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Lineamenti dell'antropologia buberiana

Parte seconda: Antropologia filosofica

Capitolo 4: Chi è l'uomo?

4.1 Lineamenti dell'antropologia buberiana

Ne Il problema dell'uomo Buber esamina le varie prospettive dei filosofi che nella storia del pensiero si sono posti la domanda attorno all'uomo. Il primo confronto è quello con Kant.

Kant si pone 4 interrogativi: 1. Che cosa posso conoscere? 2. Che cosa debbo fare? 3. Che cosa mi è consentito sperare? 4. Chi è l'uomo?. Nella prospettiva kantiana, trovando risposta a ciò che l'uomo può conoscere, può sperare, deve fare, si sarà in grado di dire chi è l'uomo. Buber riconosce la grande intuizione, ma allo stesso tempo la fallibilità77 del progetto kantiano:

“secondo l'intenzione ivi espressa ed in base al contenuto, essa (l'antropologia kantiana) offre qualcosa di diverso: preziose e abbondanti osservazioni sulla conoscenza dell'uomo, per esempio dell'egoismo, sulla sincerità e la menzogna, sulla fantasia, sulla predizione e sul sogno, sulle malattie mentali, sull'ingegno. Ma il problema su cosa sia l'uomo non è neppure sollevato.”78

Buber si discosta da questa prospettiva, e prova a valutare le quattro domande kantiane da un altro punto di vista, quello suggerito da Heidegger: di fronte alle quattro domande non importa tanto trovare la risposta, quanto indagare al modo in cui esse sono poste. Tutte pongono interrogativi nella forma della possibilità, è questo l'unico modo per cui è possibile all'uomo interrogarsi, porre domande su sé stesso. Buber, sulla scia di Heidegger, afferma che il giusto modo che possa condurre l'uomo alla conoscenza di sé stesso non sarà tanto quello di trovare le risposte a quelle domande, dando un oggetto concreto alle possibilità umane, bensì interrogarsi su questa forma della possibilità e sul suo significato.

Dal fatto che l'uomo si interroghi entro una forma limitativa, che l'uomo possa conoscere non in modo assoluto, ma nel modo della possibilità, deriva che egli sia caratterizzato da dei limiti e che la sua condizione sia finita. Ogni qualvolta l'uomo si interroga, egli si mette in contatto con qualcosa che sta al di là dei propri limiti:

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“La riflessione buberiana prende spunto dal celebre interrogativo kantiano: “chi è l'uomo?”. Con questo quesito “indispensabile se si vuole dare alla antropologia un fondamento autentico”, termina secondo Buber, la stagione pre-istorica dell'antropologia filosofica e inizia una più attenta e decisa stagione del discorso sull'uomo. Tuttavia Buber evidenzia che l'autore della domanda radicale fallisce egli stesso nel rispondere, come se, “dopo aver enunciato il problema fondamentale, avesse avuto poi degli scrupoli nel porselo realmente in filosofia” ”. In G. Bon, op. cit., p. 40

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“Ma tutto ciò significa che alla finitezza (dell'uomo), data dal fatto che si può conoscere soltanto questa o quella cosa, è inseparabilmente legata la partecipazione all'infinito, partecipazione originata dal fatto che vi è la possibilità di conoscere in generale. In atri termini, con la finitezza dell'uomo, noi dobbiamo riconoscere, nello stesso tempo e in un tutt'uno, la sua partecipazione all'infinito; non come due proprietà l'una accanto all'atra, ma come duplicità del processo, mediante la quale soltanto, e come tale, diviene conoscibile l'esistenza dell'uomo”79

In questo confronto, con cui si apre Il problema dell'uomo, Buber vuole sin dall'inizio presentare la sua prospettiva, simile a quella heideggeriana. Dal confronto si evince che l'interrogativo sull'uomo non potrà essere esaurito da contenuti che rispondano a quelle quattro domande riguardo alle possibilità dell'uomo, ma prestando attenzione alla forma in cui esse sono poste. La possibilità è il modo in cui l'uomo può interrogarsi ed interrogandosi può uscire da sé stesso, andare verso ciò rispetto cui si interroga.

Non è quindi il contenuto oggettivo della nostra conoscenza, del nostro fare, del nostro sperare, a caratterizzarci in quanto uomini, bensì il fatto che tutti quei contenuti si diano nell'uomo come possibilità. La possibilità stessa diviene il connotato dell'essere umano, per questo Buber afferma che alla quarta domanda kantiana “Chi è l'uomo?” si possa dare risposta solo tenendo conto di tutte le molteplici combinazioni possibili in cui l'uomo può vivere la propria esistenza

“Un'antropologia filosofica legittima deve sapere che non c'è semplicemente un genere umano, ma anche dei popoli; non c'è soltanto un'anima umana, ma anche delle età dell'uomo. Solo a condizione di un'idea sistematica di queste e di tutte le differenze, prendendo conoscenza del dinamismo che regna all'interno di ogni particolarità e tra le particolarità, e mediante la dimostrazione, ogni volta sempre nuova, dell'uno nei molti, l'antropologia filosofica potrà vedere la totalità dell'uomo. Ora, proprio per questa ragione, essa non può concepire l'uomo in modo assoluto.”80

Da qui innanzi Buber passa in rassegna i vari momenti di riflessione antropologica che si sono susseguiti nella storia del pensiero, distinguendoli in due tipi: “epoche in cui l'uomo possiede una dimora e quelle in cui egli non ha dimora. Nelle prime vi è il pensiero antropologico solo in quanto parte del pensiero cosmologico; nelle seconde, il pensiero antropologico conquista la sua profondità e, con questa, la sua indipendenza”.81

Rispetto a tutti questi tentativi, che procedono da Aristotele a Marx, ciò che Buber nota è il fatto che essi studiano l'uomo concependolo come parte di un tutto: è così per il cosmo aristotelico, la società marxiana ecc.. Tentativi di questo genere pongono l'uomo in un determinato contesto e lo studiano nelle sue relazioni rispetto ad esso. Da qui si avrà che la definizione di uomo deriverà dal contesto in cui si è arbitrariamente deciso di coglierlo.

79 Ibid. p. 9 80 Ibid. pp. 11-12 81 Ibid. p. 15

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Approcci di questo genere sono destinati a non raggiungere l'uomo, in quanto tralasciano l'a-priori fondamentale che sta alla sua stessa base: il fatto che nella sua finitudine egli partecipi alla sfera dell'infinita possibilità.

La problematica dell'uomo si fa nuovamente forte con Nietzsche, il quale affermerà che l'uomo “è animale che non è ancora determinato”, vale a dire che non è ancora una specie determinata, univoca e definitiva come le altre, non è ancora una forma compiuta, ma un essere in divenire82.

È in quel non essere ancora che si svolge l'indagine dell'antropologia filosofica. L'uomo va colto nel suo interagire con l'infinito spazio della possibilità, in cui ogni singolo uomo è il tragitto specifico che egli ha percorso in quello spazio infinito, per mezzo delle sue scelte finite attuate attimo dopo attimo.

Ma ciò che caratterizza questo spazio infinito di possibilità cui l'uomo partecipa nella sua finitudine, è il fatto di essere spazio condiviso. Uno spazio di interazione in cui le possibilità di ognuno di noi sono modulate, intraprese e scelte sulla base di quelle che già sono state attuate e che ci stanno quotidianamente accanto, incarnate nelle persone con cui condividiamo lo spazio del nostro vivere quotidiano:

“Il fatto fondamentale dell'esistenza umana”-asserisce Buber-“non è né il singolo né la totalità, il fatto fondamentale dell'esistenza umana è l'uomo con l'uomo. Ciò che caratterizza in modo peculiare il mondo degli uomini, è innanzitutto il fatto che qui, tra essere ed essere, intercorre qualcosa che non ha l'eguale nella natura”83

Avendo riconosciuto come cattive direzioni quelle intraprese dai vari pensatori della storia del pensiero, Buber ha considerato l'uomo nella sua indeterminazione, nel suo essere possibilità. È questo l'ambito in cui l'antropologia filosofica deve muoversi, binario condiviso anche da Nietzsche e Heidegger, da cui Buber però si allontana fortemente in un punto decisivo.

Infatti, di fronte all'essere aperto dell'uomo a possibilità che hanno da decidersi, Nietzsche considera l'uomo come quell'unico animale in grado di guardare al possibile e al futuro “facendo promesse” , in grado di considerare una parte del futuro come cosa che dipende da lui stesso, e di cui si assume la responsabilità. Questa posizione sembrerebbe condivisibile da Buber, se non fosse che Nietzsche rintraccia un'origine sociale e culturale al sentimento di responsabilità. Egli considera la capacità umana di fare promesse, di stabilire relazioni di responsabilità fra uomo e uomo, non come caratteristica strutturale dell'essere uomo, bensì come attributo contingente, nato e sviluppatosi in un determinato periodo storico. Il senso di responsabilità, per il filosofo, deriverebbe dalla relazione contrattuale tra creditore e debitore, per cui il concetto etico di colpa, che sta alla base del sentirsi responsabile, deriverebbe dalla nozione di debito. Questi sarebbero i concetti per mezzo dei quali la società, avrebbe

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obbligato l'individuo a compiere i suoi propri doveri morali e sociali84. Avendo dunque smascherato l'origine contingente del sentimento di colpa e di responsabilità, Nietzsche afferma che “l'uomo deve liberarsi da tutto questo, dalla sua cattiva coscienza e dalla cattiva redenzione di questa coscienza, per diventare in verità una via. Di qui, invece di prometter agli altri il compimento del dovere, egli prometterà a se stesso il compimento dell'uomo”85. L'atteggiamento dell'uomo di fronte alla sfera della possibilità, a questo punto slegato dal senso di responsabilità, si manifesta nel modo della “volontà di potenza”, in cui consisterebbe l'essenza umana. L'essere umano sarebbe tale quindi per il fatto di essere quell'essere che, solo, di fronte alla totalità delle possibilità può scegliere in modo assoluto, svincolato, senza preoccuparsi, nell'attuare la propria volontà, delle altre prossime volontà.

Buber al contrario pone l'accento sulla responsabilità, intesa come occupante uno spazio effettivo fra gli uomini86. La colpa non è un concetto teoretico e nemmeno un sentimento, è il tessuto stesso di quella sfera di possibilità cui l'uomo si trova di fronte, poiché lì vi sono una pluralità di uomini gli uni di fronte agli altri. Posta in questi termini, Buber considera la responsabilità come vincolo, per cui non è dalla volontà del singolo che l'uomo può procedere innanzi nelle proprie scelte, bensì dalla consapevolezza di essere in relazione.

Se l'essere in relazione, e dunque la responsabilità, è ciò che caratterizza l'uomo di fronte al suo essere aperto a scelte possibili87, allora si avrà che -al contrario di Nietzsche- il fine a cui l'uomo tende non sarà giungere al termine del cammino che lo separa dalla condizione di oltreuomo, bensì il costituirsi di una interazione che sia al tempo la sintesi e il fine delle diverse volontà che si incontrano in quel terreno comune.

Buber si smarca in duplice maniera rispetto ai tentativi antropologici precedenti: si discosta da quelli che vanno da Aristotele a Marx, per il fatto che il percorso seguito in essi, seppur diverso nel contenuto, è più o meno reso simile dal fatto che l'uomo viene ad essere considerato nel suo essere parte di un certo contesto (cosmo aristotelico, società marxista, tempo hegeliano…), rispetto al quale se ne analizzano le relazioni. Buber muove invece da Kant, considerando non tanto le possibilità che possono essere oggetto del fare e pensare umano, ma considerando la possibilità come ambito nel quale l'uomo, in quanto essere possibile, si trova. A partire da questa prospettiva, condivisa sia da Nietzsche che da Heidegger, Buber si discosta anche da questi ultimi. Dal primo sostenendo che la caratteristica prima dell'uomo non è l'essere in grado di divenire le possibilità che egli ha di fronte e che può scegliere per mezzo della propria assoluta

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“(La filosofia di Nietzsche) unisce la prospettiva biologica con quella sociologica e psicologica, vuole smascherare il mondo spirituale come un insieme di illusioni e autosuggestioni, di “ideologie” e “sublimazioni” ” in M. Buber, L'Eclissi di Dio. Considerazioni sul rapporto tra religione e filosofia, tr. it di Ursula Schnabel, Firenze, Passigli editore, 2001, p.103

85M. Buber, Il problema dell'uomo, op. cit., p.46 86

“In questo modo viene visualizzato il tessuto esistenziale, nel quale è articolata la vita dell'uomo. L'uomo vive in rapporto alla propria consapevolezza e responsabilità. Consapevolezza e eresponsabilità schiudono la trama dell'azione e della decisione umane, sicché da questa trama e in questa trama è scandita la responsabilità dell'uomo” In A. Babolin, L'assoluto nel discorso esistenziale e critico di M. B., in «Studia Patavina», 13 (1966), p. 102

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“Buber cerca di conferire all'aspetto etico della responsabilità un fondamento antropologico o ontologico ”. In Nathan Rotenstreich, The right and the limitations of Buber's dialogical thought, in Paul Arthur Schilpp, The philosophy of Martin Buber, Ls Salle, Illinois, 1967, p. 100

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volontà, bensì il fatto che quel contesto di possibilità aperte è contrassegnato da legami e connessioni. Partendo da qui, Buber afferma che è solo sulla base di questo tessuto connettivo che l'uomo può decidersi per le diverse possibilità che ha di fronte. La responsabilità -e non la volontà assoluta- è la consistenza stessa di cui sono rivestite le varie possibilità cui l'uomo si avvicina e per cui decide di sé stesso. Ciò che rende tale l'uomo è il suo essere relativo alle persone e cose che stanno lui affianco, il suo essere risiede dunque nella relazione stessa, nel suo essere relativo.

Possiamo ora sommariamente elencare i due caratteri dell'antropologia buberiana che abbiamo acquisito nel confronto che Buber svolge ne Il problema dell'uomo:

1. L'uomo non è un ente definibile al modo di un oggetto88

2. L'uomo, definito essere possibile, trova la sua peculiarità nel modo in cui egli è nel momento della scelta: responsabile. (diversamente da Nietzsche: superuomo)89

Entrambe le prospettive verranno argomentate in profondità nei capitoli successivi, in cui si porrà a fondamento di queste modalità con cui Buber svolge la sua antropologia, nella sua posizione teologica: la somiglianza dell'uomo con Dio e la responsabilità intesa come realtà dotata di una propria realtà. Vedremo come la sua prospettiva si porrà in una dimensione di superamento della morale, il cui esito, diversamente da Nietzsche e Heidegger, non sarà però nichilistico.

Nel paragrafo successivo svolgerò il confronto fra la prospettiva di Buber e quella heideggeriana, che abbiamo visto essere simili nel solito punto di vista che accomunava anche Nietzsche con Buber. Anche da quest'ultimo confronto cercherò di trarre una terza caratteristica che si può cogliere nell'antropologia di Buber.

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“Notoriamente molti esistenzialisti ritengono che il fatto fondamentale tra persone sia che una è oggetto per l'altra; ma, se va così, si perde già considerevolmente l'effettività originaria dell'ambito interumano, il segreto del contatto; anche se ovviamente non può essere eliminato del tutto. Si prenda questo esempio banale: due persone si osservano; l'essenziale della faccenda non è che l'una faccia dell'altra il suo oggetto, ma il motivo per cui non le riesce completamente. In comune con ogni cosa abbiamo il fatto di poter diventare oggetto di osservazione, ma che io possa porre un limite insuperabile all'oggettivazione tramite l'azione nascosta del mio essere, è privilegio degli uomini. Possiamo essere percepiti, percepiti come totalità-ente, solo in quanto partner”. In M. Buber, L'uomo tra il bene e il male. Formare la propria vita secondo la dottrina del Chassidismo, a cura di Cornelia Muth, Milano, Gribaudi, p. 47

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“Come rileva C. Scilironi, sono tre, dunque, le tesi fondamentali di Buber: a)originarietà della distinzione fra esperienza e relazione

b)irriducibilità della relazione a oggettivazione c)consegna della Humanitas alla relazione

(la prima tesi è la constatazione ritrovabile in Ich und Du del duplice modo di relazionarsi al mondo da parte dell'uomo, io-tu io- esso; la seconda e la terza corrispondono a quelle elencate nel testo, come conclusione della ricerca critica del filosofo entro le prospettive teoriche dei pensatori della storia del pensiero. Entro queste tre tesi è condensato il nocciolo dell'antropologia buberiana: ciò che caratterizza l'essere umano è la relazione, quella che caratterizza l'uomo in quanto tale è nel modo dell'io-tu, la quale non è comprensibile al modo degli oggetti).” In G. Bon, op. cit., p. 63

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4.2 Il confronto con Heidegger

“Abbiamo visto, discutendo l'interpretazione heideggeriana delle quattro domande poste da Kant, che Heidegger vuol porre come fondazione della metafisica non l'antropologia filosofica, ma “l'ontologia fondamentale”, vale a dire, la dottrina del Dasein come tale. Con Dasein egli intende un ente che ha un rapporto con il suo proprio essere e ne ha una comprensione”90

Buber comincia così l'esposizione della dottrina di Heidegger, riallacciandosi a quanto inizialmente il filosofo aveva intuito rispetto alle quattro domande kantiane, di cui aveva spostato l'accento dal contenuto delle risposte alla struttura di possibilità entro cui le quattro domande erano poste, arrivando ad affermare che l'uomo sia “essere possibile”. Se l'uomo è questa apertura, Heidegger sostiene che la quarta domanda kantiana “Chi è l'uomo?” possa trovare risposta nell'indagine attorno al modo in cui questa apertura si svolge, nell'incontro fra la finitudine umana e le infinite possibilità. Il problema che si porrà sarà dunque quello della “finitezza nell'uomo”, il quale non rientra nell'antropologia bensì nella metafisica, quindi l'antropologia sarà sostituita dall' ontologia fondamentale.

Ciò che caratterizza quest'ultima è il fatto che “non ha a che fare con l'uomo nelle sue concrete e complesse diversificazioni, bensì unicamente con “l'esserci” in sé, il quale si manifesta nell'uomo. Ogni concretezza della vita umana che Heidegger prende in esame gli interessa soltanto perché è nella misura in cui i modi dei comportamenti dell'esserci si appalesano in essa”91,

Se al centro delle indagini vi è “l'esserci”, allora l'uomo concreto, assieme alle molteplici declinazioni materiali della sua esistenza, perde centralità. Mentre queste ultime divengono mezzi, ridotti a fenomeni da cui si coglie la manifestazione generale, rintracciabile in ogni uomo, dell'incontro fra la finitudine umana e le infinite possibilità. Questo incontro, il modo in cui esso universalmente, in ogni essere umano, si svolge, viene ad essere il punto focale delle ricerche dell'ontologia fondamentale.

L'antropologia filosofica - considerata nell'ottica di Buber - si occupa anch'essa di studiare questa apertura dell'uomo, ma lo fa non considerando tale atteggiamento di apertura nella sua universalità, bensì ponendo al centro dell'interesse e dunque a fondamento dell'essere umano, le innumerevoli e molteplici possibilità che ogni singolo individuo incarna nel suo incontro con il possibile.

L'interesse di Buber è il modo in cui singolarmente, nelle diverse persone, si realizza l'incontro con la sfera del possibile. Ogni uomo è accomunato dall'apertura originaria ma ciò che connota l'essere umano non è questa, bensì i diversi modi concreti in cui essa si svolge.

Per Buber, l'uomo è le concrete scelte che singolarmente ha intrapreso, mentre, per Heidegger, è semplicemente un essere che è in grado di decidere. Il primo pone l'accento sull'esistenza reale e

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M. Buber, Il problema dell'uomo, op. cit., p. 66

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materiale di ogni singola vita, il secondo su ciò che di universale si rintraccia in ogni vita: l'apertura originaria, il fatto che ogni uomo sia aperto a possibilità.

Il primo modo concreto attraverso cui si svolge tale apertura è la relazione umana, la quale però non è soltanto il fenomeno in cui trovare la manifestazione del Dasein, ma realtà a sé stante.

“L' “esserci” reale, cioè, l'uomo reale nel suo comportamento verso il suo essere, non è comprensibile che in connessione con la natura di ogni essere verso il quale ha un certo comportamento”92.

Heidegger , al contrario, è come se racchiudesse all'interno della pura sfera dell' “auto-riflessione”93 le possibilità concrete con cui gli esseri umani hanno a che fare durante la loro esistenza. Il filosofo analizza il modo in cui l'uomo, nella propria auto-riflessione si pone di fronte alla consapevolezza di essere mortale (essere per la morte), e fa lo stesso per le relazioni che concernono l'uomo con gli altri uomini e con oggetti. Le riflessioni riguardo questi tipi di relazione dell'uomo con enti fra loro differenti, divengono categorie per comprendere l'essere dell'esserci (l'apertura dell'uomo), ed è da lì, “nella sfera della relazione dell'individuo con sé stesso che, secondo Heidegger, (si paleserebbero) il vero significato, la vera profondità e la vera importanza di quelle categorie”94.