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Il testamento di Platone al suo allievo Aristotele

Il Kitāb al-Ḥikma al-Ḫālida

5. Il testamento di Platone al suo allievo Aristotele

Questa raccolta di sentenze, nella sua forma finale di waṣiya platonica diretta ad Aristotele, è conservata in tre opere: in arabo, nel Kitāb al-Ḥikma al-Ḫālida di Miskawayh, nel Muḫtār al-ḥikam di al-Mubaššir ibn Fātik448, e in persiano nell’opera di

Naṣīr al-Dīn Ṭūsī dal titolo Aḫlāq-i Nāṣirī.449

In un articolo apparso postumo450

, A. J. Arberry presenta il testo persiano di Ṭūsī assieme alla sua controparte araba delle edizioni di Badawī del testo di al-Mubaššir e di Miskawayh, e traduce le tre versioni, indipendentemente, in inglese.451

Tra le conclusioni a cui Arberry giunge nel suo articolo, quelle che possono essere di nostro interesse sono le seguenti: innanzitutto la versione persiana di Ṭūsī aderisce molto strettamente a quella araba di Miskawayh; le variazioni sono poche e possono essere attribuite all’eccentricità dei copisti, oppure all’emendamento, o al fraintendimento, dell’autore dell’originale; la versione di Mubaššir ibn Fātik è invece maggiormente ritoccata; ma appare evidente che tutte e tre le versioni provengono in ultima analisi dalla medesima fonte, un’antologia – perduta – di aforismi attribuiti a Platone della quale si può affermare che non deve nulla a Platone stesso; ciò che non dimostra che essa non possa aver avuto una fonte greca; ma se mai ne è esistita una,

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In quest’opera, il titolo della waṣiya è: Wa-qāl [Aflāṭūn] fīmā amlā-hu ῾alā Arisṭūṭālīs (I detti [di

Platone] che egli dettò ad Aristotele), laddove in Miskawayh è Waṣiya Aflāṭūn li-tilmīḏi-hi Arisṭūṭālīs.

449 Naṣīr al-Dīn Ṭūsī, Aḫlāq-i nāṣirī, trad. G. M. Wickens, The Nasirean Ethics, Londra, Allen & Unwin,

1964. Per riferirci ad essa utilizzeremo l’articolo di A. J. Arberry, “Plato’s Testament to Aristotle”,

Bullettin of the School of Oriental and African Studies, University of London, Vol. 34, No. 3, 1971, pp.

475-490, e d’ora in poi sarà segnalata con Ṭūsī.

450 Ibidem.

451 Per quanto riguarda i riferimenti in nota, per questa waṣiya – ed esclusivamente per questa –

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essa è stata estensivamente “islamizzata” nel corso della trasmissione. Di seguito, la traduzione della waṣiya.

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«Conosci il tuo Signore e la sua verità452, e mantieni costante la tua preoccupazione per la conoscenza e per l’istruzione. Interessati maggiormente al tuo nutrimento giorno per giorno – cioè senza accumularlo. Non valutare l’uomo colto453 in base alla quantità della conoscenza, ma in base al fatto che si sia spogliato dal male. Non chiedere a Dio Altissimo ciò il cui vantaggio per te non perdura, poiché tutti i doni [provengono] da Lui, pertanto devi chiedere il favore454 che resta con te sempre. Sii vigile, poiché le cause del male sono molte. Dunque non amare ciò che non devi fare. Certo Dio Altissimo non si vendica dello schiavo con lo sdegno su di lui, ma correggendolo. Non devi amare una vita buona soltanto, ma anche una morte buona.455

E non considerare buone la morte e la vita, a meno che tu non ottenga tramite esse la pietà.456

Non addormentarti finché non hai chiesto conto alla tua anima di tre cose: Hai

452 Così traduce A. J. Arberry: «Know your Lord and what is due to Him”; cfr. Id., “Plato’s Testament to

Aristotle, p. 481, sentenza n.1. Nel Corano, quando il verbo ῾arafa (conoscere) ha il termine ḥaqq come oggetto, il termine ḥaqq viene generalmente tradotto con Verità, cfr. Cor. V, 83: «E quando sentono ciò che è disceso sul Profeta, vedi i loro occhi versare lacrime per ciò che di Verità (min al-ḥaqq) vi riconoscono (῾arafū)». In altri luoghi è utilizzato il verbo ῾alama, come in Cor. XXI, 24: «Ma la maggior parte di loro non conoscono (lā ya῾lamūna) la Verità (al-haqq)». Non si può dubitare che il passo abbia avuto un’interpretazione religiosa, sia per l’uso del termine rabbuka (il tuo Signore), sia per il termine

ḥaqq. In molte āyāt del Corano è detto che la Verità (ḥaqq) è stata fatta discendere (nazzala, cfr. Cor. II,

176; III, 3; oppure ᾿anzala, cfr. Cor. II, 213; IV, 105; V, 48; XVII, 105; XXXIX, 2; ecc.; oppure ᾿unzila, cfr. Cor. XIII, 1, 19; XXXIV, 6) da Dio con il libro (al-Kitāb); ed al-Ḥaqq è anche uno dei 99 nomi di Dio; cfr. Cor XXII, 6: «Dio è il Vero (Allāh huwa al-Ḥaqq)».

453 Al-᾿adīb nel testo.

454 Ni῾ma nel testo; è improbabile che debba leggersi na῾ma, “agiatezza, benessere”, poiché nel Corano è

un termine negativo, connesso con i beni materiali (cfr. Cor. XLIV, 27; LXXIII, 11), al contrario di

ni῾ma, che è invece positivo; in molte āyāt si legge ni῾matu llahi (cfr. Cor. II, 211; V, 7, 20; XIV, 6; ecc.)

e si può tradurre anche con grazia, religiosamente intesa.

455 A. J. Arberry traduce «righteous life» e «righteous death»; cfr. Id., sentenza n.9. 456

A. J. Arberry traduce: «Do not count death and life as righteous except that you acquire by them piety», cfr. Id., “Plato’s Testament to Aristotle”, p. 481, sentenza n. 10. Il verbo qui utilizzato, taktasiba (che tu ottenga), voce del verbo iktasaba, ottava forma del verbo kasaba, richiama l’uso coranico di questo verbo, ad esempio in Cor. II, 286: «Lahā mā kasabat wa-῾alayhā mā aktasabat» (tradotto da A. Bausani: «Quel che l’anima si sarà guadagnata sarà a suo vantaggio e quel che si sarà guadagnata sarà a suo svantaggio», cfr. Id., Il Corano, Milano, 1988, rist. 1994, p. 35), o in Cor. LII, 21: «Kullu amri᾿in bi-

mā kasaba rahīnun», tradotto: «Ogni uomo sarà pegno di quel che s’è guadagnato», cfr. A. Bausani, Il Corano, p. 394); nonché la conseguente dottrina islamica del kasb o iktisāb, ovvero dell’acquisizione

delle azioni – create da Dio al pari di ogni altra cosa creata – da parte dell’uomo; cfr. H. A. Wolfson, “Free Will and God’s Power: The Theory of Acquisition (kasb; iktisāb)” in The Philosophy of Kalam, Cambridge, 1976, pp. 663-719. Anche al-birr potrebbe, secondo A. J. Arberry, richiamare il senso coranico, cfr. Cor. II, 177: «La pietà (al-birr) non consiste nel volger la faccia verso l’oriente o verso

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errato oggi? E hai guadagnato oggi? E cosa avresti dovuto fare con onestà, che non hai fatto? – Ricorda ciò che sei stato e qual è la tua destinazione, e non fare del male a nessuno poiché le cose del nostro mondo sono mutevoli ed effimere. Il malfattore457 è colui che non ricorda mai le sue conseguenze, dunque non rinuncia al suo sbaglio. Non rendere un tuo possesso ciò che proviene da fuori di te.458

Non aspettare a fare del bene a chi merita di chiedertelo, ma fallo per primo. Non è sapiente completo459 chi è lieto per qualcosa dei piaceri del mondo460

o è afflitto per le sue disgrazie e si scoraggia per esse.461

Mantieni costante il ricordo

l’occidente, bensì la vera pietà è quella di chi crede in Dio, nell’Ultimo Giorno, e negli Angeli, e nel Libro, e nei Profeti, e dà dei suoi averi, per amore di Dio, ai parenti e agli orfani e ai poveri e ai viandanti e ai mendicanti e per riscattar prigionieri, di chi compie la Preghiera e paga la Dècima, chi mantiene le proprie promesse quando le ha fatte, di chi nei dolori e nelle avversità è paziente e nei dì di strettura; questi sono i sinceri, questi i timorati di Dio!»; trad. A. Bausani, Il Corano, p. 20; cfr. A. J. Arberry, “Plato’s Testament to Aristotle”, p. 483. Per il termine birr, vedi anche infra, p. 148 n. 456.

457 Il termine šaqiyy (infelice, miserabile, ma anche scellerato, malfattore, criminale) nel Corano viene

contrapposto al termine sa῾īd (felice, beato, prospero), come in Cor. XI, 105: «Nel giorno che verrà, nessuno potrà parlare senza il Suo permesso; e fra loro vi sarà il miserabile (šaqiyy) e il beato (sa῾īd)»; in questo contesto il termine prende anche l’accezione religiosa di “dannato”; cfr. A. J. Arberry, “Plato’s Testament to Aristotle”, pp. 483-484.

458 Come segnala D. Gutas in Id., Greek Wisdom Literature in Arabic Translation, p. 359, questa sentenza

compare anche in 1.PQ, p. 132, Platone, 43.1 (Gutas traduce: «Do not make things that can leave you your possession», cfr. Ibid., Greek Wisdom Literature in Arabic Translation, p. 315); 2. M 11 (omesso in BO); e nella fonte persiana 3. Ṭūsī 14; secondo Gutas, si tratta di una forma abbreviata di una sentenza che si trova in una collezione anonima di detti presumibilmente platonici, che si trova nel manoscritto di Istanbul Aya Sofya 2822, Taqwīm al-siyāsa al-mulūkiyya (per i riferimenti al quale utilizzeremo il suo stesso studio, e che d’ora sarà in poi segnalato con T) 284 ff. 44v-45r, il quale recita (riporto la traduzione di D. Gutas): «Do not expend any of the power [faculties = quwā] of your soul whatsoever to guard a possession of yours that can leave you, lest you correct something far [i.e., extraneous to you, ba῾īd] at the expense of something near [qarīb, intrinsic], and make something proper [to you] common for all. For a possession that can leave you is constantly contesting your right to its ownership and makes itself a slave to the person whose hand is stronger than yours, whereas a power [faculty] that is proper to you is yours alone and you right to its ownership cannot be shaken». Sempre secondo Gutas, la fonte greca potrebbe trovarsi in Πυϑαγορείων γνῶμαι (per riferirsi al quale D. Gutas utilizza l’edizione di H. Chadwick, The Sentences of Sextus [Texts and Studies V], Cambridge, 1959; e che d’ora in poi segnalato con PG) 80.

459 Al-ḥakīm al-tāmm nel testo. 460 Laḏḏāt al-῾ālim nel testo. 461

Come segnala D. Gutas in Id., Greek Wisdom Literature in Arabic Translation, p. 359, questa sentenza si trova nelle seguenti fonti arabe: 1. PQ, p. 132, Platone 43.2; 2. K 64r9-11 sezione VII.iii.5, Platone; 3. M 13 = BO 216.217; e nella fonte persiana 4. Ṭūsī 16; di nuovo, la fonte greca originaria potrebbe trovarsi in PG 60;

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della morte e la riflessione sui morti.462

Riconosci l’insignificanza dell’uomo dalla moltitudine delle parole [che egli spende] in merito a ciò che non gli è utile, e dalle informazioni [che dà agli altri] in merito a ciò che non gli è stato chiesto né si vuole da lui.463 Chi pensa il male degli altri, ha già [accolto] il male dentro di lui.464 Non chiedere nulla a un malvagio, poiché così come la malvagità è in lui stesso e nella sua condotta, allo stesso modo la malvagità è nel suo dono. Pensa più volte, poi parla, poi agisci, poiché le cose sono mutevoli. Sii amorevole verso la gente, e non fare sì che la rabbia prevalga su di te abitualmente. Non rimandare il conseguimento di ciò di cui hai bisogno a domani, poiché tu non sai che cosa può capitare prima di domani. Soccorri l’afflitto a meno che non sia stato il suo stesso comportamento malvagio ad affliggerlo. Non giudicare prima di aver ascoltato i tuoi avversari. Non essere sapiente nelle parole soltanto, ma anche con le azioni, poiché la sapienza delle parole permane qui [in questo mondo], mentre la sapienza delle azioni permane nell’altro mondo. Sappi che, se ti affaticherai per la giustizia, la fatica scomparirà e la giustizia permarrà, ma se ti diletterai con l’ingiustizia, il piacere svanirà e l’ingiustizia permarrà attaccata a te. Ricorda il giorno in cui sarai chiamato, e in cui non avrai strumenti di percezione; laddove non potrai sentire né parlare, e il tuo pensiero sarà vuoto. E ricorda che sei destinato ad andare verso il luogo nel quale non incontrerai alcun amico né nemico, ma proprio là non ti mancherà nessuno. E sappi che questo è il luogo nel quale il padrone e lo schiavo sono resi uguali, perciò non essere arrogante là.465

Prepara delle provviste,

462 A. J. Arberry traduce: «Be continually mindful of death, and considerate of the death»; cfr. Ibid.

“Plato’s Testament to Aristotle, p. 481, sentenza n.17.

463 Come segnala D. Gutas in Id., Greek Wisdom Literature in Arabic Translation, p. 360, questa

sentenza si trova nelle seguenti fonti arabe: 1. PQ, p. 134, Platone 43.3; 2. Mṣr 10v, Platone 58; 3. Mḫb 17v, Platone 51; 4. K 64r11-12, sezione VII.iii.5, Platone; 5. M 15 = BO 217.3-5; e nella fonte persiana 6. Ṭūsī 18.

464 A. J. Arberry traduce: «He who meditates evil for another has thereby admitted evil into himself»; cfr.

Id., “Plato’s Testament to Aristotle, p. 482, sentenza n.19.

465

Così traduce A. J. Arberry: «Remember the day when you will be called, and you will shall not possess the instrument of sense, for there you will neither hear nor speak, and your thought will be void. And remember that you are departing to the place where you will know neither friend or enemy; so do not impute fault to any man here. And know the place where master and slave will be equal; so do not be self- conceited here»; cfr. Id., “Plato’s Testament to Aristotle, p. 482, sentenza n.28. Sulla condizione di chi si ritrova a non avere strumenti di percezione durante il Giorno del Giudizio, cfr. Cor. XVII, 97: «E colui che è guidato da Dio, egli è il ben guidato, e per coloro che Egli svia – non troverai altri protettori all’infuori di Lui, e nel Giorno della Resurrezione (Yawm al-Qiyamati) li trascineremo sui loro volti, ciechi, muti e sordi». L’intero paragrafo è in effetti un chiaro riferimento alla vita dopo la morte e

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poiché non sai quando il viaggio inizierà. Sappi che non c’è nel dono466

di Dio – sia lodato il suo nome – nulla di migliore della sapienza. Il sapiente è colui il cui pensiero, le cui parole e le cui azioni appaiono equivalenti e somiglianti. Premia il bene, perdona il male. Ricorda, memorizza e comprendi sempre la tua questione ragionandoci sopra, e non affaticarti in alcuna cosa importante di questo mondo, e non diventare mai indolente, non opporti a nessuna delle cose buone, e non impossessarti di nessuna delle cose negative al fine del possesso sensibile. Bisogna che tu non abbandoni ciò che è preferibile in favore della gioia transitoria, [ovvero] che tu abbandoni la gioia permanente.467

Ama la sapienza, ascolta i sapienti, liberati dal potere del mondo inferiore, e non privarti mai e poi mai del buon adab. Non fare nulla se non al momento appropriato, e se quando lo fai, fallo con cognizione. Bisogna che tu non ti vanti delle ricchezze, e non ti umili durante le sfortune. Che il tuo comportamento verso l’amico sia tale

richiama fortemente la descrizione coranica Giorno della Resurrezione (o del Giudizio, Yawm al-Dīni, o l’Ultimo Giorno, Yawm al-Āḫiri).

466 ῾Aṭā᾿ Allāh nel testo.

467 Al-surūr al-zā᾿il (gioia transitoria) e al-surūr al-dā᾿im (gioia permanente) sono i due termini di questa

opposizione. Traduciamo con gioia il termine surūr prendendo esempio da Mohammed Arkoun, che sceglie il termine joie, mantenendo dunque la distinzione, esistente nel testo arabo, della gioia sia dal piacere (plaisir, laḏḏa) sia dalla felicità (bonheur, sa῾āda). Nel Tahḏīb al-Aḫlāq (cap. II, § 5, p. 23 dell’ed. di M. Arkoun) il termine surūr è utilizzato, ma non viene definito, né viene tracciata una distinzione tra al-surūr al-zā᾿il e al-surūr al-dā᾿im; i tre termini , laḏḏa, surūr e sa῾āda, in ogni caso, appaiono tra loro strettamente collegati. In quest’opera Miskawayh adotta la teoria platonica della tripartizione dell’anima in razionale (nafs nāṭiqa), irascibile (nafs ġaḍabiyya) e appetitiva (nafs

šahawiyya), ed associa il piacere (laḏḏa) a quest’ultima. Tuttavia, la possibilità che esistano altri tipi di

piacere non connessi con l’anima appetitiva è lasciata aperta, e nella terza sezione dell’opera la questione viene trattata ampiamente nel contesto dell’opposizione tra due tipi di felicità, l’una connessa con il mondo terreno e dunque prettamente umana (sa῾āda insāniyya) e l’altra con il regno dello spirito, la quale è detta anche divina (sa῾āda ilāhiyya). Entrambi questi generi di felicità implicano infatti un piacere a loro proprio, ed il piacere connesso col primo tipo di felicità si differenzia dal secondo per la sua instabilità. Infatti, colui che riuscirà a raggiungere soltanto il grado più basso della felicità, quella corporea, avrà ottenuto soltanto una felicità imperfetta. Colui che invece otterrà la felicità perfetta (sa῾āda

quṣwā), «ne connaît-il jamais ni ces souffrances, ni ces regrets auxquels on n’echappe pas dans le degré

precedent [sc. il grado della felicità imperfetta]. Il est toujours joyeux d’être ce qu’il est (masrūran bi-

ḏātihi), ravi de sa condition et du flux de lumière qui lui parvient continûment de l’Être Premier. Il ne

ressent de joie que dans ces plaisirs (laḏḏāt)», cfr. Miskawayh, Tahḏīb al-Aḫlāq, ed. M. Arkoun, cap. III, § 5, p 137. Il passo appena citato, oltre a riassumere la questione, evidenzia la stretta correlazione dei tre termini, laḏḏa, surūr e sa῾āda. Oltre a ciò, possiamo osservare che l’opposizione che in questo testo ci si presenta tra al-surūr al-zā᾿il e al-surūr al-dā᾿im, per quanto, come abbiamo detto, non compaia nel

Tahḏīb, è comunque coerente con la sua trattazione etica e, più in generale, con la denigrazione del

mondo inferiore (al-dunyā) presente sia nel Tahḏīb sia nel resto della Ḥikma. Il tema del piacere viene sviluppato da Miskawayh anche in un’epistola intitolata Fī al-Laḏḏāt wa-l-Ālām (Sui piaceri e sui

dolori), edita da ῾A. Badawī, in Dirāsāt wa-nuṣūṣ fī-l-falsafa wa-l-῾ulūm ῾inda-l-῾Arab, Beirut, 1981, pp.

98-104 e da M. Arkoun, “Deux épîtres de Miskawayh”, Bullettin d’Études Orientales, 17, 1961-1962, pp. 1-9, tradotta in inglese ed analizzata da P. Adamson, “Miskawayh on Pleasures”, in Arabic Sciences and

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da non aver bisogno di un giudizio, e che quello verso il nemico sia tale per cui i giudizio trionfa.468

Non svalutare nessuno, affinché il tuo comportamento con il prossimo sia umile verso tutti, e non disprezzare nessuno per la sua umiltà.469

Non rimproverare a tuo fratello ciò che perdoni a te stesso. Non rallegrarti dell’ozio, non fare affidamento sulla fortuna e non pentirti di ciò che fai di buono. Non discutere. Imponi la giustizia in ogni tua questione, è tuo dovere attenerti alla rettitudine e importi il bene».