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Conversione: la via dell'uomo religioso, attraverso il Chassidismo

7.3 “Prolegomeni ad una filosofia della religione”, religione come presenza

Capitolo 9: Conversione: la via dell'uomo religioso, attraverso il Chassidismo

9.1 Ritorno

“Guarda questa città che sfuma sotto di noi. Ormai sbiadiscono anche i suoi contorni ed essa si copre con il velo della lontananza crepuscolare come se dormisse. (…) Diciamo questa città, ma non intendiamo affatto le sue case, le sue fabbriche, la sua merce o i suoi rifiuti, bensì intendiamo questi milioni di uomini, non un numero, -dimentica la quantità, cancella dalla tua mente l'idea di quantità: intendiamo tutti questi uomini, nudi, sotto i loro vestiti, sanguinanti nei loro cuori spogliati, il cui battito all'unisono soffoca il frastuono delle macchine. Questi uomini sono privati del diritto più importante di tutti, il diritto

sacrosanto alla realtà. Hanno scopi e capiscono di doverli raggiungere. Hanno un habitat e lo conoscono.

Hanno anche un certo spirito e conversano molto. Ma tutto ciò al di fuori della realtà. Vivono ma non riescono a realizzare quello che vivono. Il loro vissuto viene incasellato senza essere stato davvero compreso. (…) Ognuno di loro viene interpellato dall'eternità: “sii”. Ma le ridono in faccia e rispondono: “Lo so”. La loro inibizione è così morbidamente ritagliata sul loro corpo, che ne sono felici ed orgogliosi fino al punto di chiamarla con nomi magnifici e satolli di significato, come ad esempio cultura, religione, progresso, tradizione o intellettualismo: oh migliaia di maschere ha l'irreale. (…) Nella morta luce dell'orientamento gli uomini smarriscono il loro destino, che era quello di essere chiamati ad esperire, vivendo, le vitali illuminazioni e a diventare luminosi in sé stessi. ”255

Nei capitoli precedenti ho già fatto riferimento al concetto ebraico di Teshuvah256 ( ritorno), con cui si intende la possibilità umana del pentimento, del ritorno presso Dio tramite la correzione del nostro comportamento e il rientro al nostro autentico essere. Ne ho parlato in termini di “ritorno necessario”, in riferimento all'impossibilità, da parte dell'uomo, di sottrarsi al tessuto relazionale in cui si trova a vivere, nonostante il suo esistere si attui per mezzo del collocarsi a distanza rispetto ciò che lo circonda. Nella citazione soprastante Buber mette in luce come, nell'industrializzato mondo moderno, l'uomo viva in una dimensione in cui l'atto del distanziamento rispetto a ciò che lo circonda, (con cui Buber intende la cultura, la religione ecc … e persino, si vedrà nel capitolo successivo la politica), è caratterizzato dalla tendenza al non-ritorno.

255 In M. Buber, Della realtà, in Daniel dialogues on realization, cit. in F. Ferrari, Religione e religiosità, op. cit., p. 285 256

“Teschuba, conversione -così si chiama l'atto della decisione nel suo potenziamento ultimo: quando significa cesura entro una vita umana, rivolgimento innovatore nel corso di un'esistenza. Quando nel mezzo del “peccato”, nell'assenza di decisioni, si risveglia la volontà di decisione, l'involucro della vita usata esplode, la forza primigenia erompe e si innalza al cielo in una tempesta. In colui che compie la conversione la creazione torna ad accadere; nel suo rinnovamento si rinnova la sostanza del mondo. Prima che il mondo venisse creato -così è scritto- non v'era nulla se non Dio e il suo nome; egli pensò allora di creare il mondo, e lo disegnò dinanzi a sé; ma vide che il mondo non poteva sussistere, perché non aveva fondamenta; allora creò la conversione”In M. Buber, Rinascimento ebraico, op. cit., pp. 167-8

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Buber fotografa la realtà di una società in cui l'uomo è sempre più indaffarato a procurare nomi alle cose e a produrre, fra di esse, sempre più differenziazione, in modo da poter utilizzare la differenza - che ha lui stesso immesso (arbitrariamente) nella realtà- per orientarsi.

In tutta la storia del pensiero, - nota Buber in Eclissi di Dio - a partire da Platone fino ad arrivare ai pensatori moderni,- includendo in essi anche tutti coloro che si sono riferiti alla dimensione della religione, 257 - si è assistito ad un medesimo tentativo: quello di indurre la realtà entro una dimensione che la dotasse di una qualità, entro una dimensione in cui fosse possibile individuare in essa delle differenze (verità\ falsità e bene\male). Buber, quando cerca di individuare l'origine di questa sottrazione del “diritto alla realtà” nei confronti dell'uomo-di cui parla nella citazione- ne trova la causa proprio in questa tendenza del pensiero occidentale.

Buber si riferisce a Platone. Il suo mondo delle idee ad inaugurare questa concezione di una realtà che, in quanto in sé priva di differenziazione, abbisognasse di una fonte luminosa che dall'esterno creasse zone di diversificazione. Il sole, simbolo del bene che illumina il mondo, è l'emblema di come la storia del pensiero, sin dall'inizio, abbia concepito la realtà come priva di qualità intrinseca. Opposta -come già ho esplicato nella parte introduttiva- è la visione della dottrina chassidica, secondo la quale, il mondo sarebbe cosparso di scintille divine e, secondo cui, l'uomo stesso sarebbe nato come configurazione della medesima luce divina immessa nell'uomo258. L'uomo non è destinato ad introdurre dall'esterno delle differenze, il suo compito è quello di ricercare e unificare le luci già presenti nel mondo e di discernere, attraverso questa opera di riunificazione, “le differenze” presenti già nella realtà.

La luce, le scintille -le fonti luminose che producono differenze nella realtà- non sono estrinseche al mondo ma appartengono a quest'ultimo, costituendone la qualità.

257

“La filosofia però annuncia e promette come premio più alto di questo continuo prescindere un guardare in alto (e non più in avanti), un guardare verso l'alto, verso gli oggetti della vera visione, verso le “idee”. Questa concezione, preparata dall'insegnamento indiano della liberazione dal mondo dell'esperienza di colui che conosce, viene perfezionata soltanto dai greci. Così come proclamarono l'egemonia del senso della vista sugli altri sensi, trasformando il mondo ottico semplicemente nel mondo, in cui vi è soltanto da inserire i dati degli altri sensi, essi diedero anche alla filosofia -che per gli indiani era l'audace impresa di afferrare il proprio sé - un carattere ottico, cioè quello della contemplazione di un oggetto particolare. La storia della filosofia greca è quella di una visualizzazione -chiaritasi definitivamente in Platone e perfezionatasi in Plotino- del pensiero. L'oggetto di questa visione di pensiero è l'universale, inteso come l'essente o come il sovraessente. La filosofia è basata sulla premessa che nell'universale si possa contemplare l'assoluto. In contrasto con essa la religione deve dire, se vuol definirsi filosoficamente, che intende il legame dell'assoluto con il particolar concreto. (…) Ma anche in formule apparentemente religiose, come in quella di Malebranche secondo cui noi vediamo le cose in Dio, si esprime l'estrazione filosofica; poiché queste “cose” non sono quelle della situazione concreta, ma sono intese in senso generale, come le idee di Platone. Quando invece una persona religiosa pronuncia la stessa frase, la trasforma; per lui le cose non significano gli archetipi o le “essenze perfette”, ma gli esemplari reali, gli esseri e gli oggetti con i quali egli, questa persona reale, trascorre la sua vita; e se osa dire che li vede in Dio, non parla del guardare in alto, bensì del guardare qui: egli riconosce che il significato ultimo è presente e raggiungibile nella concretezza di volta in volta vissuta. ” In M. Buber, Eclissi di Dio. Considerazioni sul rapporto tra religione e filosofia, op. cit., pp. 40-1

258

“Talvolta l'uomo deve esperire che ci sono infinite sfere e infiniti firmamenti, e che egli sta su una porzione di terra minuscola, e che l'intero universo non è niente di fronte a Dio, che è l'Illimitato che si autolimitò e dispose un luogo in sé stesso per creare il mondo. E finché egli può comprendere questo con il suo intelletto, non può ancora ascendere ai mondi superiori; e questo è ciò che è inteso in “Il Signore mi è apparso da lontano”- egli osserva il Signore tenendolo a distanza. Ma se serve Dio con tutta la sua forza, allora otterrà una grande potenza in sé stesso, e si esalterà nel suo spirito, e in un sol colpo romperà tutti i firmamenti, e ascenderà oltre gli angeli e i cicli celesti e i serafini e i troni: e questo è il servizio perfetto. ” In M. Buber, In relazione con Dio, op. cit., p. 35

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Di fronte ad un mondo percepito come “indifferenziato”, è chiaro che, per creare un ordine, per immettere un senso all'interno di uno spazio che (erroneamente) si concepisce come indifferenziato si abbisogna di negare tale omogeneità e di creare in esso una condizione in cui sia possibile trovare delle differenze. In questo modo i pensatori sono intervenuti dal di fuori su questa realtà apparentemente omogenea ed hanno introdotto delle specificazioni: principi morali ed etici che facessero capo ad una certa concezione di Dio (inteso come contenuto di verità) o di umanità o collegati a vari fini di carattere sociale259.

Il tentativo di Buber si innesta a questo livello, ed è quello per cui egli cerca di indurre il singolo a vedere entro la realtà stessa un principio di differenziazione da cui dedurre il senso260. La novità sta però nel fatto che tale principio di differenziazione, di cui il singolo può fare esperienza non è ora colto attraverso l'accettazione di una fede in Dio, o di un completo affidamento ad un'etica, bensì attraverso il nostro incontro con l'altro: lì noi scopriamo il senso della realtà in cui esistiamo, scopriamo che è il Tu, che ci sta di fronte di volta in volta, a conferire il senso alla realtà e ad ogni singolo momento concreto della nostra vita. Scopriamo che c'è un livello più profondo a cui dobbiamo riferirci che sta ancor prima di ogni costruzione etico-morale, e che fa capo ad un principio di giustizia che coincide con la relazione che ci fonda.

Il singolo che prova ed ottiene questa consapevolezza, -quella per cui noi esistiamo in una realtà ricolma di senso- è l'uomo religioso, l'uomo nell'atto del ritorno verso quel livello profondo della realtà che ci trascende.

Il filosofo nega che la nostra realtà sia indifferenziata e che le differenze che in essa si colgono siano essenzialmente artificiali, ossia il frutto di un nostro intervento su quest'ultima. È vero, l'uomo ha introdotto delle differenze attraverso la legge e l'etica, ma esiste un senso più profondo che trascende entrambe261. Le differenze che popolano la realtà, la differenziazione che abita il reale è il diretto effetto,

259 “L'uomo d'oggi si rapporta alla storia in due modi. O all'insegna del libertinaggio, accettandola e partecipando al corso

mutevole degli eventi (…) come ad un caos, ad una promiscuità di accadimenti (…)- come un ingranaggio in sé insensato al quale proprio soltanto lui, l'uomo, può conferire di tanto in tanto una parvenza infondata e instabile di senso. Oppure si rapporta alla storia dogmaticamente, stabilendo leggi dei decorsi storici e calcolando in anticipo svolgimenti futuri, come se le “grandi linee” fossero già da qualche parte tracciate su un rotolo che solo deve srotolarsi, come se la storia non fosse la progressione vivente del tempo che diviene costantemente di decisione in decisione, tempo nel quale si riversano impetuosamente il mio tempo e la mia decisione, ma fosse uno spazio rigido, sussistente, ineluttabile. Ambedue questi modi disconoscono il destino! (…) Secondo la visione biblica (il destino) è la segreta reciprocità dell'attimo vissuto, lo scontrarsi del di qua e del di là, il termine di tutto il tempo nell'istante di volta in volta presente. Allorché si è consapevoli dell'origine e della mèta non c'è alcun ingranaggio; si è sorretti da un senso che non avremmo potuto immaginare; ma lo si riceve non per formularlo, bensì per viverlo; ed esso è vissuto nella paurosa e magnifica pienezza di decisione dell'istante biografico, di te e di me non meno che di Alessandro e di Cesare; ma di te in quanto è l'istante del tuo incontro.” In M. Buber, Umanesimo ebraico, op. cit., p. 19

260

“Così ci sono due stati qualitativamente differenti nella vita. Ci sono due modalità del mondo: c'è un mondo dell'Esso e c'è un mondo del Tu, il mondo della relazione. Io dico“qualitativamente differenti”, sebbene vorrei già dire che questi due mondi differiscano nello stesso modo in cui differiscono vicinanza e distanza. Noi vedremo, e posso solamente accennarlo adesso, che questi due mondi conducono a qualcosa che si può designare come vicinanza a Dio e distanza da Dio. E queste due posizioni risultano differenti proprio nella realtà della nostra vita, in modo essenzialmente qualitativo e non qualitativo.” In M. Buber, Religione come presenza, op. cit. pp. 115-6

261

“Ogni evento reale nel mondo è incontro. In ogni evento reale della vita umana non c'è soltanto l'essere umano. La storia non è confinata all'interno delle forze dell'essere umano e della sola natura, sebbene non si possa separare e dire:“questo deve essere ascritto all'umani e alle forze naturali e questo ad un'altra forza”. Ma in verità c'è solo l'Uno, del quale noi creiamo astrazioni. Ma noi possiamo comprendere l'Uno solo in queste astrazioni. Noi viviamo di fronte a queste astrazioni; esse determinano la nostra vita concreta. Questi sono i limiti della nostra vita, questa polarità, questo essere di fronte di Io e Tu. ” In Ibid., p. 183

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la diretta reazione del nostro esistere nella realtà262, è questo - come abbiamo visto nel capitolo precedente- il vero contenuto della rivelazione divina.

Secondo Buber, il bene e il male, la verità e la falsità, tutte queste differenziazioni -che per la storia del pensiero sono frutto di interventi umani sul reale (così come sospettato e affermato da Nietzsche ) - non sono altro che la manifestazione del nostro puro ed irriflesso contatto con il reale, detto in altre parole: l'umanità genera differenza. È l'umanità stessa, l'uomo con l'uomo, a produrre una realtà differenziata. Questo è il motivo per cui Buber asserisce che “il ritorno decisivo a sé stessi è, nella vita dell'uomo, l'inizio del cammino, il sempre nuovo inizio del cammino umano”263

. Il ritorno che Buber auspica è il rientro dell'uomo dalla distanza che egli ha, a mano a mano, costruito fra sé e il mondo, fra sé e l'altro a scopo di conoscenza264. Da questa distanza l'uomo deve fare ritorno ora, adesso, nel luogo e nel tempo in cui si trova, ed è in questo ritorno che incontrerà Dio.

“Se l'uomo può diventare “umanamente santo”, cioè diventare santo come uomo, nella misura e nella maniera dell'uomo, ed, infatti, è scritto, “per me”, cioè, di fronte a Dio, allora egli, il singolo uomo, può, conformemente alla sua capacità ed alla sua possibilità personale, diventare uno di fronte a Dio. L'uomo non può rivolgersi al divino protendendosi oltre l'umano, bensì può rivolgersi a lui diventando umano. Diventare umano è il motivo per cui questo singolo uomo è stato creato. Questo mi sembra essere il nucleo eterno della vita e dell'insegnamento chassidico. ”265

9.2 Unitarietà

L'uomo religioso è colui che sempre sa di doversi trovare nel solco del ritorno, e che qualunque sia la distanza, - rispetto all'altro, rispetto al mondo -, in cui egli si trovi, egli sa che questa distanza deve essere

262

“Formulato con oggettività: ci sono tre strati del mondo: il primo è il mondo della indifferenziazione, ovvero il mondo della creazione; il secondo è il mondo dell'Esso, ovvero il mondo dell'esperienza, oppure, come si dice normalmente, il mondo della percezione, dove si prende qualcosa per vero; il terzo è, infine, il mondo del Tu, il mondo della realizzazione. E questo Tu non è qualcosa che per prima cosa si avvicina all'uomo, non è un fatto empirico che si presenta agli uomini, bensì è qualcosa che è già posto negli uomini. Esiste un Tu Innato (…) è qualcosa che esiste per sé e che si dispiega semplicemente nei cosiddetti oggetti.” In Ibid., p. 125

263

M. Buber, Il cammino dell'uomo secondo l'insegnamento chassidico, op.cit., p. 23

264 “Ci sono due tendenze del mondo che sono legate l'una con l'altra nell'accadere del mondo, nella dinamica dell'accadere del

mondo: l'allontanamento del mondo e il ritorno verso Dio, entrambi reali. Il ritorno non è qualcosa in cui solo l'essere umano è chiamato, bensì è qualcosa che è stato posto come eterna chiamata, nell'intero accadere del mondo. Il mondo si allontana sempre e di nuovo da Dio verso un Esso che sussiste in sé, e vorrebbe continuamente trascinare ancora Dio in questo Esso, e sbarrare con questo il ritorno a Dio. Sempre e di nuovo, nondimeno, vive la chiamata, sopra il mondo e dentro il mondo, penetrandolo e muovendolo. La chiamata di Dio: “Basta!” che fu pronunciata un tempo, di fronte a un mondo che si allontanava oltre misura, anche oltre i limiti del proprio sé, sarà pronunciata nell'eternità: “Fermati, torna indietro! Questa è la chiamata del tu, la chiamata rivolta al Tu, la garanzia del mondo del Tu che vuole venire all'essere attraverso gli uomini.” In M. Buber, Religione come presenza, op. cit., p.182

265

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percepita come precaria, temporanea, poiché il porsi a distanza non può essere considerato dall'uomo come modus vivendi stabile. Nessuno di noi può infatti vivere la propria umanità nella distanza, solo chi ritorna da essa vive nella verità ed umanamente. La prima caratteristica dell'uomo religioso è la consapevolezza del suo dover essere aderente al mondo, del suo dover ritornare sempre di fronte all'altro uomo: in questo ritorno consiste il realizzarsi della sua propria umanità.

Ma in cosa consiste concretamente questa “aderenza”, ritorno necessario, verso l'altro che l'uomo religioso realizza attimo dopo attimo? Buber afferma che non ci sono specifiche azioni che l'uomo possa compiere per assicurarsi la santità; ciò che davvero importa è, ancora una volta, non un contenuto, (in questo caso quello delle nostre azioni), bensì la qualità del modo in cui si agisce: l'interezza:

“ “Dio è vicino a tutti quelli che lo invocano, a tutti quelli che lo invocano in verità”; ossia: nella verità che essi fanno. Questa verità non è una Cosa, ma un Come. Non il contenuto dell'azione la rende verità, ma se essa accada in umana condizionatezza o in divina incondizionatezza. Non la materia dell'azione decide se essa abbia luogo nel vestibolo, nel regno delle cose oppure penetri nel cuore del santuario, bensì la potenza della decisione che la genera, e la sacralità dell'intenzione che le è immanente. Ogni atto, anche quello che si annoveri fra i più profani, è santo, se viene compiuto in santità, in incondizionatezza. L'incondizionatezza è lo specifico contenuto religioso dell'ebraismo. La religiosità ebraica non si fonda su un dogma o su un precetto etico, bensì su un sentimento di fondo che dà all'uomo il suo senso: sul sentimento di fondo che “una sola cosa è necessaria”. ” 266

L'unitarietà è quindi la seconda caratteristica dell'uomo religioso. Con essa si intende la capacità di ricondurre il molteplice all'uno, le differenze “artificiali” - di cui si parlava prima- alla differenza, l'unica sola, che esiste rispetto alla qualità che fonda il reale: l'essere-in-relazione.

L'uomo unitario è colui che fra le differenze è capace di discernere il condizionato dall'incondizionato, l'assoluto dal relativo, il contingente dal necessario. L'unitarietà ha infatti a che fare con il modo in cui l'uomo agisce. Qualunque sia il contenuto della sua azione, ciò che la renderà santa è il suo essere compiuta con incondizionatezza267, ossia il suo essere compiuta in modo che non ci sia nulla di esteriore e contingente che possa condizionare268 il suo tendere a realizzare la sola ed unica qualità che fonda la realtà in cui esistiamo: il prendere parte alla relazione,

266

M. Buber, Rinascimento ebraico, op. cit., p. 187

267

“Ciò che ci riguarda nell'incontro, ovvero ciò che ne sappiamo a partire dalla nostra vita, dalla nostra posizione, non è un attendere, non è un essere aperto, non è qualcosa che si chiama ricettività, bensì, dalla nostra posizione, è attività di raccoglimento. Una attività di raccolta, unificata, intera, che, cioè, non viene sentita come tale, perché è essenzialmente differente