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La sapienza greca all'interno del Kitāb al-Ḥikma al-Ḫālida di Abū ῾Alī Aḥmad Miskawayh

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(1)

UNIVERSITÀ DI PISA

Facoltà di Civiltà e Forme del Sapere

Corso di Laurea Specialistica in Filosofia e Forme del Sapere

TESI

DI

LAUREA

L

A SAPIENZA GRECA ALL

INTERNO DEL

K

ITĀB AL

-Ḥ

IKMA AL

-Ḫ

ĀLIDA

DI

A

῾A

A

ḤMAD

M

ISKAWAYH

Relatore

Candidata

Prof.ssa Cristina D’Ancona

Francesca Lupi

Correlatore

(2)

Indice

Introduzione 1

I. Il contesto del Kitāb al-Ḥikma al-Ḫālida 4

1. Contesto letterario 5

1.1. La letteratura degli andarz 5

1.2. La letteratura dell’adab 13

1.2.1. Il termine “adab” 14

1.2.2. Le categorie dell’adab 17

1.2.3. Le waṣāyā 21

1.2.4. Gli autori dell’adab 25

1.3. La letteratura sapienziale 32

1.3.1. Ḥikma e ῾Ilm nella cultura arabo-islamica 33 1.3.2. La nascita della letteratura sapienziale 37

1.3.3. Luqmān 38

1.3.4. I generi della letteratura sapienziale 42 1.3.5. Le fonti non arabe della letteratura sapienziale 44

1.4. Le raccolte di aḥādīṯ 47

2. Contesto storico 50

2.1. La fondazione della dinastia buwayhide: ῾Imād al-Dawla 53 2.2. L’apogeo del potere buwayhide: Rukn e ῾Aḍud al-Dawla 57

2.3. L’ideologia dell’Impero Buwayhide 62

2.4. La successione ad ῾Aḍud al-Dawla 68

3. Contesto socio-culturale 71

3.1. L’insorgenza del darī 71

3.2. La Šu῾ūbiyya 75 3.3. L’eredità di al-Kindī 83 II. Miskawayh 89 1. Le fonti 89 2. La vita 97 3. La fede 101

(3)

4. L’opera 104

4.1. L’opera filosofica 106

4.2. L’opera storica 109

III. Il Kitāb al-Ḥikma al-Ḫālida 114

1. Storia dell’opera 114

2. Struttura dell’opera 116

2.1. Il testamento di Ūšhanǧ 116

2.2. Le massime dei Persiani 119

2.3. Le massime degli Indiani 121

2.4. Le massime degli Arabi 122

2.5. Le massime dei Greci 123

2.6. Le massime dei moderni 124

IV. Ḥikam al-Rūm 126

1. Socrate 126

2. Ermete 135

3. Diogene 146

4. Tolomeo 147

5. Il testamento di Platone al suo allievo Aristotele 148 6. Il testamento di Aristotele ad Alessandro 153

7. I Versi d’oro 161

8. La Tavola di Cebete 164

9. Appendice alle massime dei Greci 166

10. Racconti tramandati da Socrate 167

11. Regole narrate [sull’autorità] del sapiente Aristotele 169

12. Ancora una selezione di sentenze 171

13. Il testamento di Platone sull’educazione dei giovani 174

14. Il messaggero di Aristotele e Alessandro 187

15. Le massime di Socrate 191

16. Epilogo 192

V. Appendice: La gnomologia greco-araba 195

1. Le fonti greche 195

(4)

Conclusione 208

Bibliografia 210

1. Letteratura primaria 210

(5)

1

Introduzione

Il Kitāb al-Ḥikma al-Ḫālida di Abū ῾Alī Aḥmad Miskawayh è, essenzialmente, una raccolta, composta a cavallo tra il X e l’XI secolo, di sentenze morali di varia origine, riunite ed organizzate dall’autore secondo il criterio della provenienza dei sapienti ai quali, di volta in volta, tali sentenze vengono attribuite. Se tale opera per noi può rivestire un interesse, esso non riguarda tanto la luce che un suo studio più approfondito può gettare sul pensiero filosofico-morale dell’autore – pensiero senz’altro meglio testimoniato dalla sua opera filosofica principale, il Tahḏīb al-aḫlāq (La riforma

dei costumi) – quanto piuttosto:

[1] Ciò che l’opera rappresenta, a vari livelli: quello letterario, quello storico, quello politico e quello culturale.

[2] Il contributo che l’analisi del testo può apportare allo studio generale della trasmissione del materiale di origine straniera all’interno del mondo arabo-islamico.

Ho dunque deciso di affrontare entrambe queste tematiche, dedicando una prima parte del lavoro al contesto storico dell’opera e limitandomi, nel secondo punto, alla traduzione e all’analisi del solo capitolo dedicato alle sentenze morali attribuite ad autori Greci.

Ritengo infatti che il Kitāb al-Ḥikma al-Ḫālida, soltanto per i criteri con cui è stato compilato – ovvero, a prescindere dall’analisi puntuale delle massime che esso contiene – possa essere considerato una testimonianza esemplare dell’epoca in cui è stato scritto, ovvero dei valori, delle ideologie, della direzione verso la quale si incamminava la Persia all’epoca dei Buwayhidi, in contrapposizione – e al contempo in comunione – con la tradizione ormai secolare del Califfato, il cui tramonto – o piuttosto, come si sono espressi H. F. Amedroz e D. S. Margoliouth, la cui eclissi – si annunciava adesso con una certa chiarezza.

È mio scopo, infatti, dimostrare che il Kitāb al-Ḥikma al-Ḫālida non fu semplicemente una collezione di materiale parenetico il cui scopo si esaurisse nell’immediata fruizione di tale o tal altro governante, o del funzionario di tale o tal altro ufficio – cosa che sicuramente esso fu – ma piuttosto che, prestando attenzione al suo filo conduttore e alla particolare congiuntura storica del suo apparire, esso si rilevi essere, più o meno consapevolmente, il manifesto di un’ideologia – politica, culturale e,

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2

in parte, religiosa – che deve essere compresa storicamente, e il cui testimone non poteva che essere un intellettuale, storico, filosofo, appartenente alla corte buwayhide, ovvero un osservatore e al contempo un attore privilegiato dei grandi mutamenti storici in atto; cercherò dunque di spiegare in che senso esso abbia un significato storico che trascende il suo contenuto; ovvero che esso sia, in altre parole, uno specchio della sua epoca.

Al contempo, quest’opera è importante anche per il suo contenuto, a causa della molteplicità del materiale che essa raccoglie; al pari di altre opere appartenenti alla letteratura araba classica – ed in particolare, all’insieme delle opere gnomologiche – infatti, essa attinge a una varietà di fonti “sapienziali” che spazia dall’India fino all’Impero Bizantino. In questo contesto, è particolarmente importante, per il mio corso di studi, il tema della ricezione della filosofia greca nel mondo arabo islamico, non solo per quanto concerne l’originale rielaborazione delle dottrine filosofiche con cui i

falāsifa vennero in contatto, ma anche per quanto riguarda la particolare concezione che

si ebbe, all’interno di questo mondo, dei singoli filosofi greci in quanto figure storiche. Per questo motivo, nella seconda parte di questo lavoro, ho deciso di dedicarmi alla traduzione e al commento del quarto capitolo dell’opera, l’Ḥikam al-Rūm, dedicato proprio alle massime attribuite ai filosofi Greci.

Esso infatti raccoglie una grande quantità di materiale che merita di essere sottoposto alla nostra attenzione: il tema della trasmissione dei testi greci nel mondo arabo islamico è di per sé di importanza eccezionale e la quantità degli studi che gli sono stati dedicati è sconfinata; ma in questo particolare lavoro mi dedicherò a un ambito particolare di questa tradizione di studi, ovvero a quello dedicata al materiale pseudoepigrafico. Ogni singolo testo contenuto nell’Ḥikam al-Rūm è infatti, come mostrerò, pseudoepigrafico. Ho cercato dunque, laddove mi è stato possibile, di individuare la provenienza di questi testi, la storia della loro trasmissione, e di indicare altresì le altre raccolte di massime composte in epoca classica che condividono le medesime fonti; ho tentato, infine, di fornire un’analisi del testo, conformemente al mio livello di competenze, alla fortuna che mi ha assistita durante la mia ricerca delle fonti e al tempo che mi è stato possibile dedicarvi.

Lo spazio per ulteriori approfondimenti, infatti, esiste, ed è potenzialmente immenso. Sarebbe stato ad esempio possibile estendere maggiormente, rispetto a quanto

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3

è stato fatto, il confronto tra i concetti morali espressi in questa raccolta e la trattazione degli stessi all’interno delle altre opere di Miskawayh e degli altri falāsifa a lui antecedenti; sarebbe stato possibile analizzare in modo maggiormente puntuale l’incidenza delle dottrine della Šī῾a all’interno del testo; particolarmente ricco di considerazioni sarebbe stato, inoltre, un approfondimento che prevedesse un confronto completo tra queste sentenze e le āyāt coraniche che esprimono il medesimo concetto o che utilizzano il medesimo linguaggio, almeno laddove ciò risultasse possibile. Il tema dell’islamizzazione della filosofia greca, alla quale non sfuggono i testi presenti in questa raccolta, è, infatti, di grande interesse. Tutti questi approfondimenti, in questo lavoro, sono stati sì fatti, ma senza alcuna pretesa di definitività.

(8)

4

I

Il contesto del Kitāb al-Ḥikma al-Ḫālida

Nel presente capitolo, cercherò di collocare il Kitāb al-Ḥikma al-Ḫālida all’interno del quadro culturale nella quale esso è sorto, sotto diversi punti di vista.

Analizzerò innanzitutto il suo contesto letterario, ovvero l’insieme delle correnti all’interno delle quali esso può essere collocato – con particolare attenzione ai due rami che considero principali, quello in lingua araba e quello in lingua pahlavi – e analizzerò altresì gli antecedenti storici di queste correnti per comprendere l’antichità delle tradizioni letterarie alle quali l’opera appartiene, in particolar modo per quanto riguarda le origini della letteratura sapienziale araba e le tradizioni legate alla figura di Luqmān, senza tralasciare alcune osservazioni sulla letteratura coranica e tradizionista.

Parlerò in seguito del contesto storico all’interno del quale Miskawayh visse e operò, cercando dunque di rendere conto della particolare situazione politica persiana durante il lento declino del Califfato ῾Abbāside e l’affermazione del potere buwayhide, nonché della specifica ideologia di questa dinastia e dei suoi protagonisti, in particolar modo di Abū al-Faḍl Ibn al-῾Amīd e di ῾Aḍud al-Dawla, dei quali Miskawayh fu un fedele servitore.

Farò poi un breve accenno al contesto linguistico della Persia del X secolo, parlando dell’arabizzazione che si impose progressivamente a partire dall’epoca della conquista islamica, ma anche delle evoluzioni della lingua persiana e della nascita del

darī, che proprio in questo periodo iniziava a imporsi come lingua letteraria.

Dedicherò poi un capitolo al fenomeno della Šu῾ūbiyya, dal momento che ritengo che, tenendo presente l’influenza che questo movimento culturale può aver esercitato anche nelle epoche successive alla sua insorgenza nell’VIII secolo, sia possibile gettare un’ulteriore luce su alcuni degli obbiettivi che possono soggiacere alla stesura dell’opera da parte di Miskawayh.

Infine, parlerò della particolare tradizione filosofica che, nell’insieme, fu direttamente o indirettamente influenzata dall’opera di al-Kindī, cercando di mostrare in che modo Miskawayh, sotto certi aspetti, possa essere considerato un erede della suddetta.

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5

Alla fine di questa analisi, mi auguro di aver reso un’idea quanto più precisa possibile di tutti quegli elementi, non direttamente dipendenti dall’autore, ma piuttosto dal contesto dal quale lui per primo fu influenzato, che giustificano quest’opera come frutto di particolari congiunture storiche e culturali.

1. Contesto letterario

Come ho sopra accennato, il primo “contesto” che adesso mi accingo ad analizzare è quello letterario. Lo scopo di questo capitolo è quello di rendere conto di quelle due differenti direttrici alla congiunzione delle quali il Kitāb al-Ḥikma al-Ḫālida si trova: da un lato parleremo infatti delle tradizioni letterarie più tipicamente arabo-islamiche alle quali quest’opera, in quanto prodotto letterario in lingua araba, appartiene; dall’altro, invece, parleremo delle tradizioni letterarie che fanno parte del retroterra culturale della Persia preislamica e alle quali quest’opera è direttamente debitrice: in altre parole analizzeremo gli elementi, allogeni da una parte, e autoctoni dall’altra, i quali, congiuntamente, hanno contribuito alla formazione di questo testo.

1.1. La letteratura degli andarz

Effettivamente, è possibile dimostrare come il Kitāb al-Ḥikma al-Ḫālida sia facilmente collocabile all’interno di una tradizione letteraria originariamente iraniana, di cui è possibile rintracciare le origini, in primo luogo, nella tarda letteratura religiosa avestica.1

In particolare, il testo del Bariš Nask, perduto in originale se non per pochi frammenti2, è considerato il precedente avestico di quel genere letterario medio-persiano che, in epoca sasanide, sarà noto come “letteratura degli andarz”.

Andarz (o pand), in lingua pahlavi, significa appunto “precetto, consiglio,

insegnamento”; è generalmente riferito a sentenze di carattere religioso o pratico-morale, brevi e concise, pronunciate da personaggi autorevoli, storici o leggendari –

1 Cfr. Sh. Shaked, “Andarz and andarz Literature in pre-Islamic Iran”, Encyclopædia Iranica, II/1, pp.

11s.

2 Le notizie che abbiamo su questo testo le traiamo del Libro VIII del Dēnkard, il quale ci fornisce di un

sommario che ci permette di ricostruire la composizione dell’Avesta anche per quelle parti che non si sono conservate; cfr. P. O. Skjærvø, “Bariš Nask”, Encyclopædia Iranica, III/8, pp. 799-800.

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6

come un alto sacerdote, un re, un consigliere di corte, un antico saggio o un eroe – ed indica comunemente un testamento (῾ahd o waṣiya) spirituale, che sia rivolto dal maestro ai suoi discepoli, dal re al proprio figlio che si prepara a succedere al trono – nel qual caso, rientrerebbe a pieno titolo in quel genere letterario che in lingua latina è detto Speculum principis, che esiste anche nella tradizione araba proprio grazie alla traduzione o, più genericamente, all’influenza delle opere in pahlavi3 – oppure ai posteri in generale. Questi precetti, infatti, prendono spesso la forma di consigli per una buona gestione del governo, oltre che quella di massime relative al comportamento quotidiano. Talvolta consistono di enigmi o paradossi, altre volte possono contenere aneddoti di carattere morale. Generalmente sono scritti in prosa, sebbene molti di essi posseggano una certa qualità poetica.4

Il genere letterario degli andarz è il più importante della letteratura medio-persiana, ovvero quello che ha avuto maggiore diffusione durante tutto il periodo in cui tale lingua fu attiva, approssimativamente dall’epoca partica fino ai primi secoli dell’epoca islamica.5

All’interno questo genere ritroviamo il tema tipico della religione mazdea della scelta del bene a discapito del male, nella misura in cui enfatizza le dicotomie del vero e del falso, del giusto e dello sbagliato, della razionalità e delle passioni.6

Shaul Shaked lo divide in tre grandi categorie: [1] la prima, quella delle sentenze di carattere pragmatico ed essenzialmente non religioso, in voga nei circoli di corte, si presume che fosse utilizzata a scopo didattico e di intrattenimento; [2] la seconda, quella delle sentenze di carattere religioso-popolare, pare avere avuto lo scopo di dare insegnamenti morali di carattere generale, semplici ma edificanti; e [3] la terza ed

3

Ad esempio, Ibn ῾Abd Rabbih (m. 940), poeta andaluso e panegirista ufficiale della dinastia marwānide, inserì uno Speculum principis pieno di materiale di origine persiana al principio della sua vasta antologia, il Kitāb al-῾Iqd al-Farīd (Libro della collana unica). Cfr. F. De La Granja, “Ibn ῾Abd Rabbih”, EI3, vol. III, pp. 698-699. Per il genere dello Speculum principis in lingua araba; vedi anche F. R. C. Bagley, “Mirrors for princes” in Al-Ġazālī, Ghāzalī’s Book of Counsuels for Kings (Naṣīḥat al-Mulūk), trad. ing. di F. R. C. Bagley, Oxford 1964, pp. ix-xvi. Oppure: L. Marlow, “Advice and advice literature”, EI3, pp. 41-55.

4

Ciò ci suggerisce che la letteratura gnomica di lingua avestica sia stata, precedentemente, scritta in versi, così come in versi si pensa che sia stato scritto il testo del Bariš Nask.

5 Bisogna comunque considerare che la letteratura medio-persiana che ci è pervenuta, in generale, non è

particolarmente ricca di materiale. Ciò vale in particolar modo per le composizioni poetiche: osserva infatti M. Boyce che la letteratura medio-persiana è rimasta in gran parte orale fino a dopo la conquista araba; cfr. Id., “Middle Persian Literature,” in Bartold Spuler, ed. Handbuch der Orientalistik, IV, 2, Iranistik, Literature, E. J. Brill, Leiden-Kӧln, 1968, pp. 31-66.

6 Cfr. F. Davaran, Continuity in Iranian Identity, Resilience of a Cultural Heritage, Routledge, Abingdon,

(11)

7

ultima, riguardante anch’essa sentenze di carattere religioso, consiste in una serie di testi destinati a un pubblico colto dotato di una certa formazione teologica7; le raccolte di sentenze di questo tipo possono talvolta contenere insegnamenti dottrinali di carattere escatologico e apocalittico.8

Per quanto riguarda il seppur esiguo numero di opere letterarie in lingua medio-persiana che sono giunte fino a noi, il merito della loro conservazione è da attribuirsi alla sempre più scarna classe di copisti sacerdotali che operarono in Persia nel periodo immediatamente successivo alla conquista islamica, in quella fase storica nella quale la religione mazdea era ancora maggioritaria nei territori dell’antico Impero Sasanide ma si iniziava a diffondere lentamente la religione islamica; fu infatti a causa della necessità di costruire un’apologetica adeguata a difendere la religione zoroastriana dalle argomentazioni dei teologi musulmani dell’epoca9

che vennero copiati molti testi dell’epoca sasanide, e tra essi un certo numero di raccolte di sentenze di carattere teologico.10

Particolarmente importanti, tra queste, sono le raccolte contenute nel

Dēnkard, come nel III o nel VI Libro11, soprattutto in quest’ultimo, che è noto appunto

come il “Libro delle sentenze” (Andarz-nāmag).12

7 Questi ultimi testi, di tipo “teologico”, si distinguono da quelli di carattere religioso-popolare

essenzialmente per il grado di competenza necessaria a comprenderli; non si tratta, in altre parole, di una distinzione basata sulla classe sociale dei destinatari: gli stessi re o ministri potrebbero essere, infatti, i destinatari degli andarz di carattere religioso-popolare, nonostante il fatto che essi posseggano una formazione teologica; cfr. Sh. Shaked, “Paymān: An Iranian Idea”, in Transition Periods in Iranian

History, vol. 5 of Societas Iranologica Europaea, Fribourg-en-Brisgau, 1987, pp. 217-240.

8

O. Klima, “The ‘andarz’ books. Moralising, Apocalyptic, and Eschatological Literature” in J. Rypka,

History of Iranian Literature, ed. Karl John, D. Reidel, Dordecht, 1968, pp. 37-39.

9 Cfr. M. Boyce, “Middle Persian Literature”, p. 47.

10 Per una panoramica completa su tali testi, cfr. Sh. Shaked, “Andarz and andarz Literature in pre-Islamic

Iran”, pp. 11s.

11

Questo è un Libro particolarmente ricco di materiale di origine sasanide, o addirittura più antico. La totalità degli andarz anonimi della prima sezione si apre con la formula “Essi ci hanno tramandato questo”, ciò che suggerisce che questi andarz si siano conservati per via orale. Il seguente è un particolare estremamente significativo per noi: è stato notato che estratti di questo Libro, utilizzati nella compilazione di altre raccolte successive, sono giunti fino a noi, sia in lingua araba, sia in lingua neo-persiana. Il caso più esemplificativo, secondo Ph. Gignoux, è proprio il Kitāb al-Ḥikma al-Ḫālida di Miskawayh, e la sua versione posteriore, in neo-persiano, il Ğawīdān Ḵirad; cfr. Id., “Dēnkard”, Encyclopædia Iranica, VII/3, pp. 284-289.

12

Mi limito a segnalare che ci sono stati anche altri tentativi di suddivisione della letteratura degli andarz in base al loro contenuto, i quali possono differire da quello preso qui in considerazione; ad esempio, M. Boyce suddivide gli andarz in tre categorie, quelli di “osservazione”, quelli di “prudenza o raccomandazione” e quelli “morali”, cfr. Id., “Middle Persian Literature”; ma, come osserva F. Davaran, qualsiasi suddivisione si tenti di enunciare resta problematica, in special modo laddove si voglia far uso della distinzione tra religioso e secolare, a causa del fatto che un certo spirito religioso può talvolta permeare anche gli andarz che cercano di dare insegnamenti in merito alla condotta quotidiana; cfr. Id.,

(12)

8

Si ritiene che il compilatore del Dēnkard, Ādurfarnbag-ī Farroxzādān, sia stato un contemporaneo del califfo al-Ma᾿mūn (r. 813-833), e che la redazione finale di questo libro sia da collocarsi nel X secolo. Per la maggior parte, tuttavia, esso deve essere stato compilato nel IX secolo; non si tratta però un’opera unitaria, ma di una compilazione di materiali differenti, la cui origine è da proiettarsi indietro nel tempo fino all’epoca pre-islamica.

Parlando in particolare il Libro III del Dēnkard, si può asserire che, per quanto paia aver preservato materiale di origine sasanide (tratto dai pōryōtkēšān, gli “antichi saggi”, come è detto nell’ultimo capitolo di questo Libro), esso è anche e soprattutto un libro di polemica contro le “cattive religioni”, i nomi dei cui praticanti sono esplicitamente menzionati qualora si abbia a che fare con manichei o con ebrei, ma sono lasciati sottintesi nel caso degli appartenenti alla fede islamica, per motivi, si presume, di carattere precauzionale.13

Gli andarz di carattere teologico sono anche i più adeguati, per loro natura, ad ospitare riflessioni di tipo filosofico14

, ed è stato in effetti sottolineato come esista un’affinità tra la riflessione morale iraniana sui vizi e sulle virtù e gli schemi che emergono dall’Etica Nicomachea, affinità che può essere ben riscontrata all’interno di queste raccolte. Il concetto di paymān, la “giusta misura” tra i due estremi dell’eccesso e del difetto, centrale nella letteratura degli andarz, trova la sua perfetta corrispondenza, nel mondo greco, nella riflessione aristotelica sul giusto mezzo.15

13 Cfr. Ph. Gignoux, “Dēnkard”, pp. 284-289. 14

Con il termine “filosofia”, in questo contesto, intendo riferirmi semplicemente al contributo del pensiero razionale, così come si è sviluppato in ambito greco, ad una trattazione che resta, in ultima istanza, di carattere religioso o, più specificatamente, a quei contenuti della letteratura medio-persiana che paiono essere stati strettamente influenzati dalle opere filosofiche greche. La “filosofia”, in un contesto sasanide, non va, ovviamente, intesa come una branca separata del sapere, con obbiettivi di stampo secolare: la sapienza e la razionalità sono, all’interno della religione zoroastriana, due virtù di estrema importanza; alcuni interpreti ritengono che “Ahura Mazdā”, il nome avestico della principale divinità della religione zoroastriana, significhi letteralmente “Signore Sapiente” (o come entrambi sostantivi, “Signore Sapienza”), cfr. M. Boyce, “Ahura Mazdā”, Encyclopædia Iranica, I/7, pp. 684-687; inoltre, come vedremo più avanti, la religione zoroastriana, soprattutto sotto gli imperatori sasanidi, aveva la tendenza a considerare anche opere di carattere logico e scientifico come parte integrante del credo zoroastriano. La filosofia dell’Iran pre-islamico è, quindi, assimilabile a quella greca sicuramente per il contenuto e per il metodo; se ne distanzia, però, per lo scopo.

15 Per un’analisi più esaustiva della problematica, fatta sulla scorta di alcuni passi tratti dai Libri III, IV e

VI del Dēnkard, cfr. Sh. Shaked, “Paymān: An Iranian Idea”, pp. 217-240. Shaked segnala che il primo a mettere in luce tale parallelismo fu Jean de Menasce, p. 218.

(13)

9

All’interno del Dēnkard, però, tale concetto non è presentato come di derivazione greca, ma piuttosto in termini puramente zoroastriani16, ed in effetti esso ha radici antiche nella tradizione iraniana, come sottolinea Shaked.17 Tuttavia, secondo lo studioso, questo non smentisce affatto un’influenza diretta sulla riflessione etica persiana da parte della filosofia aristotelica, della quale il mondo persiano, secondo Shaked, era ben consapevole, e dalla quale ha tratto indubitabilmente beneficio18, nonostante non ci siano evidenze incontrovertibili della traduzione delle Etiche durante il periodo sasanide.19

Del resto, dal punto di vista zoroastriano, per lo meno a partire all’epoca di Ḫosraw I Anūširwān (r. 531-78), qualsiasi influenza della filosofia greca sul pensiero iraniano, anche quella non riguardante l’ambito morale, sarebbe in realtà zoroastriana essa stessa. Esiste, infatti, all’interno del Libro IV del Dēnkard20

, un racconto derivante da una tradizione storica riportata anche nel Ḫudāy-nāmā (Libro dei signori)21

, nel quale si narra come l’antica sapienza dell’Avesta e dello Zand sia stata, in tempi più remoti, «dispers[a] per tutto il regno dell’Iran a causa della rovina e della distruzione portata da Alessandro [Magno], e dal saccheggio e dalle rapine dei macedoni», e come in seguito, ovvero al tempo degli imperatori sasanidi, sia stata ritrovata, nella forma di «scritti non religiosi sulla medicina, sull’astronomia, sul movimento, sul tempo, sullo spazio, sulla sostanza, sull’accidente, sul divenire, sulla corruzione, sull’alterazione, sulla logica e su altre arti e abilità che erano stati dispersi per tutta l’India, per l’impero bizantino e per altri territori22», e rimessa “al suo posto”, ovvero nel tesoro reale.23

16 Dēnkard, III 297; per una traduzione inglese del passo di cui stiamo parlando, Ibidem. 17 Cfr. Sh. Shaked, “Andarz and andarz Literature in pre-Islamic Iran”.

18 Ibid. 19

Cfr. M. Boyce, “Middle Persian Literature,”, pp. 36-37.

20 Collegati a questa tematica, esistono altri passi nel Dēnkard oltre a quello citato; ad esempio, nel III

Libro (3.420) si parla della traduzione in greco dei libro persiani da parte di Alessandro; K. Van Bladel, “The Arabic History of Science of Abū Sahl Ibn Nawbaḫt” in Islamic Philosophy, Science, Culture, and

Religion. Studies in Honor of Dimitri Gutas, ed. F. Opwis e D. Reisman, Brill, Leiden, 2012, pp. 41-62.

21 L’Ḫudāy-nāmā è un’opera storica di carattere composito del periodo tardo-sasanide, perduta

nell’originale pahlavi, ma sopravvissuta in testi in arabo e in neo-persiano che dipendono da essa in modo più o meno diretto; fra questi, è da annoverarsi anche lo Šah-nāma (Libro dei Re) di Firdawsī; cfr. Ibid., pp. 57-60. Vedi anche A. Sh. Shahbazi, “Historiograpy ii. Pre-Islamic Period”, Encyclopædia Iranica, XII/3, pp. 325-330.

22 Per la traduzione italiana di questo passo, D. Gutas, Pensiero greco e cultura araba, a cura di C.

D’Ancona, trad. it. di C. Martini, Einaudi, Torino 2002, pp. 44-45. Per un confronto del racconto in

pahlavi contenuto nel Dēnkard con altre due versioni esistenti in arabo, cfr. Ibid., pp. 43-48.

23 Il tesoro reale è il luogo in cui, secondo altre versioni del racconto, essi si trovavano originariamente,

prima che Alessandro se ne impossessasse, li facesse tradurre in greco e, in seguito, decidesse di darli alle fiamme. Una fonte di questa seconda versione è l’introduzione alla versione araba de Il Libro delle

(14)

10

Che traduzioni dal greco al pahlavi di testi scientifici, specialmente astrologici, ma anche filosofici, siano state commissionate al tempo degli imperatori sasanidi, (quando al tempo di Ḫosraw I, quando a quello di Šapūr I), è attestato in modo chiaro da due fonti, entrambe indipendenti dal Dēnkard24: una fonte bizantina, Agazia25, e una araba, il Fihrist (Catalogo) di Ibn al-Nadīm.26

Non è nelle possibilità di questo lavoro analizzare la questione dell’influenza della filosofia greca sul pensiero iraniano di epoca sasanide nel suo complesso, né tantomeno quella, piuttosto controversa, degli eventuali contributi della letteratura

pahlavi alla trasmissione della filosofia greca nel mondo arabo-islamico27

, in primo luogo per le difficoltà oggettive che il lavoro di identificazione dell’originale di un testo arabo tradotto dal pahlavi comportano, essendo la letteratura in questa lingua in buona parte andata perduta; in secondo luogo perché, a prescindere dal fatto che una certa opera filosofica sia stata effettivamente tradotta in pahlavi direttamente dal greco – e non piuttosto attraverso il tramite del siriaco28

–, dalla misura dell’incidenza di questo fenomeno; e a prescindere anche da quanto tali traduzioni siano state poi, in epoca successiva, tradotte in arabo29

, si può comunque affermare con relativa tranquillità – ed

natività (Kitāb al-mawālīd) attribuito a Zoroastro; per la traduzione italiana, D. Gutas, Pensiero greco e cultura araba, p. 46. Un’altra versione è quella del Kitāb al-Nahmuṭān fī l-mawālīd (Libro di Nahmuṭān nelle natività), vedi infra, p. 10 n. 26. In questa fonte, la locazione del deposito nel quale i libri del tesoro

reale erano conservati è identificata con la città di Iṣṭaḫr, che si trova vicino alle rovine di Persepoli; vedi anche M. Boyce, “Eṣṭaḵr”, Encyclopædia Iranica, VIII, pp. 643-646. Il racconto della dispersione del sapere zoroastriano ad opera di Alessandro ebbe una grandissima fortuna nel mondo arabo, tanto che lo ritroviamo, secoli più tardi, nella Muqaddima di Ibn Ḫaldūn, cfr. Ibid., p. 52.

24

Cfr. K. Van Bladel, “The Arabic History of Science of Abū Sahl ibn Nawbaḫt”, p. 62.

25 Cfr. Agathias Scholasticus, Hist. II, 28, Corpus Scriptorum Historiae Byzantinae, B. G. Niebuhr, 1828,

pp. 126-127. In questa fonte si fa esplicita menzione di traduzioni di opere aristoteliche e platoniche, e il committente al quale si fa riferimento è, com’è noto, Ḫosraw I.

26 Ibn al-Nadīm, Kitāb al-Fihrist, ed. Flügel, Leipzing, 1871-72, pp. 238-239. Si tratta di un passo di

un’opera astrologica di un contemporaneo di Ādurfarnbag-ī Farroxzādān, Abū Sahl al-Faḍl ibn Nawbaḫt; il titolo attribuitole da Ibn al-Nadīm è Kitāb al-Nahmuṭān fī l-mawālīd, e la sua citazione è l’unica che ci sia pervenuta. In questa fonte si parla principalmente della traduzione di opere astrologiche greche; il committente, stavolta, è Šapūr I. Per una del passo, C. A. Nallino, “Tracce di opere greche giunte agli Arabi per trafila pehlevica”, in T. W. Arnold e R. A. Nicholson, A Volume of Oriental Studies Presented

to E. G. Browne, Cambridge, 1922, pp. 345-363; per una traduzione inglese, K. Van Bladel, “The Arabic

History of Science of Abū Sahl ibn Nawbaḫt”, pp. 44-47.

27

Su questo tema, Ibid., pp. 345-363.

28

M. Boyce, “Middle Persian Literature”, p. 36.

29 Riporto qui un estratto da un’opera dello storico al-Mas῾ūdī (m. 956), il Kitāb murūğ al-ḏahab (Libro

dei prati d’oro). Nel luogo in cui sono citate le parole di un cronista delle tradizioni in risposta a una

domanda del califfo al-Qāhir in merito ai suoi predecessori, si legge: «Furono anche tradotti per lui [al-Manṣūr, n.d.a.] dei libri di Aristotele sulla logica e su altri temi, l’Almagesto di Tolomeo, l’Aritmetica [di Nicomaco di Gerasa], il trattato di Euclide [sulla geometria] e da altri libri antichi, dal greco classico, dal greco bizantino, dal pahlavi, dal neo-persiano e dal siriaco». Traggo questa traduzione italiana da D. Gutas, Pensiero greco e cultura araba, pp. 38-39.

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è questo che ci interessa – che la filosofia greca in generale, e quella aristotelica in particolare, fosse conosciuta in epoca sasanide; che esistano dei validi argomenti, se non per affermare, quantomeno per non escludere la diffusione dell’Etica Nicomachea, e che tali argomenti siano da ricercarsi, nello specifico, nell’analisi della letteratura degli

andarz che ci è pervenuta, in originale o in traduzione.

Se queste conclusioni sono corrette, risulta evidente come le raccolte di sentenze con contenuto filosofico morale – a prescindere da come tali contenuti filosofici si siano diffusi in Iran prima della caduta dell’Impero Sasanide30

– non siano una novità dell’epoca ῾abbāside, ovvero quella della diffusione della filosofia greca all’interno del mondo arabo-islamico grazie all’imponente movimento di traduzione affermatosi sotto al-Manṣūr31

, contesto culturale del quale Miskawayh è figlio in quanto autore di testi in lingua araba, ma abbia radici antiche; radici delle quali Miskawayh è figlio in quanto

30

Il grado di dipendenza del materiale in pahlavi dalle fonti greche, eccezion fatta per alcune discipline come l’astrologia e l’agricoltura, è ancora un problema aperto per gli studiosi, cfr. Ibid., pp. 32-33. Tuttavia si potrebbero citare i due ben noti episodi di dediche di opere filosofiche a Ḫosraw I Anūširwān, il primo da parte di Paolo il Persiano, dal titolo Trattato sull’opera logica di Aristotele, il Filosofo; il secondo da parte di Prisciano Lido, dal titolo Soluzioni dei problemi sollevati da Cosroe; cfr. C. D’Ancona, “La filosofia della tarda antichità e la formazione della «falsafa»” in Storia della filosofia

nell’Islam medievale, Torino, 2005, p. 45. Per l’episodio di Prisciano Lido, cfr. Agathias Scholasticus,

Hist. II, 30-31. Per uno studio accurato su quest’ultimo testo in particolare, cfr. G. Chemi, “Il Monobiblon di Proclo sull’immortalità dell’anima”, in Studia Graeco-Arabica 4 (2014), pp. 124-143.

31 Osserviamo qui incidentalmente che D. Gutas offre una lettura interessante riguardo al movimento di

traduzione dell’epoca ῾abbāside. Secondo la sua lettura, esso non sarebbe altro che l’eredità di quella cultura della traduzione, incentivata in particolar modo sotto il regno di Ḫosraw I, che fu motivata dall’ideologia imperiale zoroastriana che intendeva concepire tutto il sapere come proveniente dall’Avesta. Egli pone l’attenzione, in particolar modo, sulla forte influenza, tra i gruppi socio-politici la cui azione favorì l’affermazione della dinastia ῾abbāside sul trono califfale nel 750, dell’elemento iraniano e zoroastriano. Comprensibilmente, essendo il contributo della fazione «persiana» del Ḫurāsān quello che più di tutti si era rivelato determinante nel rendere possibile il cambio di regime, ed essendo, anche in seguito, le spinte di natura nazionalistica del Ḫurāsān giudicate potenzialmente destabilizzanti per la stabilità del potere (si vedano le rivolte anti-῾abbāsidi capeggiate da Abū-Muslim al Ḫurāsānī, Sunbād, Barāz, Isḥāq il Turco, Ustāḏsīs, ecc.), appare chiaro come tale fazione fosse anche quella verso la quale i primi califfi ῾abbāsidi ebbero la necessità di dimostrarsi maggiormente compiacenti. Tale fazione comprendeva, sì, persiani convertiti all’Islam, ebrei, cristiani di lingua aramaica, e arabi persianizzati a seguito delle prime migrazioni di tribù arabe in Persia al tempo delle prime conquiste; ma al tempo del califfo al-Manṣūr l’elemento zoroastriano era ancora quello predominante nel Ḫurāsān. Questo fatto sarebbe alla base di molte traduzioni dal pahlavi fatte in questa epoca, in particolar modo quelli dedicati all’astrologia politica e alla storia astrologica. Un discorso a parte è necessario fare invece per le traduzioni motivate da interessi amministrativi o culturali; cfr. D. Gutas, Pensiero greco e cultura araba, pp. 32s. A mio avviso, secondo questa categorizzazione il Kitāb al-Ḥikma al-Ḫālida dovrebbe essere considerato un esempio, in epoca successiva, dell’influenza dei testi del primo gruppo, a causa dei numerosi insegnamenti per la conduzione del governo espressi da imperatori e consiglieri di corte sasanidi e considerati, come il titolo dell’opera suggerisce, senza tempo, ovvero validi anche nel contesto del X secolo, per i califfi ῾abbāsidi o, più verosimilmente, per i principi buwayhidi. Da ciò si comprende anche il motivo per il quale i primi califfi ῾abbāsidi si sarebbero impegnati nel cercare una legittimazione del loro potere anche rappresentandosi come i legittimi eredi della grandezza degli imperatori sasanidi. Usando le parole di R. N. Frye, «il mantello di Kisra cadde sui successori del Profeta, prima a Damasco e poi a Bagdad»; cfr. Id., The Golden Age of Persia. The Arabs in the East, Phoenix, London 2003, p. 20.

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iraniano; del tutto indipendenti, com’è ovvio, dal contributo arabo alla diffusione della filosofia in Persia, nonché dal genere letterario che in questa epoca si affermerà, quello dell’adab.

Senza dubbio, infatti, il genere del Kitāb al-Ḥikma al-Ḫālida corrisponde, nella forma e, in buona parte, anche nel contenuto, alla tradizione letteraria or ora esaminata.

Non è importante, in questo contesto, stabilire se esistano originali di epoca sasanide delle sentenze riportate nel il Kitāb al-Ḥikma al-Ḫālida, e se Miskawayh si sia servito direttamente di questi ultimi e non, piuttosto, di traduzione arabe, o addirittura di originali arabi falsamente attribuiti ad un’epoca precedente32

. Quello che a noi ora interessa è la continuità dello stile generale dell’opera con la tradizione letteraria degli

andarz, che è un fatto innegabile.

È evidente dal Fihrist e da altre opere bibliografiche, nonché dai riferimenti rinvenibili in numerosi altri testi, che sia esistito, in lingua araba, un numero di raccolte di consigli molto superiore a quello che ci è pervenuto; e che tra di queste, molte siano raccolte tradotte da originali in pahlavi.

Tra le raccolte in pahlavi, la più antica che ci sia pervenuta è nota col titolo di

Ẓafar-nama (Libro della vittoria), ed è contenuta all’interno del Ta᾿rīḫ-i guzīda (Estratti di storia) di Ḥamdallāh Qazvīnī, storico e geografo persiano vissuto a cavallo tra il XIII

e il XIV secolo33; l’analisi dell’opera, infatti, ha portato gli studiosi a ritenere che essa

32 ῾A. Badawī sottolinea come la maggior parte degli originali in pahlavi a nostra disposizione

appartengano, in realtà, all’epoca islamica, e quanto poco e di poco rilevante ci sia rimasto dell’epoca sasanide; per il testamento spirituale attribuito ad Ūšhanğ, il Ğāwīdān Ḫirad, che costituisce il nucleo fondamentale del il Kitāb al-Ḥikma al-Ḫālida (vedi infra, cap. III, 2.1., “Il testamento di Ūšhanğ”, p. 116s), la questione dell’originale è particolarmente importante. Dunque Badawī pone la domanda: per i testi contenuti nel capitolo sulle massime dei Persiani, Miskawayh si è avvalso di originali in pahlavi, oppure di traduzioni tarde di originali in arabo falsamente attribuiti all’epoca sasanide? (Leggo questo nella traduzione francese di M. Arkoun, L’Humanisme Arabe au IVe-Xe Siècle. Miskawayh philosophe et historien, Vrin, Paris, 1982, p. 147; l’originale in arabo è nell’introduzione al testo edito, Id. “Fihris

al-Kitāb”, pag. 32 in Abū ῾Alī Aḥmad ibn Muḥammad Miskawayh, Al-Ḥikma al-Ḫālida, ed. ῾A. Badawī, Maktabat al-naḥda al-miṣriyya, Il Cairo 1952). W. B. Henning sostiene che Miskawayh si sia servito di una traduzione araba per quanto riguarda il testamento di Ūšhanğ, cfr. Id. “Eine arabische Version Mittelpersischer Weisheitsschriften”, Zeitschrift des Deutschen Morgenländischen Geselschaft, 106 (1956), pp. 73-77. In ogni caso, sulla questione delle versioni originali del testi presenti nel capitolo sui Persiani, bisognerebbe aprire una discussione a parte su ogni singolo gruppo di sentenze, o su ogni testamento spirituale; poiché, se si giunge a delle conclusioni sull’originale utilizzato da Miskawayh per il testamento spirituale di Ūšhanğ, questo ancora non ci permette di trarre conclusioni sull’intero il capitolo; specie se è vero quanto affermato da Ph. Gignoux, secondo il quale sarebbe possibile rintracciare estratti del Libro VI del Dēnkard all’interno di questa opera, cfr. Id., “Dēnkard”, pp. 284-289. Tuttavia, non è nelle possibilità di questo lavoro attuare un confronto fra il capitolo sui Persiani del il Kitāb Ḥikma

al-Ḫālida e il Libro VI del Dēnkard alla ricerca dei suddetti estratti.

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preservi materiale molto antico. In essa, il saggio Buzurǧmihr offre dei consigli a Anūširwān che lo interroga su questioni disparate; in totale, il testo contiene 43 massime che non hanno alcun legame tra loro, eccetto che per un paio di eccezioni (ad esempio nel caso delle due domande «Qual è la vita migliore?» e «Qual è la morte peggiore?»).34 Come vedremo più avanti, quella del saggio Buzurǧmihr e del giusto Anūširwān è una tradizione che avrà grande fortuna nel mondo arabo, e che venne ripresa anche da Miskawayh nel primo capitolo della sua opera, l’Ḥikam al-Furs.35

1.2. La letteratura dell’adab

Nel capitolo precedente abbiamo accennato alla letteratura dell’adab. Questo genere letterario è proprio della lingua araba e si è sviluppato nell’epoca islamica, in particolar modo durante il Califfato ῾Abbāside.

È in questo periodo storico, infatti, che assistiamo al progressivo affermarsi della prosa come forma letteraria di maggior prestigio. A causa dei mutamenti politici e sociali che ebbero luogo nei secoli successivi alla “Rivoluzione ῾Abbāside”, nel mondo arabofono si determinò un ampliarsi delle esigenze culturali e artistiche alle quali la poesia, che fino a quel momento era stato il genere letterario dominante, non era più in grado di sopperire da sola.

Tra le numerose produzioni letterarie in prosa di questo periodo, assieme a quelle opere specialistiche che fecero uso di una prosa “tecnica” – al fine di trattare argomenti relativi alle scienze religiose, giuridiche, filosofiche, linguistiche, ecc. – vi furono anche opere di “divulgazione” scritte in una prosa elegante e ricercata, destinate a un pubblico colto di non specialisti, specialmente alla nuova classe di funzionari del Califfato ῾Abbāside. Ciò che accomuna queste opere è il loro carattere educativo: esse avevano lo scopo di fornire uno standard di comportamento che fosse adeguato a qualsiasi circostanza della vita sociale, di educare alle buone maniere e alla raffinatezza cittadina. In altre parole, esse cercavano di rispondere alla necessità di disporre di nuove regole di condotta, adeguate al nuovo stile di vita determinato dai cambiamenti sociali

34 L. Marlow, “Advice and advice literature”, pp. 37-38. 35 Vedi infra, cap. III, 2.2., “Le massime dei Persiani”, p. 119s.

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di questa epoca.36 Proprio da questo tipo di opere è costituita la cosiddetta letteratura dell’adab.

1.2.1. Il termine “adab”

La quasi totalità degli arabisti ha ormai accolto la tesi di Vollers37 del 1906, secondo la quale il termine adab sarebbe un’evoluzione di ādāb, plurale di da᾿b, presente nel Corano38 e nella letteratura pre-islamica con il significato di “usanza, continuazione di un’abitudine”, ovvero con un significato molto simile a quello di

sunna.39

Carlo Alfonso Nallino, che in un ciclo di lezioni di letteratura araba tenute all’Università del Cairo negli anni 1910-191140

ha cercato di tracciare una storia del termine adab, ha ripreso la tesi di Vollers: «Non vi è dubbio che per adab gli antichi intendevano la sunnah, ossia il modo abituale di agire degli antenati, divenuto norma per i discendenti; in altre parole adab era l’insieme delle antiche abitudini che, secondo l’opinione degli Arabi della giāhiliyyah, l’uomo aveva il dovere di seguire. Come è noto, essi facevano consistere la morale (῾ilm al-akhlāq) nell’osservanza delle abitudini di vita degli antenati e di questo si vantavano […] Poiché per gli Arabi la base dell’educazione e della formazione della mente era l’apprendere la sunnah degli antenati, essi applicarono la parola adab al risultato della buona educazione e ta᾿dīb alla formazione del carattere. Poi, dato che le cognizioni degli antichi Arabi erano molto limitate (il massimo che delle loro cognizioni consisteva infatti nel conoscere la sunnah e le imprese gloriose degli antenati) la parola adab passò anche a significare la conoscenza di una cosa, ta᾿dīb significò l’informare la cosa e quindi l’istruire, e adīb

36

Cfr. D. Amaldi, Storia della Letteratura Araba Classica, Bologna, 2004, p. 97.

37 K. Vollers, Katalog der islamischen, christlich-orientalischen, jüdischen und samaritanischen

Handschriften der Universitäts-Bibliothek, Leipzig, 1906, p. 180, n.1. Il riferimento bibliografico è tratto

da C. A. Nallino, “La letteratura araba dagli inizi all’epoca della dinastia Umayyade”, in C. A. Nallino, Raccolta di scritti editi ed inediti, vol. 6, ed. M. Nallino, Pubblicazioni dell’Istituto per l’Oriente, Roma, 1948, p. 6.

38 Il termine da᾿b, dalla radice d-᾿-b, compare nel Corano quattro volte: Cor. III, 11; VIII, 52, 54; XV, 31. 39 Esso è presente anche in un ḥadīṯ, che recita: «fa-inna-hu da᾿bu l-sālihīn qabla-kum [questo era il

modo di comportarsi degli uomini virtuosi prima di voi]», cfr. al-Tirmiḏī, Ğami῾ al-Kabīr, vol. 5, ed. Dār al-Ġarb al-Islāmiyy, 1996, pp. 515-516, ḥadīṯ 3549. Vedi anche Ch. Pellat, “Variations sur le thème de l’adab”, in Correspondance d’Orient, Etudes 5-6, 1964, pp. 19-37.

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colui che è informato di una cosa, l’istruito».41 In tal modo, «le due parole adab e adb (invito al pasto), divennero come due rami di un’unica radice malgrado non ci fosse fra esse un vero rapporto»42, a dispetto delle lessicografie arabe antiche che cercarono di spiegare il primo termine tramite il secondo.

In una versione non troppo distante da quella di Nallino, proposta tra gli altri da Charles Pellat43, si sottolinea come il termine da᾿b in tempo ancor più remoto esprimesse il concetto di “cammino, via, percorso”, in un senso molto concreto del termine; e come esattamente lo stesso valesse per sunna, che in un primo tempo avrebbe coperto il medesimo spettro di significati. Anche in tal caso, dunque, i due termini sarebbero stati in origine sinonimi. Il termine adab, invece, che nel Corano non è presente ma compare in alcuni aḥādīṯ, sarebbe sorto in seguito con la funzione di ricoprire una nozione più astratta.

In ogni caso, solo in seguito l’uso del termine sunna sarebbe venuto a restringersi all’ambito specificatamente religioso; da᾿b, invece, avrebbe mantenuto il suo senso figurato di “maniera, condizione”, mentre l’uso del termine adab avrebbe finito con l’esprimere un concetto molto simile a quello di sunna, ma in ambito secolare: esattamente, la serie di regole di condotta ereditate dagli antenati sopra menzionata, nettamente distinte dagli insegnamenti di carattere pratico-morale tratti dal Corano e dalla Tradizione.44 Tali norme comportamentali tipiche della società tribale, infatti, erano già state codificate in epoca pre-Islamica, interno degli antichi proverbi (maṯal, pl. amṯāl), aforismi, (ḥikma, pl. ḥikam), nelle storie dei conflitti intertribali, i cosiddetti “giorni degli arabi” (ayyām al-῾Arab), oppure in poesia (ši῾r).

Le lessicografie elencano una quantità considerevole di significati per il termine

adab. Nell’Arabic-English Lexicon di E. W. Lane – che ancora oggi rappresenta la

nostra più autorevole fonte di informazioni sull’uso dei termini nella letteratura araba medievale – sono elencate le seguenti traduzioni: «good discipline of the mind and manners; good education; good breeding; good manners; politeness; polite

41

Ibid., p. 4. Essendo il testo già tradotto in italiano, ho lasciato invariata anche la traslitterazione.

42 Ibid., p. 6.

43 Cfr. Ch. Pellat, “Adab in Arabic Literature,” Encyclopædia Iranica, I/4, pp. 439-444.

44 Ch. Pellat, “Adab in Arabic Literature,” Encyclopædia Iranica, I/4, pp. 439-444. Nallino fa infatti

notare che nelle opere del II secolo dopo l’Egira giunte fino a noi il termine adab ebbe anche il significato di «cognizioni, escluse quelle che hanno un rapporto con la sharī῾ah alle quali dalla metà del primo secolo egira è applicato il termine ῾ilm», Id., “La letteratura araba dagli inizi all’epoca della dinastia Umayyade”, p. 6.

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accomplishments»; e ancora: «excellence, or elegance, of mind, manners, address, and speech»; «good manner of taking or receiving»; «good qualities and attributes of the mind or soul, and the doing of generous or honourable actions»; «the practice of what is praiseworthy both in words and actions»; «the holding, or keeping, to those things which are approved, or deeined good»; «the honouring of those who are above one, and being gentle, courteous, or civil, to those who are below one»; «a faculty which preserves him in whom it exists from what would disgrace him».45

Dal punto di vista etimologico, nelle lessicografie medievali il termine viene perlopiù fatto derivare da du῾ā᾿, che significa “invito”, e dal verbo adaba, “invitare”, in particolar modo, “a un banchetto”; oppure si fa riferimento a un altro significato della radice ῾-d-b, ovvero quello di “cosa meravigliosa”; mentre la sua originaria sinonimia con il termine sunna non è da esse avallata.46

Oltre a ciò, qui troviamo anche la contrapposizione tra irab, irāba, arīb e adab, adīb, laddove irab significa “intelligente, fine, abile in un mestiere”; mentre adīb significa “colui che possiede le qualità dell’adab”.

L’intuizione di Nallino è stata accetta da quasi tutti gli arabisti, ha fornito la base di tutte le ricerche successive, e nella sostanza è considerata valida tutt’oggi; tuttavia, è proprio nella mancanza di attestazioni nelle lessicografie medievali, nonché nel fatto che gli esempi riportati da Nallino tratti dalla poesia possano avere più di una traduzione possibile, che consiste la debolezza della sua argomentazione. Su questa base Bonebakker ha messo in dubbio l’ipotesi di Nallino secondo la quale adab sia un sinonimo di sunna e debba riferirsi inequivocabilmente ai “costumi degli antenati”.47

45 Vengono riferite anche le traduzioni di adab al-darsi: «the discipline to be observed in the prosecution

of study, by the disciple with respect to the preceptor, and by the preceptor with respect to the disciple»; e l’uso frequente con il quale viene impiegato il plurale ādāb: «the rules of discipline to be observed in the exercise of a function, such as that of a judge, and of a governor; and in the exercise of an art, such as that of disputer, and the orator, and the poet, and the scribe»; E. W. Lane, Arabic-English Lexicon, Edimburgo, 1863, vol. I, p. 35.

46 Le fonti arabe che C. A. Nallino cita nel suo lavoro sono principalmente le seguenti: Ibn Manẓūr (m.

1311-1312), Lisān al-‘Arab (La lingua degli arabi); e al-Zabīdī, Tāğ al-῾Arūs (La corona nuziale); ovvero i due maggiori dizionari dell’epoca classica.

47

S. A. Bonebakker, “Adab and the concept of belles-lettres” in The Cambridge History of Arabic Literature, ‘Abbasid belles-lettres, Cambridge University Press, London, 1990, p. 17; vedi anche Id., “Early Arabic Literature and the Term adab”, Jerusalem Studies in Arabic and Islam, 5, 1984, pp. 389-419. Un altro punto di disaccordo tra Bonebakker e i suoi predecessori è rappresentato dall’adeguatezza dell’uso moderno del termine adab in rapporto all’uso originario: mentre arabisti come Nallino e Pellat ritengono che la traduzione moderna di adab con letteratura o belles lettres non abbia alcun antecedente nei testi degli antichi, Bonebakker sostiene al contrario che non è impossibile trovare, già a partire dal IX secolo, casi nei quali il contesto giustificherebbe una simile traduzione; cfr. Ibid., pp. 396-404.

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In effetti, nel proporre questa interpretazione, Nallino fu in effetti mosso dalla necessità di trovare una spiegazione etimologica che si adattasse meglio agli usi ai quali il termine adab si era prestato nel corso del tempo, a partire dall’epoca preislamica in poi, rispetto a quanto non facessero le spiegazioni etimologiche proposte dalle lessicografie arabe medievali, alle quali sarebbe più naturale fare riferimento.48

1.2.2. Le categorie dell’adab

Secondo Pellat, i testi appartenenti alla letteratura dell’adab possono essere suddivisi in tre categorie: la prima, quella dell’adab parenetico, alla quale appartengono gli scritti morali; la seconda, che Pellat chiama adab culturale, consiste invece in opere compilate a beneficio delle classi più alte e degli uomini di cultura, contenenti frammenti di prosa o di poesia, battute di spirito, aneddoti, di cui è bene servirsi nelle conversazioni degli ambienti raffinati; infine, la categoria dell’adab che tradurremo come formativo e professionale49

, della quale fanno parte i manuali e le guide dirette alla formazione delle classi dirigenti, intellettuali e professionali del Califfato. Di conseguenza, lo stesso concetto di adab può essere esaminato a tre diversi livelli, sebbene essi non vadano intesi come nettamente separati l’uno dell’altro. Questi livelli sono quello morale, quello sociale, e quello intellettuale.

Verso la fine del Califfato Umayyade, il termine adab, nel suo senso etico-pratico, assunse un senso che, a grandi linee, secondo le parole di Francesco Gabrieli, può essere fatto corrispondere all’urbanitas dei Latini: la civiltà, la cortesia, la raffinatezza delle città in contrasto con la rudezza dei beduini50, tutto quell’insieme di regole sociali che non trovano fondazione all’interno della letteratura sacra, nonché pure tutto l’insieme delle conoscenze che sono necessarie per assolvere convenientemente a determinate funzioni, come quella del qāḍī, del maestro di scuola o del segretario di Stato.

Scrive infatti Nallino: «Questo senso generale [di adab inteso come somma delle cognizioni mondane] era ancora vivo dopo la metà del quarto secolo egira, secondo quanto si deduce dalle Rasā᾿il (Epistole) degli Ikhwān aṣ-ṣafā᾿. Anche da quanto disse

48 Cfr. C. A. Nallino, “La letteratura araba dagli inizi all’epoca della dinastia Umayyade”, pp. 4-5 49 Nell’originale, training or occupational adab; cfr. Ch. Pellat, “Adab in Arabic Literature,” p. 439. 50 F. Gabrieli, “Adab”, Encyclopedia of Islam, New Edition, vol. I Brill, Leiden, 1960, p. 175.

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il noto ministro al-Ḥasan ibn Sahl51 […] a proposito degli ādāb che divideva in 10 categorie52, è evidente come con adab intendevano la cultura in genere, ossia tutte le scienze non religiose e tutte le abilità nei vari giuochi e negli esercizi del corpo che, secondo l’opinione dei Persiani, convengono alle persone intelligenti, di nobile nascita».53

Durante il III secolo il significato del termine adab si restrinse progressivamente a quello di «ciò che una determinata classe di persone deve conoscere, o delle regole di condotta utili a una determinata classe di persone».54 Verso la fine del secolo, il termine iniziò ad essere applicato anche al di fuori dell’ambito morale, «per indicare il modo di condursi in un’arte, in una scienza, o in un’azione».55

Negli ambienti di corte del Califfato ῾Abbāside, inoltre, il termine venne ad assumere anche un altro significato, ancora più specifico: «Chi scorra il Kitāb al-aghānī (Libro dei canti) di Abū ᾿l-Faraǧ ῾Alī al-Iṣfahānī56

, i Murūǧ adh-dhahab di al-Mas῾ūdī […] e altri libri simili e sfogli i

dīwān dei poeti di quel secolo conosce l’esagerata passione per le riunioni e i conviti

esistente al tempo di Hārūn al-Rashīd, al-Amīn e al-Ma᾿mūn e dei successivi califfi. A quell’epoca per alcune classi di persone il fine dell’educazione consisteva soltanto nell’apprendere l’eleganza del vestire e del comportamento, la bellezza dell’eloquio, la finezza della retorica […] Non fa dunque meraviglia che il vocabolo adab presso gli elegantoni di quell’epoca si sia discostato dal significato di lodevole condotta morale derivante da buona educazione degli animi e sia passato a indicare tutto ciò che deve osservare e conoscere chi vuol stare in compagnia delle persone eleganti e distinte».57

51 Al-Ḥasan ibn Sahl, segretario e governatore del califfo al-Ma᾿mūn, morto nell’850-851; cfr. D.

Sourdel, “al-Ḥasan b. Sahl”, EIF, vol. III, pp. 250-251.

52

Ovvero: «Tre shahrigiāniyyah (ossia particolari ai shahārīğ, nobili persiani): suono del liuto, giuoco degli scacchi e del giavellotto; tre anūshirwāniyyah (da Cosroè Anūshirwān, 531-579 d.C.): medicina, geometria, equitazione; tre arabe: poesia, scienza delle genealogie, [conoscenza de]gli ayyām. Una supera le altre [ed è il conoscere] frammenti di racconti e conversazioni e quanto la gente riferisce nelle riunioni»; cfr. C. A. Nallino, “La letteratura araba dagli inizi all’epoca della dinastia Umayyade”, p. 8 n.3.

53 Ibid., pp. 8-9. 54 Ibid., p. 9. 55

Ibidem.

56

Abū l-Farağ ῾Alī ibn al-Ḥusayn ibn Muḥammad ibn Aḥmad al-Qurašī al-Iṣfahānī o al-Iṣbahānī (897-967) fu uno storico, letterato e poeta nato in Persia ma arabo di discendenza, come si evince dal nome. Il

Kitāb al-Aġānī, la sua opera più importante, alla quale lavorò, su commissione di Hārūn al-Rašīd, per

cinquant’anni – secondo le informazioni che lui stesso ci ha trasmesso – è un’ampia raccolta di poemi scritti tra il VI e il IX secolo da autori spessi ignoti; oltre ai testi dei poemi, sono riportati anche i relativi arrangiamenti musicali, aneddoti connessi con i poemi e le biografie degli autori; cfr. M. Nallino, “Abū l-Farağ al-Iṣbahānī”, EIF, vol. I, pp. 121-122.

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Questa particolare tendenza trova la sua esemplificazione più evidente nella figura dello ẓarīf (pl. ẓurafā᾿) e nel suo codice di buone maniere. Lo ẓarīf era colui che era contraddistinto dallo ẓarf, ovvero dall’eleganza e dalla raffinatezza, e che possedeva molte qualità, quali la cultura, l’urbanità, la moralità, la sensibilità estetica, la cortesia, l’amabilità, l’arguzia, la conoscenza della poesia, della moda. Lo ẓarīf era anche un personaggio capace di farsi arbitro del gusto, con una funzione sociale paragonabile a quella del dandy europeo, noto nelle corti e in altri ambienti.58

La sua esistenza, così come quella dei qiyas – gli schiavi cantanti della corte – è storicamente collegata al sorgere di scuole di musica e di canto nelle Città Sante della Mecca e di Medina durante l’epoca islamica; queste scuole, infatti, favorirono la formazione di autentici umoristi, di artisti, cantanti e musicisti, i quali poi, emigrando in Iraq, trasmisero la loro arte nella capitale del Califfato.59

Accanto allo ẓarīf, altre due figure di rilievo per il nostro argomento sono, in primo luogo, quella del nadīm (pl. nudamā᾿) letteralmente “amico intimo”, il generico funzionario di corte il quale era solito tenere compagnia al sovrano nei suoi momenti di solitudine o in occasioni di ritrovo di vario genere; e il kātib (pl. kuttāb), ovvero lo scriba, il segretario, colui che lavorava in un ufficio burocratico e che era incaricato di redigere e conservare i registri contenenti gli atti amministrativi del Califfato – o dell’entità statale verso la quale prestava servizio.60

Ognuno di questi personaggi era un

adib, ovvero un uomo educato dal punto di vista morale ed intellettuale, un gentiluomo

e uno studioso al contempo, ed alla formazione di questi ultimi era dunque orientata la letteratura dell’adab.

Ma sarebbe riduttivo limitarsi a menzionare soltanto questi personaggi, essendo la letteratura dell’adab molto vasta e comprendendo al suo interno molte sottocategorie diverse, divise tra loro in base a diversi criteri come quello del destinatario, quello dell’argomento, oppure quello dell’ambiente nel quale sono sorte, come vedremo.

58 Cfr. B. Holmberg, “Adab and Arabic Literature”, in Literary History: Towards a Global Perspective,

vol. I, Notions of Literature Across Times and Cultures, ed. A. Pettersson, Berlin, 2006, p. 202.

59

Sullo sviluppo della musica all’epoca degli Umayyadi e degli ῾Abbāsidi, cfr. P. K. Hitti, Storia degli

Arabi. Dall’antichità al Novecento, a cura di P. Attendoli, Odoya, Bologna, 2015, pp. 277-282, 418-421.

60 Riprenderemo la figura del kātib anche in seguito, quando parleremo della vita di Miskawayh; egli

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Nel suo articolo Classical Arabic Wisdom Literature: Nature and Scope61, Dimitri Gutas ha proposto una sinossi che suddivide la letteratura dell’adab in dodici sottogruppi. Certo si tratta di una suddivisione indicativa: talvolta un’opera dell’adab può essere a tal punto poliedrica che inserirla univocamente in una sola sottocategoria è del tutto impossibile. Tuttavia, questa sinossi risulta estremamente utile se lo scopo è semplicemente dare un’idea di quanti tipi differenti di opere possono rientrare nella definizione di adab.

Innanzitutto, è considerato parte della letteratura dell’adab quell’insieme di opere indirizzate ai regnanti presente anche, come abbiamo visto, nella letteratura

pahlavi, e note come il genere degli [1] Specula principis. Esse sono le opere che si

propongono di fornire consigli per la gestione del governo e, nella tradizione arabo-islamica, si configurano come raccolte delle massime dei reggenti e dei sapienti greci, persiani e arabi. Strettamente collegato a questo tipo di opere è il gruppo di scritti dedicati alla classe dirigente: vi sono dunque le opere indirizzate [2] ai visir, [3] ai qādī e ai kuttāb; queste ultime, in particolare, possono essere [4] manuali generici che solitamente portano il titolo di adab al-kuttāb, oppure [5] manuali specialistici sulle discipline della scrittura e della calligrafia.

Vi sono poi un certo numero di opere dell’adab che trattano di un unico argomento; tra queste, menzioniamo quelle dedicate [6] alle nobili qualità del carattere (makārim al-aḫlāq), quelle dedicate [7] al cosiddetto “amore profano”, e quelle che potremmo definire [8] umoristiche, contenenti arguzie e facezie.

Infine, vi è la possibilità di indicare altri quattro sottogruppi, in base alla tradizione intellettuale o confessionale all’interno della quale un’opera può essere stata scritta. Vi sono innanzitutto le opere dell’adab che appartengono [9] alla tradizione letteraria propria di opere come il Kitāb ādāb (Libro delle massime) di Ibn al-Mu῾tazz (861-908)62 e il Kitāb al-I῾ǧāz fī l-Īǧāz (Libro dell’inimitabilità e della

concisione) di Abū Manṣūr al-Ṯa῾ālibī (961-1038), la cui particolarità è il fatto di essere

state composte, rispettivamente, a scopo strettamente letterario e critico-letterario. Vi sono poi le opere che fanno parte [10] della tradizione šī῾ita, come le collezioni di

61 D. Gutas, “Classical Arabic Wisdom Literature: Nature and Scope”, in Journal of the American

Oriental Society, 101/1, 1981, pp. 49-86.

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massime attribuite ad ῾Alī e agli Imam successivi63, oppure ad altri šī῾iti illustri. Anche alcune opere appartenenti [11] alla letteratura Ṣūfi, contenenti massime e aneddoti sono comprese nella letteratura dell’adab: pronunciamenti laconici e spesso paradossali sono molto frequenti nella tradizione Ṣūfi e rappresentano il maggiore mezzo tramite il quale le idee dei Ṣūfi vengono comunicate. L’ultimo sottogruppo che citeremo è quello che concerne [12] le raccolte di massime filosofiche – perlopiù tratte da fonti non arabe, specialmente greche.

Prima di proseguire parlando dei padri della letteratura dell’adab, vorrei soffermarmi su una categoria importante all’interno di questo genere letterario: quella delle waṣāyā. Le prime opere in arabo di una certa estensione appartenenti al genere degli Specula principis sono da datarsi a partire dal X secolo.64

1.2.3. Le waṣāyā

Tuttavia, collezioni nelle quali comparivano brani di varia estensione scritti con l’intento di fornire consigli di governo – specificamente ai reggenti – circolavano già nel secolo precedente, e in alcuni casi si tratta di waṣāyā, ovvero testamenti, scritti da un certo reggente ai suoi successori, la cui redazione originaria è collocata, in alcuni casi, molto più indietro.

Quando affronteremo direttamente il testo del Kitāb al-Ḥikma al-Ḫālida, non potremo fare a meno di notare che molti dei brani raccolti da Miskawayh per la sua antologia sono proprio di waṣāya destinate a dei monarchi, come ad esempio ad Alessandro Magno, oppure a re sasanidi. La loro collocazione è dunque pre-islamica; quello che però qui vorremmo sottolineare, è il fatto che testi di questo tipo esistessero anche in lingua araba ed appartenenti al periodo islamico: in diverse storiografie e

63

Ad esempio, il Nahğ al-balāġa (La via dell’eloquenza) di Šarīf al-Raḍī (970-1015), studioso e poeta persiano ši῾īta del X secolo, è la più nota collezione di discorsi politici, sermoni, epistole, sentenze morali commenti al Corano e aḥādīṯ attribuiti ad ῾Alī; cfr. L. Veccia Vaglieri, “῾Alī b. Abī Ṭālib”, EIF, vol. I, pp. 392-397.

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Una delle prime opere di questo genere è il Siyāsat al-mulūk (Governo dei re), opera anonima il cui autore fu probabilmente un ufficiale minore coinvolto nell’amministrazione del primo periodo buwayhide; oppure l’opera pseudo-epigrafica attribuita ad al-Māwardī (974-1058), Kitāb naṣīḥat al-mulk (Libro dei consigli del regno). Per al-Māwardī, vedi infra, p. 49 n. 143.

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