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3. Contesto socio-culturale

3.1. L’insorgenza del darī

Come abbiamo accennato precedentemente, le raccolte di andarz furono in una certa misura tradotte in arabo durante questa epoca storica. In seguito alle prime conquiste arabe in Persia nella seconda metà del VII secolo, e a quelle in Transoxiana all’inizio dell’VIII secolo, si assistette alla rapida diffusione della lingua araba in tutti i territori conquistati, a partire dall’apparato amministrativo194

fino a coinvolgere gli altri strati della popolazione. L’effetto collaterale di questo fenomeno fu la rapida caduta in disuso della lingua pahlavi, che avvenne durante il periodo umayyade. Infatti sappiamo che, al tempo di al-Manṣūr – ovvero, solo poche generazioni dopo la conquista – in Iran vi era una vasta parte della popolazione la quale non era più in grado di comprendere la

194 Fu un decreto del 697 da parte di ῾Abd al-Malik a decidere che i registri finanziari di tutti gli uffici

burocratici dell’Iran venissero tradotti in arabo. Tuttavia, dopo tale data, per almeno un altro mezzo secolo tra gli scribi hanno continuato a esserci zoroastriani che utilizzavano il pahlavi; finché, nel 742, il governatore dell’Iraq, Yūsuf ibn ῾Umar, non inviò al governatore del Ḫurāsān, Naṣr ibn Sayyār, l’ordine di assumere come scribi solo ed esclusivamente musulmani. È a questa data, dunque, che va posposta l’arabizzazione dell’apparato amministrativo del Ḫurāsān.

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lingua medio-persiana. Secondo l’ipotesi avanzata da Dimitri Gutas, ciò potrebbe essere testimoniato dal fatto che, in concomitanza con la nascita e la diffusione della causa ῾abbāside, in Iran si assistette a una consistente attività di traduzione dal pahlavi all’arabo di testi portatori dell’ideologia zoroastriana. Egli infatti ipotizza un collegamento tra questi due fatti.

Come osserva in Pensiero greco e cultura araba, i vari gruppi che ebbero a loro modo un ruolo nel determinarsi della cosiddetta rivoluzione ῾abbāside, sostanzialmente concordavano con la necessità di sostituire il potere umayyade, ma avevano aspettative diverse in merito a chi avrebbe dovuto sostituirlo. Come è stato accennato, esistevano gruppi i quali aspiravano a un ritorno del passato sasanide, e questa attività di traduzione di testi zoroastriani dal pahlavi all’arabo può dunque essere ben spiegata con l’attività propagandistica dei suddetti movimenti politici, abilmente cavalcata dai propugnatori della causa ῾abbāside per scopi loro propri. Era infatti necessario convincere quelle frange della popolazione che non erano più in grado di comprendere il pahlavi del fatto che fosse nel loro interesse sostenere la causa, e che proprio gli ῾abbāsidi erano i legittimi eredi della tradizione sasanide.195

Tuttavia, sappiamo che la lingua pahlavi ha continuato a sopravvivere più o meno fino all’XI secolo assieme agli altri dialetti esistenti196, specialmente nell’area occidentale della Persia, quella più vicina a Bagdad. Tale sopravvivenza fu dovuta principalmente a una rinascita dell’attività letteraria che coinvolse quasi esclusivamente l’ambiente sacerdotale zoroastriano, la quale fu particolarmente marcata, durante il

195 Cfr. D. Gutas, Pensiero greco e cultura araba, pp. 34s. Bisogna però tenere a mente che, a metà

dell’VIII secolo, la maggior parte degli immigrati arabi arruolati nell’esercito di Abū Muslim si era persianizzata e parlava il darī; cfr. G. Lazard, “The Rise of the New Persian Language”, in The

Cambridge History of Iran, vol. IV, Cambridge University Press, 2008, pp. 601-602. Non bisogna dunque

cadere nell’errore di credere che l’arabizzazione del Ḫurāsān avesse raggiunto livelli tali da rendere l’arabo l’idioma predominante di tale zona. Al contrario, l’arabizzazione del Ḫurāsān non fu mai molto forte. Accadde, semmai, l’inverso; cfr. R. Marcotte, “Eastern Iran and the Emergence of New Persian (darī)”, in Hamdard Islamicus vol. 21/2, 1998, p. 63-81. Questo però non smentisce l’interpretazione di D. Gutas, in quanto l’arabo era compreso, mentre il pahlavi non più. Dunque, resta comunque possibile sostenere che le traduzioni di questo periodo dal pahlavi all’arabo avessero lo scopo di rivolgersi ai nativi persiani.

196 La lingua pahlavi era la lingua ufficiale dell’Impero Sasanide, ma non era l’unica che fosse parlata nel

vasto territorio persiano. Ad esempio, l’antico sogdiano, scritto in lettere greche e parlato in Transoxiana, e il partico, parlato in Nord Iran, nel Sud-Est della regione del Caspio, erano idiomi altrettanto importanti.

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dominio di quei califfi ῾abbāsidi che si sono dimostrati particolarmente tolleranti e accondiscendenti nei confronti della cultura iranica.197

Più o meno simultaneamente a questi processi, nell’area orientale della Persia, nella quale il pahlavi era usato principalmente come lingua liturgica e non costituiva il principale veicolo della cultura popolare oltre all’arabo, le corti locali erano permeate da altri dialetti; tra i vari esistenti, un idioma in particolare andava affermandosi come maggioritario, diffondendosi dal Ḫurāsān e dalla Transoxiana: si tratta del neo-persiano, o darī.198

La lingua darī , nella sua forma definitiva, ovvero letteraria, è un prodotto ben rappresentativo dell’incontro tra le due realtà culturali persiana e araba. Lingua essenzialmente indoeuropea, non si discosta molto, dal punto di vista grammaticale e fonetico, dal pahlavi199

; mentre il suo alfabeto è nient’altro che il risultato di un adattamento di quello arabo alle particolarità fonetiche dell’idioma locale. Una quantità considerevole di termini arabi è entrata nel suo vocabolario – così come, del resto, molti termini persiani sono entrati nella lingua araba, in una sorta di mutuo scambio tra le due.

Gli autori che hanno contribuito alla nascita e all’affermarsi del darī come lingua letteraria sono stati, inizialmente, i poeti.200 Verso il X secolo, molti poeti scrivevano in neo-persiano per le corti locali201, mentre i trattati scientifici e filosofici continuarono ad essere scritti in arabo ancora per lungo tempo dopo tale data, salvo qualche eccezione202: talvolta – e questa particolare politica è attribuita in particolar modo ai Sāmānidi, dinastia dell’XI secolo alla quale è infatti attribuito anche il merito di aver contribuito in modo determinante a rendere il darī la lingua della cultura e la

197 Cfr. R. Marcotte, “Eastern Iran and the Emergence of New Persian (darī)”, pp. 65s. Non si dimentichi,

infatti, che il Dēnkard è stato redatto in lingua pahlavi, pur essendo la sua redazione finale del X secolo.

198

Vedi anche G. Lazard, “Darī”, Encyclopædia Iranica, VII/1, pp. 34-35.

199 Essa è considerata il terzo stato di quella medesima lingua il cui primo stadio è rappresentato dalla

lingua avestica parlata al tempo degli Achemenidi, detto anche antico persiano; il secondo dalla lingua partica e dalla lingua pahlavi, parlate al tempo degli Arsacidi e dei Sasanidi, che insieme sono dette medio-persiano.

200 Sebbene l’informazione sia dubbia, secondo un’antologia del XIII secolo, la Lubāb al-albāb di

Muḥammad ῾Aufi, il primo poema scritto in neo-persiano fu una qaṣīda composta nell’809 da un certo Abū l-῾Abbās di Marw in occasione dell’entrata in città del futuro califfo al-Ma᾿mūn; secondo un’altra versione, invece, fu una qaṣīda dedicata a Ya῾qūb ibn al-Layth al-Ṣaffār, capo militare incapace di comprendere l’arabo, da Muḥammad ibn Waṣīf, suo segretario, per celebrare la sua vittoria sul ḫāriğita ῾Ammār del 865. Questo fu un esempio che fu seguito da altri segretari in seguito, cfr. G. Lazard, “The Rise of the New Persian Language”, p. 595.

201

Molti poeti che prestavano servizio nelle corti della Transoxiana e del Ḫurāsān erano bilingui, e perciò detti “possessori di due lingue”, ḏū l-lisānayn.

202 Ad esempio, sia Ibn Sīnā, sia al-Ġazālī scrissero trattati in neo-persiano; ma la maggior parte della loro

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principale forma di espressione dell’Iran203

– un trattato in darī poteva essere commissionato dall’autorità sotto la quale l’autore prestava servizio, nell’ottica di una politica culturale di affrancamento della propria dinastia locale dal potere centrale204, ovvero quello del califfo.205

Già quindi a partire dal primo periodo del Califfato ῾Abbāside, si venne progressivamente a formare un contesto culturale essenzialmente bilingue, nel quale testi in arabo venivano tradotti in neo-persiano e viceversa. Questo è il motivo per il quale non è raro che di uno stesso testo esistano entrambe le versioni. Ciò è vero anche nel caso di alcune raccolte di andarz, che vennero volte in entrambe le lingue, totalmente o come frammenti.206

203 In particolare, il regno di Naṣr II ibn Aḥmad (r. 914-943) può essere considerato l’età dell’oro del

dominio samanide. I suoi due primi ministri, Ğayhānī (dal 914 al 922 e poi, di nuovo, dal 938 al 941) e Abu l-Faḍl al-Bal῾amī (dal 922 al 938) furono responsabili di una notevole fioritura delle lettere e della cultura e furono mecenati di un gran numero di uomini di lettere e di scienza; cfr. N. R. Frye, “The Samanids” in The Cambridge History of Iran, vol. IV, p. 142.

204

In questa fase storica, il potere in Iran orientale era così configurato: all’interno di una struttura modellata su un sistema di tipo feudale di origine pre-islamica, i dihqān, signori locali, esercitavano di fatto il potere rimanendo nominalmente vassalli di governatori più potenti o, direttamente, del califfo ῾abbāside. Tale situazione di vassallaggio, ovvero, la fedeltà nominale del signore locale all’autorità califfale, generalmente si concretizzava nei seguenti modi: nelle tasse che il signore locale continuava a pagare a Bagdad; nel mantenimento del conio califfale; infine, nella preghiera del venerdì, durante la quale era omaggiato il nome del califfo. Le situazioni di ambiguità che a volte si venivano a creare possono essere esemplificate dal caso della dinastia Ṭāhiride, la prima di origine iraniana della Persia islamica. Dopo solo un anno dalla nomina a governatore del Ḫurāsān di Ṭāhir da parte di al-Ma’mūn (821), il nome del califfo fu depennato dalle preghiere del venerdì, poiché Ṭāhir – e, in seguito, suo figlio – intendeva governare in modo indipendente. Tuttavia, egli continuava a inviare le tasse a Bagdad, nonché a ergersi a difensore dell’ortodossia sunnita in un periodo nel quale la Šī῾a cresceva d’importanza.

205

Valgano come esempi i seguenti casi: Bal῾amī, storico persiano e visir sotto i Sāmānidi, tradusse, in una versione abbreviata, il Ta῾rīḫ al-rusul wa-l-mulūk di al-Ṭabarī su commissione dell’emiro samanide Naṣr II ibn Aḥmad (r. 914-943). Osserva però G. Lazard che la coscienza nazionale degli Iraniani non si manifestò nella sfera del linguaggio: «Il nazionalismo linguistico è un’invenzione moderna e non esisteva in questa epoca»; non per niente, «gli argomenti della Šu῾ūbīyya sono stati tutti condotti in arabo»; cfr. G. Lazard, “Rise of the New Persian Language”, p. 603.

206 I due esempi maggiormente significativi sono i seguenti: il “Testamento di Ardašīr” (῾Ahd-e Ardašīr) e

la “Lettera di Tansar” (Nāma-ye Tansar), della quale ci resta soltanto la versione neo-persiana tratta da una araba precedente; cfr Sh. Shaked, “Andarz and andarz Literature in pre-Islamic Iran”, pp. 11s.

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3.2. La Šu῾ūbiyya

3.2.1. Il termine “ša῾b”

Il termine Šu῾ūbiyya207

, utilizzato dagli šu῾ūbī stessi per autodefinirsi, esisteva già prima dell’ VIII secolo, quando l’omonimo movimento, letterario e politico, si affermò nel mondo islamico e, specificatamente, in Persia; esso deriva da un’āya: precisamente da Cor. XLIX, 13, che così recita: «O uomini, vi abbiamo creato da un maschio e da una femmina e abbiamo fatto di voi gruppi208 (šu῾ūb) e tribù (qabā᾿il), affinché vi conosceste a vicenda. Presso Dio, il più nobile (akram) tra di voi è il più retto (atqā) di voi; in verità Dio è Colui che tutto conosce e che tutto vede».

Ci si può innanzitutto chiedere per quale motivo la disputa si sia concentrata attorno all’āya XLIX, 13 quando esistono anche altri possibili versetti che potrebbero essere utilizzati per avvalorare delle posizioni egalitarie dello stesso tipo, ad esempio l’āya XLIX, 10209

o la III, 195210. Come fa notare Mottahedeh, il motivo è da ricercarsi nel fatto che il disaccordo sul significato del termine šu῾ūb abbia rappresentato uno dei punti di divisione tra gli šu῾ūbī e i loro oppositori.

Non tutti i commentatori hanno infatti interpretato questa āya allo stesso modo; del resto, l’espressione «affinché vi conosceste a vicenda» può ben attestare il fatto che la divisione degli uomini tra šu῾ūb e qabā᾿il sia stata creata da Dio stesso, e che sia dunque importante per l’individuo non dimenticare mai la sua appartenenza perché essa è ciò che gli permette di identificare se stesso di fronte agli altri; e, al contempo, «il più nobile tra di voi è il più retto di voi»211, dunque non è giustificata alcuna superbia

207 La fonte principale di questo capitolo è l’articolo di R. P. Mottahedeh, “The Shu῾ūbīyah Controversy

and the Social History of Early Islamic Iran”, International Journal of Middle Eastearn Studies, 7:2, 1976, pp. 161-182.

208

Seguendo l’esempio di R. P. Mottahedeh, scelgo anche io, preliminarmente, la traduzione “gruppo” per il termine ša῾b, pl. šu῾ūb, in modo da evitare un eventuale pregiudizio sulle varie interpretazioni dei commentatori; cfr. Ibid., p. 164.

209

Cor. XLIX, 10: «Invero i credenti (al-mu᾿minūna) sono fratelli; ristabilite dunque la concordia tra i vostri fratelli e temete Dio».

210 Cor. III, 195: «Dunque il loro Signore risponde: […] “A coloro che sono emigrati, a coloro che sono

stati scacciati dalle loro case, a coloro che sono stati perseguitati per la Mia causa (fī sabīlī), che hanno combattuto, che sono stati uccidi, perdonerò le colpe, e li farò entrare nei Giardini dove scorrono i ruscelli, ricompensa da parte di Dio».

211 Alcuni commentatori ritengono che ignorare la propria genealogia renda un uomo incapace di seguire

correttamente la Šarī῾a, ad esempio nel distribuire correttamente l’eredità o nell’evitare matrimoni tra persone che hanno uno stretto legame di parentela; oppure, che laddove risultasse impossibile collocare

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derivante dalla nobiltà delle proprie origini di fronte all’equità di Dio, che giudica gli individui in base alla loro condotta, a prescindere da ogni altra considerazione.

In generale, riguardo al termine šu῾ūb si può dire che esista una interpretazione tipica degli Arabi, e un’altra interpretazione tipica dei Persiani, sebbene questa distinzione non vada intesa in senso categorico. Gli Arabi, infatti, generalmente, hanno inteso sia il termine šu῾ūb sia il termine qabā᾿il come concetti connessi ai principi della scienza genealogica araba212, mentre per i commentatori persiani (specialmente per quelli del Ḫurāsān) solo il termine qabā῾il si riferisce a coloro la cui identità è determinata dai principi della genealogia – e, dunque, agli Arabi – mentre il termine

šu῾ūb indicherebbe tutti coloro i quali, non facendo parte di alcuna tribù, si

autodeterminano in base a principi territoriali, indicando la città o la regione di origine; in altre parole, a tutti coloro che non sono Arabi: Aramei, Berberi, Copti ma, soprattutto, Persiani.213

Come caso esemplare di quest’ultima interpretazione, esiste un commentario coranico persiano anonimo conservato nella libreria dell’Università di Cambridge, conosciuto con il nome di “Cambridge Tafsīr” il quale così spiega l’āya XLIX, 13: «O uomini, sappiate che Noi vi abbiamo creato tutti – bianchi e neri, ricchi e poveri, grandi e piccoli, Arabi e mawlā, da un unico uomo e un’unica donna. Abbiamo creato una città (shahr) dopo l’altra e una tribù dopo l’altra; di conseguenza, quando vi chiederanno “Vi conoscete l’un l’altro?” – per sapere da dove venite – voi risponderete “questa o quella città, questo o quel villaggio (dīh) o questa o quella località (maḥallat)” oppure “questa o quella tribù, figlio di questo o di quello”, cosicché possiate conoscervi tra voi. È per

correttamente un determinato tradizionista, sarebbe altresì impossibile valutare correttamente il grado di autenticità degli aḥādīṯ da lui trasmessi; cfr. Ibid., p. 167.

212 Per la precisione, ša῾b è stato interpretato come “confederazione tribale” o “super-tribù” ovvero come

l’unità genealogica immediatamente successiva al qabā᾿il. Questa interpretazione ha una base filologica molto forte poiché ša῾b è anche un maṣdar che significa “il riunire” o “il dividere” ed è stato utilizzato, per estensione, per intendere quelle unità genealogiche risultanti dalla riunione o dalla diramazione di unità genealogiche originarie. Il maggior rappresentante di questa interpretazione è al-Ṭabarī, che nel suo

Ğāmi῾ al-Bayān ῾an ta᾿wīl al-Qur᾿ān propone un’esegesi che trova conferma in alcuni commentari molto

antichi, come nel Tafsīr al-Qur᾿ān al-Karīm di Suf᾿ān al-Ṯaurī (m. 778) e nel Mağāz al-Qur᾿ān di Abū ῾Ubayda (m. 824-825); traggo le informazioni bibliografiche da R.P. Mottahedeh, “The Shu῾ūbīyah Controversy”, p. 166.

213 Pare che gli Arabi del primo periodo islamico abbiamo avuto una certa difficoltà a concepire la

possibilità di un’organizzazione della società che fosse basata su principi diversi da quello della genealogia, tanto che una persona le cui origini fossero state impossibili da tracciare secondo i principi della scienza genealogica araba, difficilmente avrebbe potuto definirsi propriamente una persona; ciò nonostante, gli šu῾ūbī trovarono nello stesso Corano un garante dell’organizzazione non-tribale e non- genealogica della popolazione; cfr. Ibid., pp. 170-171.

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questa ragione che Noi vi abbiamo dato i nomi (nām-hā), non perché voi poteste inorgoglirvi nei confronti di qualcun altro».214 Tale esegesi, ben lontana dall’essere l’espressione di una personalità isolata, è frequentemente menzionata nei commentari coranici ed ebbe una grandissima importanza per il movimento della Šu῾ūbiyya. Le sue radici corrono indietro fino all’autorevole voce di ῾Abd Allah ibn ῾Abbas (m. 691), padre del Tafsīr, parente del profeta e presunto antenato della Dinastia ῾Abbāside, il quale avrebbe chiaramente affermato che gli šu῾ūb sono i mawālī e i qabā᾿il sono gli Arabi. Le sue parole, per quanto quasi sicuramente apocrife, furono estremamente rispettate dai commentatori successivi, tanto che per alcuni questa era l’unica interpretazione possibile del passo.215

3.2.2. Gli šu῾ūbī

Fin dall’origine216, il termine Šu῾ūbiyya ha indicato quella particolare concezione politico-sociale di stampo religioso che predicava l’uguaglianza tra tutti i Musulmani, contro quello che potremmo chiamare il nazionalismo arabo. Spesso ci si riferiva agli šu῾ūbī chiamandoli ahl al-taswiyya, “gente [che chiede] l’uguaglianza”, e la frase «il più nobile tra di voi è il più retto di voi» ha finito per diventare il manifesto della lotta contro l’orgoglio tribale inteso come un pericolo per l’unità della comunità musulmana. In un primo momento questo termine fu utilizzato dai Ḫāriǧiti, ed aveva un senso molto ristretto: esso esprimeva infatti la loro volontà di contrastare la pretesa dei Qurayš di essere gli unici a poter assumere legittimamente il ruolo di guide della Umma. Al contrario, il movimento della Šu῾ūbiyya che sorse nell’VIII e che vide il suo apogeo nell’IX secolo, aveva scopi molto più vasti: esso esprimeva le rivendicazioni socio-politiche dei non-Arabi (aǧam217) che spaziavano, appunto, dall’affermazione

214

Cfr. Anonimo, Tafsīr-i Qur᾿ān-i Mağīd, ed. Ğalāl Matīnī, vol. II, p. 256. Si pensa che l’autore di questo commentario fosse originario del Ḫurāsān e che non abbia vissuto più tardi del XI secolo. Traggo la citazione e la fonte bibliografica da R. P. Mottahedeh, “The Shu῾ūbīyah Controversy”, p. 167.

215

Il commentario persiano di Abū l-Futūḥ al-Rāzī (m. 1144) riassume alcune delle esegesi esistenti del passo in questo modo: «Gli šu῾ūb sono coloro le cui relazioni non sono descritte in rapporto a una persona; piuttosto, sono descritte in rapporto a una città (shahr) o a una terra (zamīn). Le tribù sono invece quelle che descrivono le proprie relazioni in rapporto a un antenato (pidarān)». Traggo la citazione da R. P. Mottahedeh, “The Shu῾ūbīyah Controversy”, p. 169.

216

In questo capitolo ho seguito, come punto di partenza per la mia esposizione, la voce di S. Enderwitz, “al-Shu῾ūbiyya”, EI2, Leiden, Brill, 1997 pp. 513-514.

217 Ağam è, appunto, il termine utilizzato nella letteratura medievale araba per indicare i non-Arabi

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dell’uguaglianza tra Arabi e non-Arabi, fino alla negazione di qualsiasi importanza, passata o presente, degli Arabi e, dunque, della superiorità persiana.

Ignaz Goldziher218, il primo studioso ad occuparsi approfonditamente della Šu῾ūbiyya, identificò due cause scatenanti per il sentimento anti-arabo che prese vita in questi secoli: la prima, è che durante il Califfato ῾Abbāside le autorità sarebbero state autrici di forti discriminazioni verso la componente araba della società; la seconda, è che i Persiani, solo superficialmente islamizzati, avrebbero cominciato a riscoprire la loro coscienza nazionale. Tale nazionalismo persiano, poi, sarebbe stato direttamente connesso con i movimenti autonomisti della Persia orientale.

Tale lettura è stata però rigettata da alcuni studiosi più recenti come R. P. Mottahedeh, che commenta: «Gli specialisti della prima Persia islamica che si sono ritrovati ad esprimere, direttamente o indirettamente, la loro opinione su questo