• Non ci sono risultati.

Ontologia della relazione: ripensare il sociale

Parte seconda: Antropologia filosofica

Capitolo 4: Chi è l'uomo?

5.2 Ontologia della relazione: ripensare il sociale

“Attraverso uno spostamento ontologico, lontano dal cogito cartesiano, Martin Buber offre un'interpretazione ed una comprensione alternativa della società, proponendo una prospettiva in grado di

112 Ibid., p.67 113 Ibid., p.10 114 Ibid., p. 7 115

“Il senso non lo troviamo già posto nelle cose, e nemmeno ce lo mettiamo: può tuttavia avvenire tra noi e le cose” in In M. Buber, L'uomo tra il bene e il male. Formare la propria vita secondo la dottrina del Chassidismo, op. cit., p 35

- 49 -

migliorarla. Buber asserisce che l'io e la società sono costruiti, anche se spesso se ne è inconsapevoli, dallo stesso essere di cui sono fatte le relazioni fra persone ”116

Il filosofo sostiene che la crisi che coinvolge l'uomo moderno sia direttamente collegata alla preminenza che il pensiero cartesiano ha assunto anche entro la riflessione sociale.

Cartesio ha posto il pensiero soggettivo a fondamento dell'essere e del conoscere dell'io individuale117. Al contrario Buber considera il pensiero più come uno strumento, che possa essere usato all'occorrenza, e non ad esso come il fondamento su cui poggi il nostro essere ed il nostro percepire in quanto umani118. Il fondamento dell'uomo poggia nel suo essere costantemente in relazione.

Se il pensiero soggettivo non è più fondamento del nostro essere119, noi veniamo a dipendere da qualcosa che sta fuori di noi: la relazione con l'altro. Ciò produce un cambiamento nella consistenza stessa del tessuto sociale: i singoli individui non sono più in grado di determinare, al di là di un certo limite, né se stessi, né il tessuto sociale, perché quest'ultimo diviene ciò su cui egli è fondato. Il fondamento di ogni uomo che, nella prospettiva del cogito, veniva a coincidere con il pensiero soggettivo, ora non è più qualcosa di privato, ma comune120.

La consistenza del sociale cambia. Non vi sono più singoli individui dotati di un proprio fondamento, bensì persone il cui essere è diretta conseguenza del contesto sociale. Il pensiero soggettivo rimane in relativa autonomia, ma è considerato in quanto strumento e non più come fondamento.

116

Charles Rustin, Martin Buber and the ontological crisis of modern, in «Critical Review of International Social Political Philosophy», 2:4, 74-104. Cit. p. 74

117

“Ego cogito per Descartes non significa semplicemente “io ho coscienza”, ma: “Sono io, che ho coscienza”- cioè il prodotto di una triplice astrazione. Innanzitutto la riflessione, il “ripiegamento” della persona su se stessa, astrae, da ciò che è stato sperimentato nella situazione concreta, la “coscienza”, che là non era sperimentabile come tale; inoltre stabilisce che per una coscienza occorre un soggetto, e lo indica con la parola "io"; infine identifica la persona stessa, la vivente persona psicofisica, con quell'“io”, cioè con il soggetto astratto della coscienza ottenuto nell'astrazione. Dal “questo” della situazione concreta, il quale racchiude il percepire e il percepito, il rappresentare e il rappresentato, il pensare e il pensato, nasce in un primo tempo l'“io penso questo”, cioè un soggetto pensa questo oggetto, allora “questo” in fondo indispensabile viene tralasciato; e abbiamo ora il giudizio della persona su se stessa: quindi io (non più il soggetto, la persona vivente che ci parla) ho un'esistenza reale; perché nell'ego dovrebbe ora essere compresa tale esistenza. (Ma) l'io della persona vivente non si può sperimentare come esistente mediante una tale deduzione, ma soltanto nel vero rapporto con un Tu. Sulla via dell'astrazione filosofica non si può raggiungere nuovamente la concretezza da cui parte ogni filosofare: la concretezza è stata eliminata” in M. Buber, L'Eclissi di Dio. Considerazioni sul rapporto tra religione e filosofia, op. cit., pp. 39-40

118

Infatti come si è visto in Ich Und Du, la relazione che caratterizza l'uomo in quanto tale è quella del tipo Io-Tu, la quale si effettua nell'incontro vivo di una relazione; il pensiero si attua invece nel campo dell'Io-Esso. Tramite il pensiero, l'uomo trasforma in oggetto le relazioni che attua, assimilandole nel pensiero. Tuttavia ciò che in primo luogo caratterizza l'uomo non è tanto la capacità di fare esperienze e tramutarle in contenuti oggettivi, quanto la relazione del tipo Io-Tu.

119

“Il pensiero umano non è identificato con il grumo di essere che lo configura. È l'essere che ha il primato sul pensare. Il pensare viene circoscritto e condizionato dall'essere. In questa prospettiva della conoscenza metafisica il Buber divarica l'orizzonte alla condizione di possibilità della stessa conoscenza umana, non con una ipotetica assolutizzazione, ma con una radicale apertura operativa. La conoscenza umana è aperta all'essere, ma non è esaustiva dell'essere. ” In A. Babolin, art. cit., p. 149

120

“L'io della relazione Io-Tu è infatti la difficile terza via fatta di ricettività e azione, ascolto e responsabilità, “patire e agire”, tra Homo Faber e Sapiens, dall'io ipertrofico, che ha un sapere, una conoscenza fatta di separazione e utilizzabilità, per cui “l'uomo in cui prevale l'elemento dell'io (è) l'uomo che dice Io-Esso”, ed un uomo dall'Io annichilito, nullificato, soppresso: l'Homo di Buber non è tanto “Sapiens”, quanto piuttosto “Capiens”, ossia capace, dove le due accezioni con cui il termine viene utilizzato sono chiamate a coincidere: la capacità, infatti, sia essa di una bottiglia o di un essere umano, è sempre e anzitutto, la possibilità, la facoltà di farsi attraversare, riempire, ispirare, da qualcosa e qualcuno. È capienza ”. In Francesco Ferrari, Presenza e relazione nel pensiero di Martin Buber, Alessandria, Edizioni dell'Orso, 2012, pp. 179-180

- 50 -

Il modello cartesiano implica una prospettiva del sociale in cui l'individuo, simile ad un atomo121, concepito nella sua assoluta autonomia e chiusura, si relaziona al mondo sulla base della relazione con sé stesso e di conseguenza, si pone in un atteggiamento ostile nei confronti del mondo:

“ Il fatto che l'io sia considerato il fondamento della conoscenza, ha delle ripercussioni nel sociale: il pensiero soggettivo diventa oggettivo e si concretizza in norme sociali considerate indiscutibili. Quando ciò accade, l'essere umano diventa pronto a difendere, con la sua stessa vita se necessario, queste differenze “oggettive” che si originarono al modo di un'idea nella mente di qualcuno. L'ironia per Buber sta nel fatto che l'essere umano, in realtà, abbisogna di un altro per sviluppare la propria identità ”122. Se noi invece poniamo la relazione a fondamento, lo spazio sociale prende una nuova fisionomia, non più cosmo costituito da atomi che si scontrano, ma spazio omogeneo. Fra gli individui non c'è più spazio vuoto di collisione in cui è possibile lo scontro ed anche la conseguente eventuale frattura del tessuto relazionale. Qui le differenze individuali sono subordinate al fatto primo che è la relazione fra persone. Lo spazio effettivo della relazione è quello in cui gli individui, pur scontrandosi, non possono spezzare la rete sociale ma tutt'al più allontanarsi. Il singolo non è più in grado di spezzare il contesto relazionale sulla base della propria differenza, ma solo di produrre configurazioni differenti di uno spazio destinato a rimanere indiviso. Poiché ogni individualità non è più fondata sulla differenza ma sulla relazione, si comprende che l'uomo non è più capace di compiere il male assoluto, ossia di eliminare la relazione, poiché quest'ultima non è più qualcosa che dipende da lui, ma realtà lui esterna da cui egli dipende. Buber vede in questa sua prospettiva, - che trasforma il pensiero del singolo da fondamento a semplice strumento- la possibilità di rifondare una comunità sociale in cui ciò che viene messo in risalto sia “il comune prendere parte” e non la differenza fra individui. In questa prospettiva si deve mettere in risalto la relazione come prioritaria rispetto alle differenze soggettive123.

Le differenze individuali124 tuttavia non devono essere trascurate, “nelle parole di Peter Bertocci ,“Buber oppone all'asserzione hegeliana in cui si considera il tutto come “l'unità in cui tutte le vacche sono nere” la speranza di “un'unità in cui la pluralità sia significativa e l'individualità produttiva.” ”125

121

“In questa prospettiva l'uomo è visto “prevalentemente come individuo solitario, chiuso come monade irrelata, isolato dagli altri, autosufficiente, in rapporto solo con una oggettività materiale da sottomettere per mezzo della conoscenza e dominazione”. Si tratta della cosiddetta “egologia” (o antropologia dell'io solitario), di una prospettiva antropologica che, fondata sul pensiero aristotelico ed enunciata chiaramente nel pensiero cartesiano, si sforza di afferrare il mistero dell'uomo “prescindendo dalla sua coesistenza con gli altri, cioè dalla relazione interpersonale”. È la “sostituzione del geocentrismo con un pronunciato antropocentrismo” ”. In Giuseppe Bon, op. cit., p. 38

122

Charles Rustin, art. cit., p.82

123 “Bisogna che l'uomo si renda conto innanzitutto lui stesso che le situazioni conflittuali che l'oppongono agli altri sono solo le

conseguenze di situazioni conflittuali presenti nella sua anima, e che quindi deve sforzarsi di superare il proprio conflitto interiore per potersi così rivolgere ai suoi simili da uomo trasformato, pacificato, e allacciare con loro relazioni nuove, trasformate. Indubbiamente, per sua natura, l'uomo cerca di eludere questa svolta decisiva che ferisce in profondità il suo rapporto abituale con il mondo” in M. Buber, Il cammino dell'uomo secondo l'insegnamento chassidico, op. cit., p.44

124

“Gli uomini sono ineguali per natura e pertanto non bisogna renderli uguali. […] È infatti la diversità degli uomini, la differenziazione delle loro qualità e delle loro tendenze che costituisce la grande risorsa del genere umano.” In Ibid., p. 28

125

- 51 -

Se la mia identità non poggia più sul pensiero che io ho di me stesso, ed il mio pensiero diviene solo strumento per entrare nel mio fondamento che è la relazione stessa, allora tutto ciò che riguarda la mia individualità, il modo in cui guardare ad essa, deve essere convertito a questo nuovo fondamento che abbiamo scoperto essere la relazione126.

Pensare è il mezzo che è a nostra disposizione per comprendere il nostro fondamento, non per fondare il nostro io individuale. Pensare e volere sono i mezzi con cui esploriamo la realtà relazionale, e comprendiamo noi stessi, la nostra identità che coincide non con il nostro pensiero, e nemmeno con la nostra volontà, ma con le relazioni che attuiamo. Il pensiero infatti ha a che fare con il mondo dell'Esso, in cui sono destinate ad essere riconvertite tutte le relazioni su cui l'umano si fonda.

Da tutto ciò si ha una conseguenza importante: l'uomo non è più in diretto contatto con il fondamento di sé stesso: per trovarsi deve uscire, e cercare sé stesso nella relazione con l'altro. Non può più limitarsi a pensare, in un dialogo che avviene fra sé e sé. Diventa impossibile conoscersi nell'autonomia della riflessione. Tutti gli atti teoretici, intellettivi di cui l'uomo è capace, e attraverso cui l'uomo cerca di conoscere sono, in realtà, incapaci di portare l'uomo di fronte a sé stesso.

Per Buber il conoscere autentico può avvenire soltanto nella sfera della praticità, l'“entrate a contatto” è il modo in cui l'uomo può accedere alla verità. Troviamo verità nella risposta dell'altro, a cui chiediamo testimonianza rispetto ciò che stiamo vivendo, non troviamo verità entro noi stessi. Il pensiero è il mezzo con cui poniamo la domanda, ma la verità possiamo solo trovarla nella risposta pronunciata dall'altro. Quindi la nostra conoscenza troverà salde fondamenta solo nella fiducia che riponiamo nell'altro. Nessun uomo può trovare la realtà nel proprio cogito127.

L'importante cambiamento che deriva da questa presa di coscienza incide sul nostro modo di intendere la società: se essa non è più formata da individui-atomo, separati fra loro da “spazi vuoti” (spazi di pura arbitrarietà) entro cui si scontrano ma, al contrario, questi spazi vuoti diventano contigui in uno spazio omogeneo, (diventano relazioni necessarie) ciò significa che ognuno di noi non è mai in uno stato di isolamento effettivo. Il fatto che la relazione non si dia come risultato di una volontà singola che decide di relazionarsi, bensì come a-priori fondamentale, dimostra che fra un uomo ed un altro non vi è uno spazio di pura arbitrarietà, in cui si può decidere o meno di porsi in relazione all'altro, ma che fra un uomo e l'altro vi sia spazio di relazione rispetto a cui entrambi non possono sottrarsi.

Questa impossibilità di essere in un assoluto isolamento ci caratterizza: di fronte a noi sono aperte solo possibilità positive, ossia che producono un certo stato d'essere, (non siamo in grado di sottrarre essere, di

126

“L'a priori della relazione trasforma quindi l'uomo della separazione in un uomo ispirato, che, in quanto tale, si coglie come particella dello spirito che tutto abbraccia. “Egli vede le singole cose, ma non ognuna come esistente per sé, in sé riposante e chiusa, bensì tutte come punti nodali del movimento infinito che va attraverso lui medesimo” ”. in Francesco Ferrari, op. cit., p. 91.

127

“Il solipsismo è la "grande minaccia, […] nella deriva solipsistica, “l'individualità si occupa del suo “mio”: la mia particolarità, la mia razza, la mia creazione, il mio genio. L'individualità non è partecipe di alcuna realtà e non ne raggiunge nessuna”, laddove abbiamo visto come per Buber non c'è realtà se non c'è prima di tutti relazione”. In ibid. p. 179

- 52 -

eliminare lo spazio relazionale). Anche quando ci distanziamo dalla relazione con l'altro, questo allontanamento è qualcosa di affermativo, che si aggiunge al tessuto relazionale. Non è a noi possibile compiere atti negativi, perché il fondamento del nostro essere (la relazione) sta fuori di noi, dunque non possiamo sottrarre realtà a qualcosa che non ci appartiene.

Il nulla, inteso come spazio di pura arbitrarietà, che si frapponeva fra gli individui-atomo, non può più esistere128. Lo spazio di relazione che intercorre e lega ogni uomo non può mai trasformarsi in nulla, non può mai smettere di esistere fino a che ci sarà uomo.

Buber vince il nichilismo, ancor prima di ricorrere alla teologia. Non è Dio a stare a fondamento della prospettiva di senso in cui vive l'uomo, bensì la stessa fattezza dell'uomo. Il nulla, come abbiamo visto in

Distanza originaria e relazione, non è più possibile, perché da che l'uomo esiste, nessuno potrà sottrarlo

alla sfera di relazione. Ed ogni azione egli compia sarà destinata a produrre effetti positivi che si aggiungono a quella realtà sociale.

Nella teologia Buber rintraccia quella dimensione in cui trova affermata questa realtà: il vivere religioso è l'esistenza nella responsabilità129. Per questo si dà che in Buber Dio non è posto come dimensione di senso da accettare per vincere il nichilismo e ristabilire una prospettiva valoriale in cui l'uomo moderno possa vivere in giustizia. Dio coincide con questo spazio di relazione, ed è solo sulla base della nostra giusta comprensione del sociale che noi possiamo incontrarLo130.

Il nulla, il pericolo della totale perdita di orientamento e di senso, è vinto sul piano antropologico, in cui si riconosce l'uomo come incapace di sottrarsi ad un fondamento -la relazione- a cui non può fare a meno di riferirsi continuamente, sia agendo nel bene, sia agendo nel male. La relazione rimarrà sempre la dimensione di senso entro cui l'uomo vive131.

128

“L'a priori ontologico dell'io è il Tu, perché dal Tu, colto come presenza pura, deriva il movimento ontologico che configura, in tutto il proprio statuto, la presenza dell'egoità come egoità data. In questo rapporto di presenza ontologica e di svelamento radicale, puntualizzato ed esaurito nell'atto presenziale dell'essere, nessuna mediazione può avere consistenza o può essere ipotizzata, perché ogni mediazione, nell'ordine della presenza dell'essere, importerebbe una frattura e con la frattura e lo stacco dell'essere verrebbe ipotizzato il nulla.” In A. Babolin, art. cit.,p. 80

129

“La vera religiosità è azione. Essa vuole plasmare l'assoluto nella materia della terra. Il volto di Dio riposa invisibile nel blocco del mondo; deve essere modellato, rivelato con lo scalpello. Lavorare a questa opera vuol dire essere religioso, niente altro. […] Ma questo possiamo farlo solo in quanto ognuno di noi compie, al suo posto, nel campo naturale della sua convivenza con gli uomini, ciò che è giusto, ciò che unifica, ciò che plasma; poiché Dio vuole essere con il suo mezzo non creduto, non indagato, non difeso, ma realizzato.” In M. Buber, Discorsi sull'Ebraismo, a cura di Andrea Poma, Torino, Gribaudi, 1996, p. 84

130

“L'incontro con Dio non capita all'uomo per essersi occupato di Dio, ma per aver testimoniato nel mondo del senso.” In M. Buber, Ich Und Du, in Il principio dialogico e altri saggi, op. cit., p. 143

131 “L'uomo che proviene dall'atto essenziale della relazione pura ha nel suo essere un di più, qualcosa che è cresciuto in lui, di

cui prima non sapeva nulla e la cui origine non riesce a descrivere correttamente. […] La realtà è che riceviamo quanto prima non avevamo; e lo riceviamo in modo tale che sappiamo che ci è stato donato. […] L'uomo riceve, e non riceve un contenuto, ma una presenza, una presenza come forma. Questa presenza e questa forza comprendono tre cose indivise. Prima di tutto la totale pienezza della reale reciprocità dell'essere accolti, dell'essere solidali […] senza che si riesca a indicare in qualche modo come sia costituito ciò con cui si è solidali, e senza che l'essere solidali alleggerisca la vita: la rende più pesante, ma la carica di un senso. E questa è la seconda: la conferma ineffabile del senso. Il senso ha una grazia. Nulla, nulla può più essere senza senso. […] Tu non sai come indicare il senso, non sai come determinarlo, non ne possiedi una formula e un'immagine, e tuttavia esso è per te più certo delle percezioni dei tuoi sensi. Che cosa vuole da noi il senso che si rivela e si nasconde? Da noi non vuole essere spiegato -non ne siamo capaci- vuole essere attuato. Questa è la terza: non è il senso di un'altra vita, ma di questa nostra vita, non

- 53 -

L'uomo non è capace del male132 assoluto, perché quest'ultimo consiste nell'affermazione positiva del nulla, quindi nella capacità di sottrarre campo d'essere alla relazione, di eliminare i presupposti stessi della relazione.

Perché l'essere e non piuttosto il nulla? Si chiedeva Heidegger in Che cos'è metafisica?

Alla base di tutto vi è il nulla, su cui l'essere si pone come costruzione, instabile e arbitraria da parte dell'uomo. Se il nulla è fondamento, tutto l'essere vacilla e l'uomo si trova smarrito in una dimensione del tutto priva di orientamento. L'uomo è colui che costruisce sul nulla, quindi ogni sua intuizione è qualcosa di arbitrario, di suscettibile di qualunque cambiamento. Buber si oppone: fra l'uomo e l'essere (la dimensione di senso entro cui l'uomo decide di vivere) non vi è un legame arbitrario poggiante sul nulla: vi è un dato di fatto che riguarda il modo in cui all'uomo è dato esistere che si pone a suo fondamento: l'essere-in-reazione133 di ogni singolo uomo con l'altro.

Se è vero che all'uomo non è connaturato scopo o natura, egli tuttavia è creatura determinata da due limiti: quello temporale e quello relazionale. Dal primo non si può ricavare alcuna prassi o regola del modo in cui l'uomo debba condurre la propria esistenza, il secondo limite invece, quello per cui l'uomo è essere relazionale, è per Buber ciò che può dare direzione all'esistenza umana. Esso è il fondamento primo e reale dell'essere umano, lì noi troviamo il carattere umano che ci determina senza che noi possiamo dire di no o ribellarci ad esso. È stato d'essere materiale che non può essere sottratto, eliminato, cambiato. Il suo esistere determina il senso della nostra stessa natura, salvando l'uomo dal baratro del nulla134.

il senso di un aldilà, ma quello del nostro mondo, senso che vuole trovare conferma da parte nostra in questa vita, in questo mondo.” In Martin Buber, Io e Tu, in Il principio dialogico ed altri saggi, op. cit., p.139