmatismo dell'uomo occidentale. Non si tratta, infatti, di attuare un atto di fede nei confronti di Dio.

31

“Di fronte al mondo della ragione illuminata e del progresso scientifico, l'ebraismo correva un doppio pericolo di morte: per mancanza di nutrimento spirituale se si fosse arroccato sull'ortodossia religiosa, rifiutando ogni forma di sapere secolare; e per dissoluzione, per l'annullamento di sé qualora si fosse estraniato dalla tradizione, assimilandosi alle culture dei paesi ospiti”. In M. Buber, Storie e leggende chassidiche, a cura di A. Lavagetto, Milano, Mondadori, 2008, p. XXV

32

M. Buber, Rinascimento ebraico, op. cit., pp. 229-230

33

Enzo Bianchi, intro. a M. Buber, La leggenda del Baal-Shem, (I ed. 1908), a cura di Enzo Bianchi, Torino, Gribaudi, 2000, p. 12

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Ciò che conduce alla più soddisfacente realizzazione è “vivere in una reale e autentica relazione con le persone, creature e cose del proprio ambiente”34 . Dio è realtà religiosa, immanente nell'universo, che si alimenta di relazioni, di incontri: a lui giunge il prolungamento di ogni nostra relazione, e la religiosità è questa stessa matassa di prolungamenti di relazioni, che ognuno di noi può decidere di accrescere attraverso la sua propria responsabilità.

C'è una certa dottrina, fra quelle che stanno alla base del chassidismo nota come “Dottrina dei vasi”, che può aiutarmi a spiegare con più evidenza quanto sopra affermato. In essa viene data figura e senso alla specifica relazione fra uomo e Dio di cui il chassidismo si caratterizza.

Si tratta di un racconto cosmogonico che narra del modo in cui Dio creò: egli nel momento di creazione contrasse sé stesso, quindi la propria luce, lasciando che si formasse uno spazio diverso da sé stesso, in cui generò Adamo. Il primo uomo nacque dunque come configurazione della stessa luce divina immessa nell'uomo. Poi Dio per catturare tale luce pose dei vasi in ogni posto dell'universo. Fra questi, molti non sopportarono l'intensità della luce e si ruppero lasciando disperdere a milioni le loro scintille nella creazione. La stessa cosa accadde ad Adamo, a causa della cui caduta venne dispersa la sua luce in esilio assieme alle altre scintille.

Dopo tale accadimento, il compito dell'uomo divenne quello di conferire nuova unificazione alla totalità delle scintille disperse nella creazione in modo da riunirle con l'essere divino a cui appartennero e ancora appartengono35.

Se ci pensiamo, è come se Dio, dopo aver creato l'uomo, avesse poi realizzato una situazione -quella della dispersione delle scintille di creazione- in cui l'uomo, -in quanto impartito del compito di ricreare l'unione originaria della luce divina,- fosse destinato per questo a entrare in contatto con il disegno unitario che Dio inizialmente creò. Questa situazione -di dispersione della luce divina - fa sì che l'uomo, essendo impegnato in questa attività di ricerca ed unificazione, entri in contatto con Dio tramite questa stessa azione di ricomposizione.

Questo disordine è come se divenisse l'opportunità con la quale Dio, tenendo impegnato nell'opera di riordino l'uomo, si faccia da lui conoscere attraverso questo impegno ed impedisca all'uomo di deviare in altro modo la Sua ricerca. Incarico che si può riconosce come responsabilità sociale nel modo in cui il ritrovamento delle scintille e la loro riunificazione avviene attraverso la relazione interumana. È attraverso questo compito di ricomposizione conferito da Dio all'uomo che Dio si fa conoscere: Lui, la Sua essenza divengono questo stesso atto di ricomposizione. Ogni incontro e relazione autentica sarà un progresso verso l'opera di ricostruzione dell'unità divina. In questo evento di “rottura” post-creazione, si può cogliere, più che una mera casualità, un piano divino per impedire all'uomo di coglierLo in nessun

34

P. Vermes, op. cit., p. 49

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altro modo o via che non sia quella dell'agire sociale. Qui sta il nucleo pulsante della dottrina chassidica, e il suo potenziale di attiva rinascita.

I primi libri che nacquero dopo i cinque anni, dedicati da Buber, allo studio dell' Chassidismo furono I

racconti di Rabbi Nachman (1906) e La leggenda del Baal Shem (1908) . Fu a distanza di anni, nel 1957,

che avrebbe descritto questo suo lavoro come una sorta di compito, “quella missione di portare il messaggio di questa setta al mondo, che disperatamente aveva il bisogno di conoscere”36.

Inizialmente questo suo lavoro di ricerca e trasmissione non ebbe una vasta risonanza, rimase sconosciuto e disprezzato dalla cultura ebraica. Disprezzo dovuto al fatto che la lettura del chassidismo da parte del filosofo non fu filtrata da uno studio attento e scrupoloso per quanto concerne le origini storiche del chassidismo, si trattò più di reinterpretare quelle leggende mettendo in risalto gli elementi vitali che ne stavano alla base37, eliminando tutti quei residui di misticismo, che Buber si preoccupò di isolare in quanto potenziali ostacoli per la sua compiuta comprensione nell'occidente :

“Il messaggio chassidico, poteva essere immesso nel mondo, perché poteva e doveva parlare all'uomo occidentale: la sua rinarrazione si configurava pertanto all'insegna di una finalità scopertamente etica prima ancora che filologica”38.

Il lavoro del filosofo viennese riuscì a “conferire al Chassidismo un'unità, una chiarezza ed una forza propulsiva che nessun movimento attuale possedeva, in aggiunta riuscì ad enfatizzare e adattare gli aspetti del suo insegnamento in modo che fossero il più vicino possibile ai problemi della contemporaneità di allora”39.

2.3 Il ruolo del mito

“Nel Chassidismo, l'ebraismo sotterraneo trionfa per un momento sull'ebraismo ufficiale: sull'ebraismo universalmente noto, limpido, di cui si narra la storia e la cui essenza viene annunciata in formule a tutti comprensibili”40

Il mito diviene non solo il contenuto prediletto da Buber di ciò che coglie nella tradizione Chassidica, -di cui raccoglie e ri-racconta antiche leggende e miti- bensì la forma che deve riacquistare il predominio

36 Malcom L. Diamond, Martin Buber: Jewish Existentialist, Oxford University Press, 1960, p. 111 37

“Buber presentò le “scritture” del Chassidismo del diciottesimo secolo così come vennero comprese da lui, ebreo del secolo XX. Egli pose l'accento su quanto, dalla prospettiva di un'altra età, ritenne come veramente chassidico e lasciò cadere tutto quanto individuò come superstizioso, magico, bigotto, realtà queste ultime ampiamente presenti che egli sentì come non adatte ad una religiosità autentica.” in P. Vermes, op. cit., p.24

38

M. Buber, Il chassidismo e l'uomo occidentale, op. cit., p.6

39

Malcom L. Diamond, op. cit., p.112

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all'interno del percepire umano. L'uomo - è questo una delle missioni del Chassidismo nei confronti dell'occidente - deve poter imparare nuovamente a vedere nella forma del mito, esso deve riaffermarsi in quanto facoltà, modalità e filtro del sentire umano.

Il mito viene inteso da Buber come “racconto di un accadere divino inteso come realtà sensibile”41, in cui si trova la forza originaria della vita religiosa stessa. Esso è il luogo in cui si trovano inseparabilmente l'uno di fronte all'altro il divino e l'umano all'interno di una dimensione del sacro che non ha limiti, caratterizzata dalla totale assenza del profano. Una realtà questa a cui Buber cerca attivamente di ritornare, in un secolo in cui la “nietzschiana morte di Dio ha reso lo spazio (altrettanto) omogeneo”42 ma nel senso della totale assenza del sacro.

In questo senso il Chassidismo offre all'uomo occidentale un modo diverso di entrare nel mondo: un ingresso che si ponga come un andare verso di esso a partire da un'unità d'animo43 che egli trova in sé stesso, sulla base delle proprie radici.

L'importanza che per Buber il mito riveste è direttamente collegata al modo in cui egli concepisce la religione, ed il rapporto fra umano e divino, in un contesto ebraico. Fra i due non vi è un rapporto per il quale l'uomo crede nel secondo in maniera teoretica o dogmatica così come accade nel cristianesimo. Ciò che lega l'ebreo a Dio è il sempre vivo ricordo di quella memoria trasmessa attraverso i secoli, dell'intervento divino in Egitto, del suo essere entrato nella storia ed aver condotto gli ebrei fuori da quel luogo privo di giustizia.

Il credere in Dio non si pone dunque tanto nel modo di un'accettazione, bensì nel modo del riconoscimento, sulla base di una memoria, e di un credere sulla base di una fiducia. Se poniamo attenzione a questi due diversi modi di entrare in contatto con il divino, vediamo che proprio da un punto di vista teoretico, fra l'accettazione e il riconoscimento sulla base di una memoria, vi è una grande differenza.

L'accettare ed il rifiutare si pongono come una scelta autonoma, e chiunque, prima di noi sia già stato posto di fronte ad una stessa decisione, -come quella appunto di accettare o meno di credere a Dio- il fatto che egli abbia accettato o meno quel fatto, mi potrà influenzare fino ad un certo punto, poiché si tratta di scegliere se accogliere o meno quel dato contenuto di fede.

41 M. Buber, Rinascimento ebraico, op. cit., p. 195 42

F. Ferrari, Intro. a M. Buber, Il Chassidismo e l'uomo occidentale, a cura di F. Ferrari, Genova, Il nuovo Melangolo, 2012, p. 12

43

“L'atteggiamento fondamentale dell'ebreo è designato dal concetto di Yichud, di “unificazione”, che viene frainteso in molti modi. Si tratta dell'attestazione incessantemente rinnovata dell'unità divina nella molteplicità delle manifestazioni, e tuttavia intesa in modo del tutto pratico: sempre di nuovo attraverso la percezione e la conferma dell'uomo, di fronte all'enorme contraddittorietà della vita, e specialmente di fronte a quella contraddizione originaria che si manifesta in modo molteplice e che noi chiamiamo la dualità di bene e male, questa contraddittorietà viene portata non alla contrapposizione, ma all'amore e alla riconciliazione, all' Unificazione, cioè: al riconoscere, riconoscere per ciò che è, riconoscere nuovamente l'unità divina ” in M. Buber, La passione credente dell'ebreo, a cura di N. Bombaci, Brescia, Morcelliana, 2007, pp. 53-54

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Nel caso del riconoscimento invece, ciò che viene meno è essenzialmente l'autonomia con la quale posso scegliere in proposito. Anche qui, si impone la scelta fra riconoscere o non riconoscere, ma ora la decisione non è più svincolata. Riconoscere significa infatti conoscere nuovamente, affermando, qualcosa che già qualcuno prima di me aveva conosciuto; il riconoscere implica la testimonianza dell'esistenza di un fatto. Dunque di fronte alla scelta del riconoscimento io non posso mai essere in completa autonomia, perché di fianco a me ho un testimone, ben lungi dall'essere solo, la mia decisione mi metterà in diretto rapporto con quel testimone, che prima di me è stato di fronte a quel fatto: la presenza di Dio.

L'atto del riconoscere44 è fondamentalmente ebraico. Esso si svolge su di un terreno fondato per mezzo di una memoria, in cui non è chiesto di accettare Dio, bensì di riconoscerlo. L'ebreo abita già nella realtà di Dio, per questo non lo deve accettare, egli è già da sempre,- essendo discendente delle tribù cui Dio si rivolse in Egitto,- in contatto con Lui. La sua memoria, la sua storia e cultura sono questa testimonianza45. È per questo che l'ebreo dimora nel mito, perché non può non accettare Dio, -al modo di un cristiano- senza che la propria esistenza si senta privata di quella forza vitale46 che per secoli ha dato senso a tutte le generazioni dei discendenti degli ebrei d'Egitto. Il cristiano lo può fare, perché il Dio è per lui contenuto di verità47. Per l'ebreo è diverso, anch'egli può voltarsi dall'altra parte, non riconoscere Dio, decidere di vivere in maniera diversa da come Dio ha insegnato, ma l'ebreo nasce riconoscendo Dio48 quel Dio che suo padre e il padre di suo padre sempre hanno trovato già da sempre presente nella loro realtà.

44 “L'esperienza-del-Tu fatta da Israele, della relazione diretta, l'esperienza semplicemente singolare, è così potente da far sì che

non possa sorgere la rappresentazione di una pluralità di principi. Di contro il “pagano” è l'uomo che non-riconosce Dio nelle forme della sua manifestazione; piuttosto: l'uomo è pagano nella misura in cui non riconosce Dio nelle sue forme di manifestazione” in Ibid. p.53

45

“Per Buber il Giudaismo è basato su di una memoria comune, una memoria generazionale che è preservata nella narrazione. La narrazione biblica che Buber considera come l'unica via con cui con immediatezza si articola la conoscenza circa gli eventi, sostiene il primo prezioso episodio di questa comune memoria. Questa comune memoria ebraica è forgiata tramite la rinarrazione delle storie bibliche narrate durante il giorno della Pasqua ebraica dai genitori ai bambini di generazione in generazione. Tramite il racconto di questo legame con Dio, Buber sostiene che gli ebrei di ogni generazione possano fare esperienza di questo atto divino in prima persona. In questo modo, ciò che è parte di una memoria comune diventa parte della memoria personale di ogni ebreo.” In S. Kepnes, The text as Thou Martin Buber's Dialogical Hermeneutics and Narrative Theology, Indiana University Press, 1992, pp. 122-3

46

“Ci si può rivolgere all'ebraismo come al legame in quanto tale, il legame di questa comunità umana con la propria origine, un legame con Dio, che non è semplicemente qui qualcosa di stabile, sicuro, posto dentro all'uomo, bensì qualcosa che diviene di volta in volta, che scorre, che si riversa, che si sedimenta: l'accadere dell'essere legato a Dio dell'uomo. Questo spirito vuole trovare la sua realtà, per la quale discende sugli uomini: per la consacrazione del mondo” In M. Buber, Umanesimo ebraico, op. cit., p.72

47 “L' emunah e la pistis non sono fondate in modo esaustivo in alcuna tradizione religiosa specifica, tuttavia esse sono presenti

rispettivamente nel Giudaismo e nel Cristianesimo. Dal punto di vista di Buber, la comunità che si fonda sull'emunah (fede) è una comunità che semplicemente è data, mentre quella che si fonda sulla pistis è una comunità che è stata creata. Ognuno trova sé stesso nella fede considerata come emunah, mentre la pistis implica che qualcuno venga convertito alla credenza.” In B. L. Donald, Mutuality: the vision of Martin Buber, State University of New York Press, 1985, pp. 79-80

48 A questo proposito Buber stesso afferma che “è rimesso alla libertà dell'uomo lo scegliere o il rifiutare Dio, tuttavia non in un

rapporto di fede svincolato dal mondo, ma nella compiuta pienezza del quotidiano (…). Ogni uomo è, nonostante tutta la storia passata, nonostante tutta la materia trasmessa ereditariamente, nella nuda situazione di Adamo; ad ogni uomo è assegnata la decisione” (bensì Buber sottolinea come questa scelta di apertura o chiusura nei confronti di Dio non sottragga Dio dalla sua realtà, ma operando sulla sua personale prospettiva, faccia vivere, quel singolo uomo, in una realtà in cui Dio pur esistendo viene ad essere ignorato. La decisione di riconoscere o meno Dio non cambia la realtà di coabitazione di divino ed umano, infatti, ciò che Dio ha voluto creare non può essere intaccato da alcuna azione umana). In M. Buber, La passione credente dell'ebreo, op. cit., pp. 57-58

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È quindi questo essere posti già da sempre in una realtà in cui l'uomo coabita con il divino -che contraddistingue il vivere ebraico- al quale Buber vuole educare l'uomo occidentale. Il riuscire a restaurare un “sguardo mitico”, che ponga il divino non più come idea, verità, bensì come puro accadere. Riconoscere Dio come accadimento, è accoglierlo nel mondo santificando quest'ultimo.

Il mito non è né una storia metaforica che tratta di un qualche evento spirituale, né il racconto di un evento sovrannaturale, bensì il resoconto di un evento naturale, ossia, -come Buber afferma- di “un evento accaduto nel mondo sensibile comune agli uomini ed inserito nelle sue connessioni. La schiera che lo sperimentò, lo accolse su di sé come rivelazione di Dio e lo custodì nella memoria delle generazioni, memoria accesa d'entusiasmo e figurativa, ma non arbitraria”49.

Non si tratterebbe quindi tanto di accettare una qualche verità nei confronti della quale l'uomo occidentale dall'alto della sua conoscenza, potrebbe trovare difficoltà ad accogliere, ma di riconoscere la presenza divina nella storia ed in ogni accadimento mondano. Come si vedrà nel capitolo successivo, la possibilità di tale riconoscimento sarà avverabile anche dall'uomo occidentale all'interno del contesto sociale e relazionale dell'incontro.

Buber si riferisce agli elementi mitici della religione per cercare di ridestare questo autentico contatto fra uomo e Dio, che si svolge non sul terreno dell'accettazione di Dio sulla base di una scelta arbitraria del fedele, bensì sul riconoscimento della relazione con Dio come fatto primo ed indubitabile.

“Se la cosa, è posta in questi termini, allora anche l'uomo d'oggi può trovare l'accesso alla rivelazione biblica, tornando si ad essa, ma senza rinnegare la realtà”50.

49

M. Buber, Umanesimo ebraico, op. cit. p.22

50

(26)

- 26 -

Capitolo 3: Filosofia dialogica

3.1 Io e Tu

Il 1923, anno della pubblicazione di Ich und Du, segna l'inizio del periodo di riflessione filosofica matura di Martin Buber, nota come filosofia dialogica. Dal 1923 Buber ottenne la cattedra di professore incaricato di Scienza della religione ebraica ed etica ebraica all'Università di Francoforte, città in cui , due anni dopo, avrebbe tenuto lezioni anche al Freies Jüdisches Lehraus, fondato da Franz Rosensweig, iniziando con lui una lunga e duratura collaborazione per un progetto di traduzione tedesca della Bibbia51. Il tema fondamentale di Io e Tu è l'esistenza52, più precisamente l'esistenza dell'uomo nel suo duplice modo di rivolgersi al mondo: “il mondo ha per l'uomo due volti, secondo il suo duplice atteggiamento”. Questo duplice atteggiamento viene rappresentato da Buber attraverso i sintagmi Io-Tu ed Io-Esso, essi esprimono due diverse modalità di entrare a contatto con il mondo, all'interno del quale Buber riconosce tre sfere di relazione: natura, uomo ed essenze spirituali.

Il modo dell'Io-Esso esprime una relazione si potrebbe dire “pianificata”, l'uomo si rivolge ad un qualche ente o ad un altro uomo avendo di partenza uno scopo, come l'utilizzo di una cosa o il rivolgersi ad una persona per l'ottenimento di un certo fine. Ciò che caratterizza l'Io-Esso è la presenza di volontà non disinteressata che sta dietro l'instaurazione di un contatto con l'altro. Buber utilizza il termine Esso in opposizione al Tu perché, nel primo caso, la terza persona si utilizza per fare riferimento ad un qualcosa che è qualificato, determinato, oggettuale. Con l'esso si instaura un rapporto caratterizzato dall' essere mediato: è il fatto di riconoscere un certo esso per quello che è a motivarci ad entrare in contatto con quello. Questo è il modo in cui l'uomo si rivolge al mondo facendone esperienza, conoscendolo e portando entro sé stesso quel che ne ha appreso53.

Quando invece ci si rivolge ad un qualche ente o altro uomo nel modo dell'Io-Tu questo rivolgersi è all'oscuro di qualsiasi conoscenza o riconoscimento oggettivo rispetto a ciò che sta di fronte. L'essere privo di qualificazione oggettiva del tu che ci sta di fronte, fa in modo che il mio entrare in relazione con

51

M. Buber, Il principio dialogico ed altri saggi, op. cit., p.7

52

“Io e Tu di Martin Buber è una via per apprendere e chiarificare nel profondo tutte le forme di esperienza, è si un' opera di filosofia, bensì si riferisce e riflette su questioni reali più che su problematiche prettamente filosofiche. Per Buber i problemi filosofici emergono solo quando l'uomo riflette su delle questioni reali, con le quali egli intende problematiche che hanno a che fare con la persona nella sua interezza e non riferibili alla sola sfera intellettuale, questioni che urgono e premono sulla totalità della persona. Queste questioni “reali”, nel senso appena spiegato, sorgono fuori dalla consapevolezza che l'uomo ha di sé stesso, ad esse non vi è una risposta che può essere data in modo definitivo,ed il fatto che l'uomo si ponga più volte questioni di questo tipo è un atteggiamento necessario che determina l'essere umano, e riflettere su di essere è la maggiore funzione della filosofia. La rilevanza che Buber conferisce alle esperienze di vita, è uno dei punti cardine della filosfia buberiana ” In Malcom L. Diamond, op. cit., p.15

53

“L'io di io-esso è quello che sperimenta, assente, confronta, somma, analizza e apprende. È dal mondo-Esso che traggo qualunque conoscenza, giudizio e progresso da me posseduti e goduti.” In P. Vermes, op. cit., p.63

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