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7.3 “Prolegomeni ad una filosofia della religione”, religione come presenza

Capitolo 8: Comprensione: percorso di avvicinamento al linguaggio divino

8.3 Il pre-etico

“Qui, nella sfera della decisione, nel dominio della morale che tocca l'essere religioso, non ci sono, in verità, Bene e Male. Colui che decide, non sceglie per il Bene o per il Male. Piuttosto, ci sono solamente, se si può dire in un senso specifico, il giusto e l'ingiusto, ovvero, colui che ha direzione, capacità di decisione e di scelta, e colui che non ha direzione. E qui ci si spalanca un vastissimo orizzonte: il grande problema della legge”242

In questo capitolo propongo un approfondimento di quanto accennato al paragrafo 7.2 riguardo al rapporto fra etica e realtà di Dio. Nello specifico cercherò di spiegare che cosa si intende nel definire pre- etica la realtà di Dio, e successivamente proverò a rispondere alle problematiche ed obiezioni che potrebbero essere poste nei confronti di questa.

Presupposto che l'etica non possa essere considerata quale mezzo di traducibilità del religioso, noi potremmo rivolgerci al linguaggio divino concependolo come peculiare e primo in sé stesso. Analizzando il dialogo fra uomo e Dio nelle sacre scritture, si potrebbe individuare il senso dell'agire divino e del suo modo di relazionarsi all'umano come collocabili in un ambito non etico, bensì pre-etico, nel luogo di nascita della relazione stessa.

Per meglio dire, il comportamento di Dio sarebbe da cogliere in un momento che precede l'ambito dell'etica: ancor prima della divisione fra bene e male, Dio si cura e preoccupa di stare entro una relazione, e ci mostra qual è l'atteggiamento di decisività, unitarietà e talvolta caparbietà con cui Egli stesso cerca di mantenere in vita tale relazione.

Un esempio biblico cui si può fare riferimento in proposito è il comando da parte di Dio a Mosè di fare strage fratricida ai piedi del monte Sinai a seguito della costruzione del Vitello D'oro. Come interpretare questo atto? Sicuramente da un punto di vista etico esso è riprovevole, ma come già considerato noi ci

dall'interno, così da sentirsi vicino al mondo come non mai.”In M. Buber, L'insegnamento del Tao. Scritti tra Oriente e Occidente, op. cit., p. 96

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poniamo in un momento prima dell'etica: il momento di costruzione di una relazione. Noi qui potremmo vedere come destinazione della cruenta decisione divina, come scopo di essa il mantenimento dell'esistenza della comunità stessa cui si era rivelato, il sussistere stesso della relazione.

Ciò che si può trarre da tale episodio è l'essere pronto a ricorrere a tutti i mezzi possibili, da parte di Dio, pur di creare degli effetti -in questo caso l'eliminazione degli idolatri- che siano capaci di mantenere in vita la compattezza di quella relazione243. Da ciò non consegue alcun tipo di possibilità di positiva emulazione di Dio da parte dell'uomo, ben lontani da una simile affermazione noi ci stiamo ponendo nell'ambito che precede l'etica stessa, ci stiamo riferendo al comportamento e linguaggio divino, che in quanto tale è assolutamente altro rispetto a quello umano.

Considerando ed analizzando questo episodio si può comprendere come ciò che più, ancor più della vita dei singoli uomini, sia di importanza imprescindibile per il divino sia la comunità, la relazione stessa. Niente e nessuno può, agli occhi di Dio, minare il sussistere di questa relazione fra Lui e gli ebrei d'Egitto. Questa è la prospettiva, queste le categorie che devono essere tenute di conto quando ci si approccia alle letture bibliche: Dio non sta di fronte al singolo uomo,- perché il singolo uomo -come lo stesso Buber asserisce- non è nulla se non in relazione ad un Tu, bensì di fronte alla grande relazione in cui tutti gli uomini sono intrattenuti e vivono.

L'operare di Dio sarà quindi posto in questo ambito che abbiamo chiamato del pre-etico: ciò che importa davvero è che ogni uomo capisca e faccia cara la consapevolezza di essere sempre in un ambito di relazione la cui eclissi metterebbe in pericolo la sua stessa umanità. Ciò è quanto Buber stesso asserisce, analizzando ne La fede dei profeti uno degli aspetti -quello legislativo- del dialogo Uomo-Dio:

“Nelle leggi apodittiche, l'elemento “sociale” non può essere compreso a partire dal compito di migliorare i rapporti sociali, ma solo a partire dal compito di fondare un vero popolo, come partner del melek nell'alleanza; e le tribù presenti possono esserlo solo assecondando l'azione di Dio, non attenendosi alla propria. Quando per esempio, viene comandato (22,21) di non opprimere la vedova e l'orfano, o (22,20;23,9) di non maltrattare il ger, il “residente straniero”, si tratta qui certo delle singole persone dipendenti, senza protezione, esposte al potere del potente; ma il fine per il quale viene comandata una tale cosa non è l'individuo, bensì il “popolo di YHWH”, che deve realizzarsi, ma non può realizzarsi se il distacco sociale allenta la coesione tra i membri del popolo e disgrega l'immediatezza dei loro rapporti reciproci”244

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“Quando Mosè, con il fuoco del roveto negli occhi, compare dinanzi agli anziani di Israele, sentiamo che ciò che accadrà è già interamente predeterminato. Nella storia universale e nel mito universale non conosco evento più grande, più tremendo. Il popolo ha rinnegato ciò che ancora non era riuscito a comprendere- per ordine di Mosè, i figli di Levi attraversarono l'accampamento e massacrano temila dei loro fratelli. La stirpe uscita dall'Egitto non supera le prove del deserto- perirà nel deserto. Nell'annientamento di ogni cosa mediocre ed imperfetta il Dio annunciato si manifesta come il divorante fuoco dell'incondizionatezza.” In M. Buber, Rinascimento ebraico, op. cit., pp. 187-8

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Ciò che la legge di Dio qui tenta di realizzare non è tanto una distinzione fra ciò che è bene e ciò che è male, bensì la produzione di un agire sociale che produca una giustizia, un'equità tale da consentire il sussistere della totalità delle relazioni che compongono la comunità ebraica.

In un passo di Io e Tu la relazione è definita quella potenza da cui “le strutture della vita collettiva dell'uomo traggono vita e forma”245, si concepisce dunque la reciprocità l'“essere nella relazione” come motore di giustizia sociale primario.

Buber nota come questa concezione, nel tempo moderno, stia procedendo verso quella deriva idolatrica che da sempre Dio ha avvertito come minaccia alla sussistenza della relazione autentica. Oggi più che mai in un tempo in cui “l'economia ha assunto l'eredità dello stato”246

si avverte possente la minaccia dell'Esso: l'economia e lo stato sono assurti a fatti primi ed indipendenti, capaci di condizionare lo spirito non lasciandosi facilmente influenzare da questo; sintomo di una “cultura che ha perso il suo centro in un processo di relazione vitale e si è irrigidita a mondo dell'esso, in cui, come in un'eruzione, fa breccia solo saltuariamente l'agire incandescente di spiriti isolati”247

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Buber riconosce come il mondo moderno sia abitato da un uomo sempre più solitario ed incapace di decidersi e di comprendere la vera destinazione degli effetti del suo agire. Ci troviamo qui molto lontani dalla destinazione di santità cui Dio aveva promesso gli ebrei fuggiaschi d'Egitto di condurre. In una terra di latte e miele, in cui l'abbondanza dei viveri e beni materiali, accessibile all'universalità dei membri, sarebbe stata il meritato prodotto della giustizia delle relazioni socio-produttive su cui si sarebbe costituita la comunità ebraica una volta divenuta popolo248.

“L'unità di veracità e giustizia sono, nella cultura israelitica,” -cui Buber si riferisce- “uno dei concetti fondamentali del rapporto divino-umano, si tratta di un'imitazione di Dio, e proprio in funzione dell'effetto umano del suo operare. La giustizia scorre giù dal cielo e vuole continuare a scorrere sulla terra, con la mediazione dell'uomo della terra, del popolo della terra; scorre come le acque, passando attraverso tutte le rotture e le divisioni che l'inadeguatezza del finito le impone, e tuttavia senza inaridirsi, come un ruscello perenne. Ma il popolo degli uomini si sottrae al torrente di Dio, essi si rifiutano di lasciarlo scorrere nella vita, cosicché le acque si ingorgano, sino a quando precipitano distruggendo e la giustizia si trasforma in giudizio”249

245

M. Buber, Io e Tu, op. cit., p. 93

246 Ibid., p. 92 247

Ibid. p.97

248 Dio quando stringe il patto con il popolo ebraico conferisce lui una Costituzione sociale, sostanzialmente agraria, poiché

quello era un popolo contadino, “questa Costituzione agraria, sociale, possiede il seguente significato di fondo: non può accadere nulla che mini il carattere comunitario di questo popolo e in particolare rispetto al suo principio di base, ossia assicurare a chi è privo di sicurezze che si vigilerà sempre affinché le differenze sociali, specie le differenze tra i membri del popolo, non aumentino a tal punto da minare il contenuto comunitario di questo popolo, vale a dire la possibilità a esso correlata di far nascere immediatezza tra un membro del popolo e l'altro.” In M. Buber, Israele e i popoli. Per una teologia politica ebraica, Brescia, Morcelliana 2015, p. 79

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Nella parte finale della citazione vediamo il pericolo scorto da Buber della trasformazione della giustizia divina in giudizio. Ciò accade quando l'uomo smarrisce la consapevolezza del suo essere entro una dimensione relazionale, perdendo il suo contatto con Dio, e rifugiandosi nel più sicuro ambito del giudizio, dell'etica in cui di fronte al suo scegliere si dipanano due sole vie in contrapposizione.

Se prestiamo attenzione al Decalogo notiamo come esso si componga di precetti esclusivamente al negativo. La sua funzione si potrebbe dire finalizzata ad operare verso il mantenimento della relazione con l'altro. Se noi non rispettassimo i comandamenti del Decalogo, la prima conseguenza tangibile che si porrebbe di fronte a noi non sarebbe tanto la comparsa del male, bensì la scomparsa della relazione con l'alto.

Il Decalogo serve a Dio per darci le misure del nostro agire sociale, i comandamenti divini non ci mettono in guardia dal male in sé per sé, bensì dall'agire anti-sociale. Ogni comandamento, dal primo all'ultimo vieta noi di mettere in pratica un agire che minerebbe l'esistenza stessa di una relazione con l'altro. Questo è il male per Dio: il mettere a repentaglio il sussistere della relazione. Ed è questo il punto a cui Buber si riallaccia: se alla base dell'essere uomo c'è la capacità di entrare in relazioni autentiche, nel momento in cui “praticamente” io attuo comportamenti che mettono in pericolo questa capacità, io, in quanto uomo mi eclisso, non esisto più autenticamente in quanto tale.

Dio fu il primo a fondare una comunità intessuta da relazioni autentiche. Dal Sinai alla terra promessa, Egli fece “scuola di relazione”: diede all'uomo indicazioni sul suo essere umano, poiché insegnò lui il modo in cui stare in una comunità250. La Bibbia ed i testi sacri, intesi da Buber come testi rivelativi del dialogo uomo-Dio sono pedagogici in questo senso, insegnano l'importanza della relazione, del pre-etico, di ciò che precede il bene ed il male: ci mettono nella condizione di diventare disposti al dialogo con l'altro, ci consapevolizzano dell'importanza dell'essere continuamente in una relazione in cui non soltanto siamo coinvolti ma del cui sussistere ne va della nostra stessa umanità.

Il “Non” , precedendo ogni precetto del Decalogo, fonda una comunanza di forma in tutti i precetti. Esso è al solito modo del sì affermativo, la parola che fonda il mondo della pre-eticità nel modo in cui in essa non abitano contenuti di alcun tipo, bensì solo l'azione e la decisione. Qui ciò che importa è la risposta nei confronti dell'altro che può essere affermativa, nel caso in cui si rispetti il Decalogo, o all'opposto negativa, nel caso in cui si violino i precetti e si operi in senso contrario alla relazione251.

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“La maggior parte delle riflessioni di Buber riguardo la struttura relazionale e della legge di una comunità trovano il loro fondamento nei suoi scritti biblici. Qui il Decalogo diventa il primo esempio del ruolo che la legge ha entro una comunità. Israele viene all'essere e rimane in esso solo come popolo di Yahweh; e il Decalogo gioca un ruolo vitale nella formazione di Israele come popolo, come comunità. Il Decalogo è la costituzione di Israele, ma esso non è una legge che possiede valore di per sé stessa. Il suo valore deriva dal fatto che è stata pronunciata da Yahweh; al di fuori della vitale relazione fra Israele e Yahweh, il Decalogo perde il suo significato.” In Donald L. Moore, op. cit., p. 229

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“Questo rispondere ed essere responsabile è la storia che accade, la via che procede attraverso la caduta verso la redenzione, che costituisce una volontà di rispondere anche nel rifiuto. In questo sentire ciò che conta è la risposta. Rispondere, quindi, con il rifiuto. Perché anche nel rifiuto vi è di volta in volta il nucleo di un tentativo. Che cos'è allora il quantum satis di quanto facciamo? Che l'uomo produca questo balbettio, che si può chiamare, nel migliore dei casi, la sua azione. Questo tentare, il rispondere in questo modo, è la vita umana, questo agire tra l'uomo e ciò che non è uomo. Con quello che dico non intendo né la

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L'azione, la scelta di rispondere in modo affermativo o negativo alla relazione è presupposto dell'etica, la quale può procedere innanzi soltanto sulla base di una preliminare accettazione dell'incontro con l'altro. Ciò che è decisivo è quindi il fatto che “all'uomo importi” l'intrattenere una relazione autentica con l'altro. L'obiezione che a questo punto può essere fatta a Buber è: come può il singolo uomo essere in grado di muoversi e di agire con sicurezza entro un tale ambito pre-etico, considerato fin d'ora come campo d'azione divina? Cito un passo di Buber , estratto da Religione come presenza, in cui il filosofo, proprio trattando del rapporto fra religione ed etica, afferma l'indipendenza della prima rispetto alla seconda, e riassume un po' quanto detto fino ad ora riguardo il suo occupare un posto che prescinde e precede l'etica stessa. In tale passo mi sembra inoltre che in maniera simile Buber si interroghi -rispondendovi- riguardo al paradosso sopracitato: è possibile all'uomo accedere a tale dimensione al di là dell'etica?

“Allora il religioso non ha più niente a che fare con la realtà. Allora ha a che fare solo con quella sottile fetta di realtà che delimita attraverso la morale, attraverso il Bene ed il Male, che è così compresa in questa polarità. Allora Dio è soltanto in questa porzione di mondo, allora -si può, forse, dire anche così- la creazione non è più rivelazione, e con questo si distrugge insieme anche la consistenza del religioso. Vorrei chiarire questo punto: forse rimane ancora la rivelazione, ma non rimane più la creazione in quanto rivelazione. E forse l'uomo a cui è stato dischiuso il religioso, l'uomo in cui il religioso vive, ha, anche nei suoi comportamenti, una solennità, un portamento, che nessun altro, a cui il religioso non si è dischiuso, può avere. Ma questa solennità non viene dal fatto che la morale venga elevata al religioso, ma dal fatto che quell'uomo stia in un fondamento incrollabile.”252

Buber qui risponde all'interrogativo: l'uomo può e accede a questa dimensione del religioso che sta prima e al di là dell'etica semplicemente per il fatto di essere creatura di Dio, nata e guidata da Lui. La sfera , “il dominio della decisione” è all'uomo dischiuso nella sua dimensione terrena in quanto creatura di Dio. Dio ha messo l'uomo nelle condizioni di essere capace di pervenire al senso della vita, ha insegnato lui il significato della relazione. La creazione è il senso e la destinazione che deve guidare l'uomo entro lo spazio della decisione. La creazione è messa nelle mani dell'uomo ed è ora sua responsabilità e compito portarla innanzi nel modo in cui Dio ha cominciato253.

religione né la morale, le quali sono realmente capaci di ostacolare il volto del Tu. Niente è capace di ostacolare il volto del Tu come la religione e la morale. Si possiedono informazioni intorno a Dio, e non si deve stare in attesa che egli si palesi in una fora non prevista. Oppure, si possiedono informazioni sulle norme etiche e si è rassicurati. Ma qui, dove le norme cadono a pezzi, dove in verità io non sono più nulla, poiché io non posso prevedere nulla, qui accade la decisione. Io sono qui, dove mi si palesa il Male, ciò che si oppone alla morale, come qualcosa che mi reclama, come qualcosa che ha bisogno di me, come qualcosa da amare. ”In M. Buber, Umanesimo ebraico, op. cit., p. 49

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M. Buber, Religione come presenza, op. cit., p.63-64

253 “La storia va avanti, e la storia significa che un tempo non è uguale all'altro. Dio agisce nella storia, e Dio non è una macchina

che, una volta installata, procede regolarmente fino a quando finisce di funzionare, egli è un Dio vivente. Anche la parola di Dio in un certo momento, cui si obbedisce ponendosi un giogo attorno al collo, non si può appendere come un quadro; Dio ha una verità, la verità; ma Egli non ha alcun sistema. La sua verità si manifesta attraverso il Suo volere; ma il Suo volere non è un programma. Dio ha una volontà per l'umanità in questo momento; ma anche il mondo umano è stato dotato di una volontà da Dio, di più è stato dotato da Lui in misura sufficiente della capacità di portare a compimento questa volontà; l'umanità, dunque, può cambiare in questo momento, e Dio, che si prende intimamente cura di lei, della sua volontà e dei suoi possibili cambiamenti, può, se essa cambia, cambiare il proprio stesso volere per lei. Ciò significa: la realtà storica può cambiare. Non ci si può affidare

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Si è visto come il ristretto ambito dell' etica binaria (divisione fra bene e male) sia stato superato anche nel terreno dell'umano nel momento in cui Buber ha affermato l'incontro fra uomo e Dio come un accadere esperibile nel rapportarsi sociale autentico. Ciò significa che se l'umano è coinvolto nel trascendente anche l'etica (come abbiamo visto per ogni scienza sociale) non può più costringere l'umano entro le due definizioni settarie di bene e male, anch'essa deve necessariamente aprirsi:

“Per la decisione non c'è alcuna realtà delimitata. Per la decisione c'è solo l'illimitato, al cui interno si decide. L'unico limite di questo illimitato è l'eterno decidersi. Nel mondo del giudizio c'è un mondo delimitato, diviso, separato tra bene e male. Ma questa divisione ha la sua legittimità umana. Io dico legittimità umana, sebbene, in verità, vada contro l'essere umano”254.

Dio è semplicemente colui che ha costruito il “luogo dell'a priori della relazione” quell'a priori cui Buber cerca con grande speranza di ricondurre a consapevolezza l'uomo moderno.

al sapere divino. Bisogna andare avanti, ascoltare di nuovo. ” In M. Buber, Una terra e due popoli. Sulla questione ebraico- araba, tr. it. Irene Kajon e Paolo Piccolella, Firenze, Giuntin, 2008, pp. 185-6

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Capitolo 9: Conversione: la via dell'uomo religioso, attraverso il