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Forme di dialogo fra uomo e Dio negli scritti dei profeti: il significato di rivelazione

7.3 “Prolegomeni ad una filosofia della religione”, religione come presenza

Capitolo 8: Comprensione: percorso di avvicinamento al linguaggio divino

8.1 Forme di dialogo fra uomo e Dio negli scritti dei profeti: il significato di rivelazione

Nel pensare alla creazione, per lo più, si ha in mente l'atto con cui Dio fa di uno spazio vuoto un luogo popolato da creature naturali, viventi, umane e oggettuali. Nella Stella della Redenzione Rosenzweig ci dà modo di pensarla in maniera più precisa: il filosofo asserisce che ancor prima dei sostantivi, ossia dei nomi delle creature create, Dio pronunciò degli aggettivi, e fu con essi che conferì una qualità al mondo, alla realtà che stava creando. Questo significa che Dio, nell'atto di creazione, non dà semplicemente vita ad un mondo popolato di libere creature e di possibilità ad esse aperte, bensì, ancor prima, crea anche le condizioni per cui si possa riconoscere la qualità di tutto l'esistente215. Ciò vuol dire che il fatto significativo di creazione sia quello per cui Dio creai una realtà dotata di una qualità, di una modalità intrinseca. Nel crearci Dio pensò non solo al modo in cui plasmare l'essere umano, ma inserì nel luogo in cui l'uomo si fosse incontrato con l'altro uomo, un'indicazione di come dovesse essere la realtà dell'uomo con l'uomo: relazionale, reciproca. Attraverso quest'indicazione Dio ci pose di fronte alla possibilità di una nuova creazione: Dio nel crearci diede vita ad un'insieme di creature, ma nel qualificare la realtà dell'uomo con l'uomo come relazionale e dunque reciprocamente vincolante, legando ogni uomo al destino dell'altro uomo, Dio immise nel creato la possibilità di portare a compimento questa realtà di reciproco vincolo, di modo che questo sotteso legame dell'uomo con l'uomo che ci fonda, possa essere portato alla realtà e riconosciuto in modo universale. Che non sia forse questo il contenuto della rivelazione divina? Buber, più volte, con il termine rivelazione si riferisce, ad esperienze personali che nascono dal nostro contatto con la realtà, in Buber è la realtà che di volta in volta abbiamo di fronte ad esercitare su di noi un potere rivelativo216. La rivelazione divina è per il filosofo un qualcosa che ha a che

215 “Quanto essa (la Bibbia) ha da dirci, e che non si può esprimere in nessun altro luogo al mondo con una tale semplice forza, è

questo: che esistono la verità e la menzogna, e che il senso e l'esistenza dell'essere umano consistono nel decidere per la verità e contro la menzogna; che esistono la giustizia e l'ingiustizia, e che la salvezza dell'uomo dipende dal fatto che questi scelga la giustizia e rifiuti l'ingiustizia, e (…) che nelle relazioni tra uomo e uomo si debba praticare la giustizia (…). L'humanitas che, oggi come allora, parla da questo libro, è l'unità dell'esistenza umana sotto la guida divina, che distingue in maniera assoluta tra la verità e la menzogna, così come tra la giustizia e l'ingiustizia, proprio come la parola creatrice distingueva tra la luce e le tenebre.” In M. Buber, Umanesimo ebraico, op. cit., p. 85

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“Ogni realtà religiosa è, nel suo fondamento ultimo, un affare del qui ed ora, e non un certo quale evento storico, unico ed incomparabile in virtù della sua essenza, bensì un evento eterno e sempre presente, che si rivela solo nella molteplicità delle forme, nelle molteplicità della storia. (…) Con questo noi rifiutiamo necessariamente ogni tentativo di simbolizzare la rivelazione, ogni tentativo che mostri il risultato della rivelazione indicandolo esclusivamente in modo simbolico, come qualche conoscenza di un'altra natura. In questo caso, nello stesso modo in cui ne parlavamo inizialmente, la religione non sarebbe nient'altro che una sottospecie di arte, una sottospecie secondaria e superflua.” In M. Buber, Religione come presenza, op. cit., p. 169

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fare con la realtà in cui siamo immersi, ha a che fare con quella qualità che Dio ha immesso fra l'uomo e l'altro uomo, che ancora non si è del tutto appalesata217.

Gli scritti profetici che Buber analizza, hanno questo significato. Essi, nel corso degli incontri con Dio, appalesano sempre di più la struttura del reale, restituendo significato alla progettualità umana218.

Lo studio degli scritti profetici, il ricostruire la storia ed il significato degli incontri con Dio, è per Buber un'indagine attorno alla consistenza della realtà creata da Dio219. Riuscire a comprendere il significato, il contenuto della rivelazione profetica significa approssimarci, procedere innanzi, sempre più vicino a quella struttura invisibile che fonda la realtà comune220: l'essere-per-l'altro, ciò che Buber intende nei termini di Io e Tu.

Prestiamo ancora una volta attenzione al racconto dell'Esodo, e proviamo a comprenderlo attraverso il significato di rivelazione fino a qui esplicato. Se il contenuto di rivelazione è l'indicazione riguardo a quella certa qualità relazionale che fonda il rapporto dell'uomo con l'uomo, allora possiamo interpretare i vari interventi di Dio nella storia come momenti rivelativi di questa realtà221. L'intervento di Dio in Egitto ha esattamente questo significato: rendere consapevoli gli ebrei della qualità della loro esistenza presso quel popolo. Gli ebrei da sempre vissuti in Egitto in quelle condizioni socio-politiche erano incapaci di

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“Rivelandosi, Dio non offre alcun “contenuto” di sé che possa diventare stabile possesso da parte dell'uomo, ma Egli dona una “presenza” che accoglie nella reciprocità solidale della relazione, una presenza che conferma e garantisce il senso della vita, di “questa” vita che all'uomo, a “questo” uomo, è stata oggi affidata” In Daniele Vinci, La filosofia della parola di Martin Buber, in M. Buber, La parola che viene detta, a cura di Daniele Vinci, tr. it. di Nunzio Bombaci, Cagliari, PFS University Press, 2015, p. 79

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“L'uomo d'oggi non conosce un inizio- la storia gli scroscia addosso a partire dal tempo cosmico privo di storia. E non conosce una fine- la storia lo consuma e incenerisce in un tempo cosmico ugualmente privo di storia. E che razza d'episodio violento e folle è diventato questo star qui tramezzo! L'uomo non conosce più un'origine e una mèta perché non vuole più conoscere il centro al quale lui stesso dovrebbe concedersi, per conoscerlo. Solo a partire dal carattere di presente della rivelazione la creazione e la redenzione sono vere. L'uomo d'oggi s'oppone alla Scrittura perché non è più in grado di tener testa alla rivelazione. Tenere testa alla rivelazione, significa rispondere dell'istante: esserne responsabile. L'uomo d'oggi si oppone alla Scrittura perché non accetta più la responsabilità. Crede di essere assai ardito, ma in realtà evita accuratamente l'unico vero osare, quello della responsabilità. ” In M. Buber, Umanesimo ebraico, op. cit., pp. 19-20

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“Il tempo biblico è quindi un tempo storico: in esso, la profezia rende presente e storicamente operante il progetto di Dio; il tempo di Dio si incontra e scorre con il tempo dell'uomo, prendendo decisamente le distanze dal tempo mitico e da quello ciclico della cultura greca. “È mediante l'attività della profezia che l'assoluto si rivela in termini relativi. Attraverso il prisma della profezia il tempo di Dio si riflette nei tempi molteplici della storia”. A differenza del tempo mitico e di quello ciclico il tempo storico e il mondo che è lo spazio all'interno del quale esso scorre è esposto al rischio dello scacco.” In Nunzio Galantino, Crisi della modernità e antropologia di ispirazione neoebraica, in «Veritas», Vol. I, n° 15 (2006) p 285

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“Il profeta israelitico parla calato nella piena attualità di una situazione determinata. Egli non predice quasi mai un tratto univocamente determinato del futuro (ci sono delle eccezioni, ma esse indicano solo, per così dire, il margine estremo della profezia). YHWH non gli consegna un libro compiuto del destino, in cui sono descritti gli avvenimenti futuri, che egli debba sfogliare davanti ai suoi ascoltatori. (…) L'autentico profeta non rivela un fato immutabile; egli parla inserendosi all'interno della possibilità di decisione del momento, in modo, anzi, che proprio il suo messaggio di sventura riguarda questa possibilità di decisione.” In M. Buber, La fede dei profeti, op. cit. p. 105

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“ (È data la possibilità) di leggere la Bibbia, oltre che come il libro di fede di un popolo, come la presentazione di una pluralità di forme di dialogo realizzatesi tra Dio e l'uomo e tra gli uomini tra loro. Così la Sacra Scrittura, riscattata dalla sua cornice culturale e confessionale, la si accosta come contenitore della “trama di un'antropologia dialogica di grande suggestione, i cui termini dell'incontro- Dio e l'uomo- sono posti originariamente nel loro spessore personale, in una posizione di differenza che supera l'in-differenza e che trova il terreno dell'incontro attraverso una graduale e reciproca educazione all'altro”. Le pagine bibliche, allora, ci appariranno soprattutto come storia di una inedita relazione all'interno della quale i singoli episodi sono momenti particolari che contribuiscono a caricare di senso la relazione stessa ed il dialogo da essa derivante. (…) Il dialogo che si incontra nelle pagine della Sacra Scrittura è un dialogo che è sorto, si è sviluppato, si è inceppato, è rinato. Un dialogo, insomma, segnato sempre dal carattere della precarietà e dal rischio: da quello incompiuto, tra Dio e la prima famiglia umana (Gen 3,9) e tra i membri della stessa famiglia (Gn 2, 23; 2, 8), fino ad arrivare al falso dialogo messo in scena a Babele (Gn 11, 1- 9); dalla nascita del dialogo autentico tra Dio ed Abramo fino al dialogo pieno stabilitosi nel pieno rispetto dei ruoli tra Dio e Geremia (Ger 12, 1; 15, 18) e al dialogo carico di dramma sviluppatosi tra Dio e Giobbe. ” In Nunzio Galantino, art. cit., p. 279

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discernere la qualità delle loro esistenze, per questo Dio, per mezzo di Mosè, dovette introdurre in loro un principio di inadeguatezza. In questo esatto principio risiede la rivelazione di Dio in quel preciso momento storico222. Due sono le promesse che Dio stringe con gli ebrei, e da cui si rende possibile questo principio di inadeguatezza da parte degli ebrei nei confronti dell'Egitto. La prima è quella di condurli in una terra di latte e miele, dunque in una terra di agi e di modeste risorse, e la seconda quella di condurli in una terra di santità e di fare loro un popolo santo. La prima promessa si appella ad un livello materiale, mentre nella seconda promessa, la santità si riferisce proprio alla realizzazione di quella qualità relazionale della realtà dell'uomo con l'uomo. La terra di santità cui Dio destina gli ebrei è il luogo in cui la struttura relazionale dell'essere si palesa, si fa chiara, così evidente nel cuore di ogni uomo, che nessuno sarà più nelle condizioni di poter non vederla.

Ecco allora che si spiega meglio, quanto intendevo sostenere nel paragrafo 7.2 nel dire che ciò che discende primariamente da Dio non è un principio di valore bensì la realtà stessa: Dio illumina la struttura del reale, ci rivela il senso intrinseco di questa realtà: l'essere in comune, l'essere nostra, l'essere condivisa.

Riconoscere che il contenuto della rivelazione divina sia l'indicazione riguardo la qualità della realtà che ci è data vivere quella per cui ognuno di noi è in-legame con l'altro, significa riconoscere che la realtà in cui esistiamo è dotata di una qualità intrinseca.

Ma cosa significa e soprattutto cosa discende dal riconoscere una qualità intrinseca alla realtà? La prima possibilità che si schiude è quella di fare della stessa realtà, ora riconosciuta come relazionale per essenza, un valore. Il fatto che la realtà abbia una qualità intrinseca ci permette di fare di quella qualità il nostro punto di riferimento per valutare il nostro agire, il quale, ora, è giudicabile attraverso il suo diretto confronto con la realtà stessa. Ora siamo messi nella condizione per cui non occorre alcun parametro “sovrareale”223

, - ed in quanto tale arbitrario, come può essere l'etica, o qualsiasi forma di giudizio che abbiano il loro fondamento oltre la pura realtà-; il nostro agire ora è giudicabile in riferimento al carattere relazionale della realtà stessa: ogni mia azione e possibilità che io decida di attuare si porrà a vantaggio o a svantaggio rispetto alla relazionalità che fonda il reale. Le nostre azioni quindi, al pari della realtà, diventano qualitativamente caratterizzate, sono qualitativamente differenti in base all'effetto che producono nei confronti della relazionalità che fonda la realtà.

222

“L'idea di Esodo e l'idea di esilio come giusto movimento; (il popolo ebraico) esiste perché, attraverso l'esilio e per l'iniziativa rappresentata dall'esodo, l'esperienza dell'estraneità si affermi tra noi in un rapporto irriducibile (…). Ma per quanto gravoso, questo esilio non è visto semplicemente come un'incomprensibile maledizione; essere ebrei significa essere votati alla dispersione (che) fa sorgere, al di là dell'esigenza del tutto, un'esigenza del tutto diversa, e finisce col distruggere la tentazione dell'Unità-Identità”. In M. Blanchot, L'intrattenimento infinito,Torino, Einaudi, 1977, p. 186, cit. in N. Galantino, art. cit., p. 282

223

“Certo, solamente la filosofia si è sforzata di costruire un altro mondo oltre a questo mondo del Qualcosa, oltre a questo mondo dell'Esso e dell'esperienza: il mondo delle idee, il mondo dei valori. Ma questo mondo si delinea curiosamente per il fatto che noi non vi abbiamo nulla a che fare, non vi abbiamo nessun rapporto, per il fatto che non è immediato, che non è reale, che non ci si rende manifesto in qualche modo. E questo significa che non ci riguarda in quanto esseri viventi che posseggono un Io. (…) Questo intero mondo, con il quale non abbiamo alcun legame immediato, non soltanto è un mondo dell'irrealtà, ma è, in verità, un mondo di fantasmi, dell'irreale in questo senso del tutto peculiare.”In M. Buber, Religione come presenza, op. cit., p. 114

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“Non si può sottrarre dalla situazione umana né il mondo delle cose, né l'altro uomo e la comunità, in quel mistero che indica all'uomo un oltre al di là delle cose e degli uomini, e anche al di là di sé stesso. L'uomo non può pervenire all'esistenza se non a condizione che la sua intera relazione con la sua situazione diventi essa stessa esistenza, il che equivale a dire, a condizione che tutti i modi della sua relazione vitale diventino essenziali”224

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Questo è quanto afferma Buber ne Il problema dell'uomo, riferendosi a Heidegger, nei confronti del quale già abbiamo esplicitato alcune differenze rispetto al filosofo. Prendo in considerazione questa critica perché serve a mettere in risalto la portata del riconoscere la realtà come dotata di qualità intrinseca. In Heidegger si evidenzia infatti l'esatto contrario: l'Essere posto come condizione di possibilità, (invece che Dio in Buber) è infatti assolutamente neutro e a-qualitativo di per sé stesso. All'interno dell'Essere si possono riconoscere possibilità autentiche e non autentiche, ma tale qualità di autenticità non è intrinseca alle possibilità stesse, ma derivabile da un confronto di queste con la storicità e temporalità dell'esserci (quindi in riferimento a parametri “sovrareali”). In altre parole le possibilità sono di per sé stesse neutre, e ciò che si può affermare rispetto ad esse è semplicemente un giudizio rispetto il loro essere aderenti o meno in riferimento alla storicità e temporalità di un dato esserci.

In questo preciso punto, Buber sembra rimproverare al filosofo proprio il suo mancare di attenzione riguardo a ciò che fino ad ora abbiamo considerato225. Per Heidegger l'esistenza è autentica quando le possibilità che in essa si sono attuate sono rimaste aderenti alla temporalità (essere per la morte) e storicità dell'esserci (gettatezza contingente). Il giudizio sull'autenticità dell'esistenza non deriva da un confronto diretto con la realtà stessa, poiché ora, l'Essere (condizione della realtà) non è dotato di una qualità intrinseca, esso è puro insieme di possibilità. Quindi le possibilità che in esso si danno sono neutre a-qualitative, ed il giudizio che si può emettere rispetto alle diverse possibilità è possibile solo in riferimento alla temporalità e storicità dell'esserci. In altre parole, in Heidegger è il tempo a costituire la dimensione attraverso cui comprendere il significato dell'Essere (del senso che di volta in volta si dà). Dalla qualità del rapporto con la nostra temporalità (essere per la morte) e con la nostra storicità si decide, per Heidegger, della veracità della nostra esistenza. Quindi sta alla nostra capacità di riconoscere le possibilità che ci appartengono in quanto fedeli alla temporalità e storicità in cui viviamo che fa di noi esseri autentici o meno.

Per questo Buber giudica il sistema del filosofo come un sistema “chiuso” e, in quanto tale, incapace di dotare l'uomo di un saldo fondamento di senso. Heidegger infatti -sostiene Buber -considera l'uomo in

224

M. Buber, Il problema dell'uomo, op. cit., p. 87

225 “M. Buber fa rilevare, e non senza ragione, come l'Essere di cui parla Heidegger, se non si riferisce alla realtà propria di ogni

esistenza e , ultimamente, all'essere di Dio, resti privo di significato. Tuttavia, nella misura in cui egli stesso riduce il concetto di essere all'oggetto proprio di un pensiero astratto, incapace di cogliere la realtà personale, finisce col ricadere in un dualismo che, da una parte, vuota il sapere filosofico di ogni contenuto ontologico e, dall'altra parte, priva la conoscenza religiosa di ogni giustificazione razionale. L'assenza del concetto analogico di essere in cui convergono, per quanto in modo diverso, l'essere finito e quello infinito, la realtà oggettiva delle cose e l'ineffabile singolarità dell'esistenza personale, determina un'insanabile frattura, che rende impossibile ogni passaggio dalle creature a Dio, dall'incontro con il Tu finito al Tu eterno”. In Virgilio Fagone, M. Buber e il fondamento religioso del dialogo, in «Civiltà cattolica», 1965, p. 53

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relazione con la sua esistenza e fa di essa una relazione “essenziale in sé stessa, (considerandola come) l'unica essenziale”. All'opposto, Buber afferma che “la concezione antropologica che vede l'uomo nella sua connessione con l'Essere deve considerare questa connessione, al contrario, come realizzabile nel suo più alto grado solo in un sistema aperto”226

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Aprire il sistema, nell'ottica di Buber, significa considerare la realtà stessa, il mondo delle cose, e delle altre creature, come parte integrante e costituente della realtà umana227. Mentre Heidegger considera la realtà come semplice serbatoio del possibile su cui l'uomo è aperto, ed analizza il modo in cui l'uomo attua queste possibilità distinguendolo in autentico o inautentico, - in riferimento a quella che è la struttura temporale e storica dell'esserci -, nel caso di Buber, porre Dio al posto dell'Essere è considerare il fondamento su cui siamo fondati non come insieme di possibilità neutrali, ma come insieme di possibilità che fanno riferimento alla struttura relazionale della realtà cui apparteniamo, riconoscendo la qualità di questa realtà come elemento che condiziona e fonda il nostro stesso essere.

Se ora le possibilità a cui siamo aperti non sono più semplicemente neutri agglomerati di possibili, - di fronte a cui noi dobbiamo essere in grado di riconoscere quelli consoni al nostro essere finito e alla nostra storicità -, ma possibili che costruiscono una realtà cui siamo destinati ad appartenere, il nostro decidere per le possibilità ora non consisterà solo nell'attenersi alle possibilità del nostro tempo, bensì anche nel negarsi alle possibilità del nostro tempo, facendo riferimento alla struttura relazionale della realtà. Significa riconoscere entro la realtà stessa il suo valore, il quale si dà come superiore ad ogni altro valore storico, morale o etico: la realtà divine il valore.

Porre Dio a fondamento significa palesare una realtà: quella dell'essere-in-legame che fonda l'Essere stesso e di conseguenza nega il nulla come fondamento, ridando uno sfondo sicuro alla progettualità umana228. Ora a fondamento non c'è più un'arbitraria costruzione di senso umana, ma il fenomeno primo della relazione. Nel puro Essere, condizione di apertura al possibile, di cui parla Heidegger, il nostro scegliere è fra l'aderire o meno alle possibilità che ci sono state trasmesse, senza essere nella condizione di discernere le varie possibilità in riferimento ad un parametro valoriale assoluto. Lì non esiste una possibilità migliore o peggiore in assoluto, poiché anche questo parametro ha il suo fondamento su un non-fondamento, quindi si rivela anch'essa come una decisione di carattere arbitrario.