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La tecnica moderna e l'eclissi della responsabilità

Parte seconda: Antropologia filosofica

Capitolo 4: Chi è l'uomo?

5.3 La tecnica moderna e l'eclissi della responsabilità

In uno dei saggi che compongono il libro Colpa e Sensi di Colpa, Umberto Galimberti, tratta di quelli che sono gli effetti della tecnica moderna sulla capacità del singolo di assumere la responsabilità del proprio agire. Egli argomenta come il grande sviluppo della tecnica abbia contribuito, nella modernità, alla creazione di meccanismi produttivi in cui l'uomo, nell'esercizio del proprio lavoro si trova del tutto spersonalizzato.

Si riferisce a quei grandi centri di produzione, in cui il risultato finale si dà come prodotto della sincronia di migliaia di singole azioni svolte in maniera isolata. Gli operatori e gli addetti alla produzione si trovano a svolgere mansioni ristrette e separate, in modo da non poter prevedere appieno quello che sarà il risultato, l'effetto ultimo della propria mansione.

Ciò che rende alienante la struttura dei moderni sistemi di produzione, è il fatto che questi siano costruiti in un modo per cui l'uomo è sottratto alla totale visibilità di quelli che sono gli effetti del proprio agire. “Quanto più si complica l'apparato in cui siamo incorporati, quanto più si ingigantiscono i suoi effetti, tanto meno vediamo, e più ridotta si fa la nostra possibilità di comprendere i procedimenti di cui noi siamo parti e condizioni.”135

Un sistema di questo genere denatura il modo attraverso cui è all'uomo dato non solo agire, ma anche esistere. Infatti se non ci è possibile vedere in maniera evidente il risultato delle nostre azioni, esse diverranno insignificanti, o comunque a noi irrelate. Ancora di più: se abbiamo fino ad ora considerato l'uomo come responsabile per essenza, il fatto che fra il suo agire e il riflettere su di esso si interponga un impedimento, ciò si ripercuote sulla stessa esistenza relazionale umana: si avrà di fronte un uomo che agisce in modo insignificante, indifferente alla reazione che egli potrebbe provocare. L'uomo messo in questa condizione è incapace di essere responsabile, e quindi di essere umano. Ad egli viene meno quella caratteristica con-strutturale che lo determina: la sensibilità alle differenze fra le diverse alternative che si prospettano di fronte a lui. Questa indifferenza deriva dall'incapacità da parte dell'uomo moderno di assumere ciò che lo circonda come parte integrante della propria individualità che abbiamo fino ad ora definito“relativa” per essenza.

L'azione della tecnica moderna crea una configurazione ancora differente dell'ontologia del sociale, di cui abbiamo parlato nel capitolo precedente, mettendo a confronto quella di Buber con quella cartesiana. In questo caso infatti, pur essendovi una somiglianza con la configurazione del sociale che derivava dalla prospettiva di Cartesio, in cui il singolo individuo si relaziona all'altro sulla base dell'auto-relazione; la differenza sta nel fatto che qui ora c'è una distanza ulteriore, inerente all'individuo stesso: la scissione fra pensiero ed azione che si verifica nel singolo individuo. Nell'uomo si crea una distanza effettiva fra il

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Umberto Galimberti, Le figure della colpa in Buber, Jaspers e Anders, in Martin Buber, Colpa e Sensi di Colpa, op. cit., p 110

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proprio pensiero e la propria azione, che si configura un po' al modo di quegli “spazi vuoti” di pura arbitrarietà che avevamo trovato fra gli individui-atomo136. Qui però questi spazi di pura arbitrarietà si trovano nell''uomo stesso: fra ciò che fa e ciò che pensa a riguardo. Da qui deriva che il non essere responsabili nei confronti dell'altro, non si dà come presupposto, come era nella visione di Cartesio, in cui gli uomini erano considerati irrelati e fondati su se stessi. Qui il non essere responsabile, deriva da una mancata scelta, dalla non-riflessione, dall'incapacità per l'uomo di ricondurre alle proprie azioni i loro effetti.

Per questo Buber ritiene sia necessario “portare il sentimento umano all'altezza dell'evento tecnico. È necessario (l')autorischiaramento, (inteso) come resa di coscienza del significato dell'accadere137”

Si ritorna qui, alla differenza che si era fatta fra l'uomo occidentale e l'orientale, per cui il primo si adegua al luogo in cui gli è dato vivere, il secondo cerca di adeguare il mondo alla propria interiorità, facendo in modo di accettare sempre le condizioni in cui sia lui possibile emettere un giudizio, essere capace di discernere ed individuare le differenze. Ciò che viene meno nell'età della tecnica è proprio la capacità di giudizio del singolo che, non potendo risalire agli effetti delle proprie azioni, non è in grado di essere il giudice di sé stesso.

L'uomo, pur messo nella condizione per cui non è più in grado di essere responsabile, non è comunque sottratto alla relazione. Il suo mancare nei confronti della propria responsabilità non toglie il fatto che lui comunque dovrebbe esserlo. Quindi anche in questo caso, la perdita di senso da parte dell'uomo è sempre un qualcosa di reversibile. La situazione relazionale in cui l'umanità si trova a vivere non è eliminata ma solamente celata, nascosta. Anche in questo caso l'uomo nel suo agire irresponsabile ed indifferente compie qualcosa di positivo: aggiunge qualcosa alla realtà sociale, la copre, come se stendesse su di essa un telo, ma non la elimina, essa sta sempre lì sotto. Al modo di un eclissi, la relazionalità che sta alla base della natura umana, non è cancellata, bensì oscurata, non vista, pur continuando ad esistere.

Ma c'è possibilità che la tecnica moderna sia in grado di rimuovere quanto fino ad adesso avevamo considerato ineliminabile, ossia la relazionalità in quanto fondamento dell'umano?

Questo nella prospettiva di Buber non si dà come evento possibile, la relazionalità -come abbiamo visto- non può essere sottratta quale fondamento e natura dell'essere umano. Tuttavia, anche se il nulla,

136 “L'uomo arbitrario non crede e non incontra: non conosce legami, ma solamente il mondo febbrile esterno e la sua brama

febbrile di usarlo; è appropriato dare all'uso un nome antico, ed esso circola tra gli dèi. Quando quell'uomo dice Tu, intende “Tu, mia possibilità d'uso”; e ciò che chiama sua definizione è solamante l'assegnazione e la sanzione della sua capacità di usare. In verità egli non ha alcuna definizione, bensì è definito da cose e pulsioni che compie nel sentimento dell'autocrazia, ovvero semplicemente nell'arbitrio. Non ha una grande volontà, soltanto l'arbitrio che vi profonde. […] Senza sacrificio e senza grazia, senza incontro e senza presenza, il suo mondo è complicato e pieno di mediazioni, non può essere altrimenti, e ciò si chiama fatalità. In tal modo viene virtualmente irretito nell'ineffettività, nonostante tutta la sua autocrazia; ed egli ne è cosciente, se mai riflette su di sé, perciò dirige la parte migliore della sua spiritualità a inibile, anzi, a coprire, quella riflessione.” In M. Buber, Io e Tu, in Principio dialogico e altri saggi, op. cit., p. 102

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l'insensatezza non possono colpire tale fondamento, resta il fatto che questa mancanza di senso possa manifestarsi ed accadere nel pensiero del singolo individuo.

L'uomo posto in una condizione di irresponsabilità e di incapacità di giudizio, può porsi in maniera indifferente nei confronti dell'altro, può non vederlo. In questo caso il singolo uomo non riconosce più la relazione come il proprio fondamento138 e, seppure Buber abbia considerato il pensiero come semplice mezzo e non fondamento dell'essere umano; è vero anche che, in un mondo come quello occidentale, che ha fatto del pensiero, del sapere oggettivo il modo predominante attraverso cui l'uomo deve rapportarsi al mondo, l'accadere del nulla (inteso come assenza di fondamenti) anche nel semplice pensiero, si rivela essere davvero un pericolo reale. Se infatti l'uomo occidentale è abituato a “guardare nel modo dell'Esso”, a conoscere attraverso l'assimilazione delle esperienze nel pensiero, una volta che questo viene privato della capacità di giudizio, poiché incapace di comprendere la destinazione delle proprie azioni, l'uomo non è più in grado di vedere l'altro, e di rintracciare il senso delle proprie azioni.

Pur non potendo sottrarsi dalla relazione, l'uomo può non vederla, non riconosce l'altro e non rispondere lui: è l'inizio di ciò che Buber chiama l'eclissi del noi.139

138 L'uomo che non riconosce più la relazione come proprio fondamento, si priva della capacità che tale fondamento conferiva

lui: quella di essere sensibile alle differenze. L'uomo da relazionale \ relativo, diventa assoluto, arbitrario e indifferente nei confronti di ciò che lo circonda, poiché non è più capace di considerare ciò che sta lui attorno come parte della propria individualità.

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“Il condizionamento sociologico dell'uomo cresce. Tuttavia questa crescita è il maturare di un compito, non nel dovere, ma nel potere e nel bisogno, nel desiderio e nella grazia. Bisogna rinunciare alla brama e all'abitudine di una tecnica totalizzante, che “viene a capo ”di ogni situazione; bisogna assumere ogni situazione, dai misteri triviali della quotidianità fino alla maestà del destino che distrugge, nel potere dialogico della vita autentica. Il compito diventa sempre più impedito e sempre più gravido di decisione. Tutto il regolato caos di quest'epoca attende che si apra un varco là, ove percepisce e risponde, un uomo lo prepara” in M. Buber, Dialogo, in Il principio dialogico e altri saggi, op. cit., p. 225

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Capitolo 6: Antropologia filosofica

6.1 In che modo possiamo conoscerci?

È ancora possibile parlare di antropologia filosofica riferendosi all'indagine, sin qui analizzata, svolta dal filosofo?

La definizione di uomo che Buber ha espresso è costituita da due caratteri: il primo è negativo ed esprime che cosa l'uomo non è: “l'uomo non è un oggetto”, mentre il secondo, “l'uomo come essere responsabile”, è un carattere positivo, poiché ci dice qualcosa in più di ciò che caratterizza l'essere dell'uomo. Ma se ciò che lo caratterizza è la responsabilità, da essa non possiamo dedurre una definizione di uomo, ma tutt'al più un'indicazione140. Se noi asseriamo che l'uomo è tale in quanto responsabile, per comprendere qualcosa in più sul nostro essere, all'interno di questa definizione, la prima domanda che possiamo porci è “rispetto a chi \ a che cosa l'uomo è responsabile?”.

La domanda che ci porremo sarà quindi riguardo al significato di tale responsabilità, e questo interrogativo ci condurrà oltre i confini della singola individualità: verso l'altro141.

La definizione di uomo come “essere responsabile” fa sì che noi possiamo giungere ad una definizione più profonda dell' “essere umano” solo in maniera mediata, attraverso la comprensione del significato di questa responsabilità.

Il fatto e fenomeno primo non è l'uomo, ma la relazionalità, ed è all'interno di essa che noi possiamo indicare l'uomo, come colui che vi prende parte. Per comprendere l'uomo, bisogna prima scoprire il suo fondamento, la relazione, che abbiamo visto essere lui esterna. Questo fondamento si coglie osservando l'uomo nella propria esistenza. Una volta presa consapevolezza del fondamento dell'umano, solo allora, si sarà capaci di comprendere l'essenza dell'uomo, ma non in quanto definizione bensì come indicazione. L'uomo in quanto singolo non esiste142. Coloro che lo assumessero in individualità, lo fraintenderebbero, incapaci di comprendere la sua essenza. L'Io-Tu è lo spazio in cui troviamo l'uomo.

140 “L'accesso alla relazione non si può insegnare con prescrizioni. Si può solo indicare, tracciando un cerchio che escluda tutto

ciò che non lo è. Allora diventa visibile ciò che è essenziale: la completa accettazione del presente. […] Non si tratta allora di rinunciare all'io, ma a quel falso istinti di autoaffermazione per cui l'uomo cerca rifugio nel possesso delle cose quando si trova dinnanzi all'incerto, evanescente, instabile, pericoloso mondo della relazione” In Io e Tu, in Principio dialogico e altri saggi, op. cit., p. 114

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Ecco che la domanda antropologica, nel farci percepire che noi possiamo comprenderci solo attraverso l'altro, sposta la nostra dedizione da noi stessi verso l'altro, e trasforma la meta: l'io non è più la meta di noi stessi, bensì l'altro che si incontra: “Basta porsi quest'unica domanda: “A che scopo?”; a che scopo ritornare in me stesso, a che scopo abbracciare il mio cammino personale, a che scopo portare a unità il mio essere? Ed ecco la risposta: “Non per me”. Perciò anche prima si diceva: cominciare da sé stessi. Cominciare da se stessi, ma non finire con sé stessi; prendersi come punto di partenza, ma non come meta; conoscersi, ma non preoccuparsi di sé.” In M. Buber, Il cammino dell'uomo, op. cit., p. 50

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“La reale anima singola non può mai venire considerata la realtà metafisica, poiché la sua vita essenziale, lo voglia o non lo voglia ammettere, consiste di incontri reali con altre realtà.” In M. Buber, L'eclissi di Dio. Considerazioni sul rapporto tra religione e filosofia, op. cit., p. 80

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L'uomo infatti per essenza non è mai singolare, e sarebbe sbagliato anche concepirlo come quell'essere che si caratterizza per la capacità di stabilire relazioni su larga scala. Anche in questo caso infatti si partirebbe dall'uomo e si vedrebbe la relazione come effetto di una sua capacità.

Qui è esattamente all'opposto: la relazionalità dell'uomo non si dà come carattere positivo, cioè come risultato di una capacità umana. Semmai, questo carattere che fonda l'uomo, lo caratterizza in quanto limite: l'uomo, in quanto “essere relazionale” non è in grado di uscire dalla relazione.

L'antropologia classica si è sempre mossa, ed ha sempre studiato l'uomo in maniera non corretta. Un po' come se in fisica si studiassero le dinamiche delle forze di determinati oggetti, senza tenere di conto la forza di gravità che la terra esercita su di essi: i calcoli risulterebbero del tutto errati. Senza questa consapevolezza, si sarebbe fraintesa qualsiasi dinamica materiale che intercorre fra noi e gli oggetti e fra gli oggetti stessi tra di loro. Allo stesso modo, tutti i tentativi di antropologia fino ad ora messi in atto hanno studiato l'uomo senza notare che ogni movimento che lo riguarda poggia su di una “dinamica d'attrazione” primaria, che influisce e determina ogni azione umana. È da questa “attrazione” primaria, che è la relazionalità stessa, che si può comprendere e capire appieno l'umano.

Se, al contrario, come è la tendenza dell'antropologia moderna, si considera l'uomo come fatto primo, lo si misconosce, senza comprendere che lui stesso è coinvolto in una dinamica che è determinata dalla sua stessa esistenza, non come effetto della propria volontà, ma della sua sola presenza.

Il singolo deve imparare a comprendere sé stesso a partire dal fondamento di questa dinamica necessaria, che è determinata dalla sua stessa esistenza.

L'uomo, nell'indagine di Buber può soltanto essere indicato, come colui che stà lì, nel mezzo della relazionalità, nulla più che questo può essere detto143. Questa è l'unica determinazione con cui si possa definire la totalità dei singoli esseri umani. Ognuno di noi, nel diverso modo con cui conduce la propria esistenza, sta lì dentro: in quel comune spazio di relazioni intrecciate.

Come la natura terrestre è fatta in modo da attrarre a sé i propri elementi, quella umana è, allo stesso modo, costruita per mezzo di una sorta di “campo magnetico” in cui ogni singolo uomo è, al di là della propria volontà, destinato a convergere.

Dopo tutte le analisi condotte, il filosofo, come avevo già anticipato, non arriva mai ad una definizione dell'uomo, ma lo indica come colui che prende parte al tutto della relazionalità esistente.

Entriamo a contatto con una dimensione che non solo precede il singolo uomo, ma lo trascende.

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Ciò non toglie che ogni persona sia un'unicità, per cui, alla domanda Chi è l'uomo? Buber risponde indicando l'uomo come colui che prende parte alla relazionalità, tuttavia, questa relazionalità non è un qualcosa che può essere considerato al modo di un paradigma generico: si tratta di un'effettività. Tutti noi siamo accomunati dal fatto di prendere parte alla relazionalità, ma ognuno di noi è le relazioni che intrattiene. Quindi alla domanda si può rispondere solo prendendo in considerazione ogni singolo uomo nel proprio contesto relazionale. Questa specificazione serve a tenere ferma la differenza dell'analisi di Buber con quella dell'ontologia fondamentale di Heidegger, la quale, a differenza della prima, si svolge su di un piano essenziale.

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Già Kant, considerando l'esigenza di introdurre dei filtri di traducibilità fra uomo e mondo, aveva intuito che quando l'uomo conosce non introduce in modo totale la propria esperienza entro di sé, ma tralascia qualcosa, intuisce la presenza di un'eccedenza, che trascende l'uomo stesso. Attraverso lo studio delle forme a priori (categorie) Kant si riferisce al mondo dell'esso e studia il modo in cui l'uomo conosce e recepisce il mondo nel proprio intelletto. La riflessione di Buber invece si applica al momento dell'incontro fra uomo e mondo, e paradossalmente cerca di dare traducibilità proprio a quell'eccedenza che l'uomo, nel suo interagire con il mondo, non riesce a assimilare al modo di un concetto. Si tratta dell'incontro dell'Io con un Tu: della relazione autentica che per Buber sta a fondamento dell'umano. Alla fine di queste analisi si può affermare che, nella riflessione del filosofo, si dà possibilità di conoscere la vera essenza dell'umano solo facendo riferimento ad una certa ontologia: quella della relazione. L'uomo, come essere responsabile, lo si può comprendere soltanto facendo riferimento al contesto relazionale: è lì che si trova l'uomo144. L'antropologia, la domanda sull'uomo viene ad essere subordinata e mediata dalla riflessione sulla relazionalità.

La riflessione di Buber, come già detto, è condotta osservando il comportamento umano nel suo limite relazionale. Entro questo limite l'uomo si trova di fronte ad un evento, quello della relazione, incapace di assimilare in modo totale. A questo punto si pone un ulteriore interrogativo: come può l'uomo conoscere in profondo il proprio fondamento relazionale se quest'ultimo lo trascende?

Dall'antropologia siamo passati all'ontologia della relazione, affermando che la prima sia subordinata a quest'ultima, ora vedremo come l'ontologia della relazione, troverà via di traducibilità entro la dimensione teologica145. Infatti l'uomo di fronte al suo fondamento relazionale non basta a sé stesso per comprendersi: ci troviamo di fronte ad un entità eterna ed infinita che è Dio.

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“La via autentica, suggerisce Buber, è quella della “relazione-tra-uomo-e-uomo, della relazione interpersonale e della comunità”. Solo nell'incontro- che costituisce la trascendenza stessa (non un trascendente) e, pertanto una struttura ontologica originaria, si costituisce il “luogo” della relazione tra l'io e il tu, l'evento della relazione, si costituisce anche l'uomo, non come individuo isolato ma come persona-per un mondo di persone”. In Giuseppe Bon, op. cit. p. 76

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“In quanto la persona include nella sua propria essenza, - sia per quanto concerne la sua esistenza che la sua concezione adeguata- la relazione con l'altro, e siccome ogni relazione autentica è una relazione che avviene non con l'esteriorità dell'altra persona ma con la forza del suo rispondere e dell'incontro con ella, (si afferma che) Dio è la vera anima dell'altra persona; da ciò consegue che lo studio della persona include necessariamente uno studio, o un domandarsi riguardo ciò che trascende la persona, come fa Dio rispetto ad essa. In conclusione, nell'antropologia filosofica, senza alcuna prescrizione di dogmi, è implicata la teologia. Ciò che di divino è nell'uomo, non può essere compreso come qualcosa di esistente di per sé stesso, ma solo come prodotto dell'emanazione di Dio. […] (Allo stesso modo si dà anche il contrario), il fatto cioè che anche la teologia filosofica implichi l'antropologia filosofica; le due discipline si implicano in modo reciproco. (Questo perché Dio è Tu Eterno, per cui), parlare di Dio al di fuori della relazione che l'uomo intrattiene con Egli, significa fare mitologia. Parlare in modo significativo di