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3. Contesto socio-culturale

3.3. L’eredità di al-Kindī

Secondo una tradizione dossografica araba, ai tempi del profeta Davide visse in Siria il filosofo greco Anbaduqlīs (Empedocle) il quale, durante il suo soggiorno, conobbe Luqmān e ne fu allievo. Da lui, che aveva ricevuto la ḥikma direttamente da Dio, egli apprese la pre-eternità, la trascendenza e semplicità assolute di Dio, ma anche la sua Sapienza e la sua Provvidenza, la dottrina della caduta dell’anima nel mondo sensibile e del suo ritorno al mondo soprasensibile; e fu proprio grazie ad Empedocle che questo patrimonio di conoscenze venne trasmesso al mondo greco238, attraverso Pitagora, il quale a sua volta fu maestro di Socrate, che istruì Platone, eccetera.

Questa narrazione, che troviamo nelle dossografie filosofiche tradotte o composte nell’epoca araba classica239

– ad esempio in Qustā ibn Lūqā240, nell’anonimo autore della Dossografia dello pseudo-Ammonio241, Ḥunayn ibn Isḥāq242 – ha

237 A distanza di circa due secoli dall’eclissi della Šu῾ūbīyya nella parte orientale del Califfato, essa

riapparse ad Occidente, specificamente in al-Andalus, nell’XII secolo. I protagonisti, stavolta, furono i Berberi e gli “Slavi” (al-Ṣaqāliba). Ma dal momento che si tratta di un periodo storico e di un’area geografica la cui analisi in nessun modo potrebbe essere utile nel tracciare il contesto politico culturale della Persia nella quale Miskawayh produsse le sue opere, essa non verrà trattata in questa tesi.

238 Cfr. C. D’Ancona, “Le traduzioni di opere greche”, p. 218. 239

Per uno schema che sintetizzi a grandi linee la successione delle traduzioni e delle compilazioni delle dossografie nel mondo arabo-islamico a partire dall’opera di Qusṭā ibn Lūqā fino al XIV secolo, cfr. Id., “Fonti greche e dossografie arabe”, p. 326. Da questo schema emerge, in particolare, il ruolo collettore svolto dal Ṣiwān al-ḥikma.

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Secondo una notizia riportata nel Fihrist (p.254.6-8 = p. 611 Dodge) quando Qustā ibn Lūqā (820- 912), traduttore cristiano melchita di Ba῾albak, giunse a Baghdad, egli aveva con sé diversi testi da tradurre, tra i quali vi fu forse una copia dei Placita Philosophorum dello Pseudo-Plutarco, che in seguito tradusse in arabo. All’interno del Fihrist, il titolo dell’opera è Kitāb Ārā᾿ al-falāsifa fī l-umūr al-tabī῾iyyat (Libro delle opinioni dei filosofi sulle questioni naturali), mentre nei manoscritti troviamo il titolo Kitāb

Flūṭarḫus fī ārā’ al-ṭabī῾iyya allatī taqūlu bi-hā al-ḥukamā᾿ (Libro di Plutarco sulle opinioni dei dotti sulle questioni naturali); traggo le informazioni bibliografiche da C. D’Ancona “Le traduzioni delle opere

greche”, pp. 214-215; vedi anche Id., “Fonti greche e rielaborazioni arabe nelle dossografie filosofiche”, in Aspetti di letteratura gnomica nel mondo antico, vol. II, M. S. Funghi (a cura di), Firenze, 2003, pp. 305-336, in particolare pp. 308-309.

241 Composto nel contesto del «circolo di al-Kindī», il Kitāb Amūniyyus fī ārā᾿ al-falāsifa (Libro di

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chiaramente delle similitudini con il topos tardo-antico della derivazione di tutto il pensiero filosofico greco da Pitagora, istruito direttamente dagli dèi243, che ritroviamo ad esempio in Porfirio e in Giamblico. La Vita di Pitagora di Porfirio, nella quale ritroviamo questo tema nonché quello, conseguente, della contrapposizione solo apparente tra il pensiero di Platone e quello di Aristotele, circolò in effetti nel mondo arabo medievale244, dando dunque un importante spunto argomentativo alla classe dei

falāsifa che tese a difendere e legittimare la disciplina di fronte alla classe religiosa

dell’epoca.

La ḥikma di Pitagora, Socrate, Platone ed Aristotele è dunque la medesima ḥikma del coranico Luqmān; non ci si allontana dalla Verità rivelata dell’Islām perseguendola, né ci si pone con essa in concorrenza. La più famosa perorazione in favore della filosofia è contenuta nel Kitāb al-Kindī ilā al-Mut῾taṣim bi-llāh fī l-falsafa

al-ūlā (Libro di al-Kindī ad al-Mu῾taṣim bi-llāh sulla Filosofia Prima), nella quale

leggiamo: «È un obbligo di verità non denigrare chi è stato per noi una causa di benefici piccoli e di poco conto: come dobbiamo dunque comportarci verso coloro che sono stati cause maggiori di benefici grandi, veri e importanti? Se anche hanno in parte mancato di cogliere la verità, sono stati comunque i nostri affini e associati, perché ci hanno dato i frutti del loro pensiero, che per noi sono stati vie e strumenti che ci guidano a una maggiore conoscenza di ciò di cui essi stessi non hanno potuto raggiungere la verità. Ciò soprattutto perché è chiaro a noi e ai più eminenti di coloro che hanno praticato la filosofia prima di noi e non parlavano la nostra lingua che nessuno consegue la verità, in ciò che la verità esige, con il solo sforzo della sua ricerca, e neppure tutti insieme la conoscono completamente. […] Ma se si mette insieme quel poco che ciascuno di essi ha trovato della verità, si raggiungerà con ciò qualcosa di grande valore. […] Non dobbiamo perciò vergognarci di trovare bello il vero e di far nostro il vero da qualunque parte esso provenga, anche se viene da razze lontane dalla nostra e da popoli diversi245: per chi ricerca il vero, nulla viene prima del vero; il vero non è diminuito né abbassato

le eresie) di Ippolito di Roma (m. 235), come ha mostrato Ulrich Rudolph – utilizza le opinioni degli

antichi con il proposito di mostrare come i filosofi avessero intravisto la verità della creazione ex nihilo ed elaborato argomenti validi contro il dualismo; cfr. Id., “La traduzione delle opere greche”, pp. 216-217;

Id. “Fonti greche e dossografie arabe”, pp. 310-311.

242

Mi riferisco al Nawādir al-falāsifa (Aneddoti dei filosofi); vedi infra, p. 203.

243 Tema che verrà ripreso più avanti, vedi infra pp. 161-162. 244 Cfr. Id., “La filosofia della tarda antichità”, pp. 13-16. 245 Corsivo mio.

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da chi lo dice o da chi lo comunica, nessuno è svilito dal vero, ma anzi il vero nobilita tutti». Al-Kindī rimanda al mittente l’accusa di kufr (miscredenza) rivolta a tutti i filosofi da parte dei mutakallimūn del suo tempo, i mu῾taziliti; al contrario, non vi è alcuna miscredenza nell’esercizio della filosofia, poiché «la scienza delle cose nella loro verità (῾ilm al-ašyā᾿ bi-ḥaqā᾿iqi-hā) sta nella scienza della sovranità divina (῾ilm al-

rubūbiyya) e dell’unicità divina (῾ilm al-waḥdāniyya), la scienza delle virtù e la scienza

completa di tutto ciò che è utile e del cammino per ottenerlo, di tutto ciò che è cattivo e di come evitarlo. L’acquisizione di tutto ciò ci è stata portata dai veri profeti che vengono da Dio, grande la sua lode».246 Non v’è dunque disaccordo, se non dovuto alle limitate possibilità umane nel raggiungimento del Vero, tra i Profeti dell’Islām e gli antichi filosofi. Il sapere accumulato dai filosofi nel corso della storia è infatti globalmente vero e della stessa natura del sapere rivelato dal Corano – di natura, cioè, divina – per quanto ogni singolo filosofo possa esser stato esposto ad errore. Ciò che distingue i due ambiti è infatti unicamente il metodo tramite il quale l’uomo giunge alla medesima verità: «Per gli uomini che non siano profeti», infatti, «non vi è alcun modo di giungere alla scienza superiore, quella che concerne le sostanze vere seconde, ma neanche alla scienza delle sostanze prime sensibili e gli accidenti di esse, senza valersi della ricerca e dell’industria per mezzo della logica e delle scienze propedeutiche […] e senza impiegare tempo. Invece i profeti […] giungono ad essa scienza senza aver bisogno di alcuna di queste cose, ma solamente per la volontà di Dio, glorioso e altissimo, che li invia, e senza tempo che riesca a raggiungere lo scopo voluto, o altro mezzo».247

Questa idea della fondamentale concordanza tra filosofia greca – o, più estesamente, tra la sapienza degli antichi, qualunque sia la loro provenienza – e la Verità rivelata si dimostrerà essere molto duratura tra gli esponenti della falsafa delle epoche successive a quella di al-Kindī.

246 Cfr. Libro di al-Kindī ad al-Mu῾taṣim bi-llāh sulla Filosofia Prima, in Rasā᾿il al-Kindī al-falsafiyya,

ḥaqqaqa-hā wa-aḫrağa-hā ma῾a muqaddima … M. ῾A. Abū Rīda, Dār al-fikr al-῾arabī, I-II, Il Cairo, 1950- 1953, I, pp. 97.8-104.10 = R. Rashed e J. Jolivet, Œuvres philosophiques et scientifiques d’al-Kindī. II.

Métaphysique et cosmologie, Brill, Leiden – Boston – Köln, 1998, pp. 10.8-15.12. Traggo la citazione e il

riferimento bibliografico da C. D’Ancona, “Al-Kindī e la sua eredità”, in Storia della filosofia nell’Islam

medievale, vol. 1, pp. 338-341.

247

Cfr. M. Guidi e R. Walzer, Studi su al-Kindī, I. Uno scritto introduttivo allo studio di Aristotele, in

Rendiconti dell’Accademia Nazionale dei Lincei, Roma, serie VI, vol. 6, 1937-1940, pp. 409-410 (trad.

italiana) e 395.1-12 (testo arabo). Traggo la citazione e il riferimento bibliografico da C. D’Ancona, “Al- Kindī e la sua eredità”, p. 292.

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Abū l-Ḥasan al-῾Āmirī (m. 992), originario del Ḫurāsān, fu un allievo indiretto di al-Kindī: studiò infatti con Abū Zayd Aḥmad ibn Sahl al-Balḫi (850 c.a. – 934) un intellettuale persiano, noto soprattutto come geografo, che studiò a Baghdad sotto la guida di al-Kindī, e che è menzionato nel Fihrist come suo allievo. Nella sua opera principale, il Kitāb al-Amad ῾alā l-abad (Libro della permanenza per l’eternità), al- ῾Āmirī si preoccupa di legittimare la filosofia agli occhi dei suoi oppositori e soprattutto all’interno della prospettiva islamica; nelle parti chiare (muḥkam) – non ambigue (mutašābih) – del Corano, Dio esorta all’uso della ragione per comprendere il contenuto della fede; è dunque legittimo ricorrere all’uso delle argomentazioni razionali, anche traendole da autori che hanno vissuto nella Ǧāhiliyya, se questo può servire allo scopo.

Al-῾Āmirī riassume dunque le dottrine di quei filosofi che furono noti specialmente per la loro sapienza teologica (al-ḥikma al-ilāhiyya) in merito al tawḥīd e al destino dell’anima nell’aldilà (al-ma῾ād), temi fondamentali della fede, inserendoli nella narrazione che ho esposto all’inizio del capitolo, nella quale la sapienza dei filosofi antichi trova la sua origine nella rivelazione di Dio a Luqmān.

In opere successive come il Ṣiwān al-Ḥikma di al-Siǧistānī e il Kitāb al-Milal

wa-l-niḥal di al-Šahrastānī – nonché le numerose dossografie ad esse collegate, alcune

delle quali seguiranno il medesimo modello dell’Amad di al-῾Āmirī, «la partecipazione alla sapienza divina diviene un criterio classificatorio e individua i veri, grandi saggi dell’antichità pagana, quelli che hanno proclamato la verità su Dio e sul destino dell’uomo»248

: sebbene non si stia parlando di allievi diretti di al-Kindī, la sua rappresentazione della filosofia greca e, di conseguenza, della falsafa, finirà per avere una certa fortuna nel mondo arabo-islamico e può essere rintracciata alla base di queste opere.

Il Kitāb al-Ḥikma al-Ḫālida di Miskawayh, proponendosi di presentare le espressioni della sapienza nel corso della storia e in diverse parti del mondo, allo scopo di dimostrare l’unità della ḥikma di tutti i tempi e di tutti i popoli, si inserisce perfettamente all’interno di questa tradizione filosofica. Nel capitolo dedicato alla sapienza persiana, al termine della sezione dedicata ad Awšahnǧ, il Kitāb Ǧāwīdān

Ḫirad249

, si legge infatti del suo proposito di mostrare «il genio dei sapienti, i frutti dei

248 Cfr. C. D’Ancona, “Al-Kindī e la sua eredità”, p. 319. 249 Cfr. Miskawayh, Al-Ḥikma al-Ḫālida, pp. 6-22.

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loro pensieri e la loro [reciproca] conformità, a dispetto del loro essere separati nelle loro [rispettive] terre» e i «tesori nascosti dei sapienti, i segreti delle loro intenzioni».250

Le massime dei grandi personaggi fondamentali dei primi secoli dell’Islām – del Profeta Muḥammad, di ῾Alī ibn Abī Ṭālib, di al-Ḥasan al-Basrī – si mescolano quindi a quelle dei grandi sapienti arabi della Ǧāhiliyya, come Luqmān e Qus ibn Sa῾ida; vi troviamo sezioni dedicate alla sapienza del taṣawwuf e ad altre dedicate ad alcuni falāsifa come al-Fārābī e al-῾Āmirī. Vi troviamo un capitolo dedicato ai sapienti indiani; assieme a loro, Socrate, Ermete, Diogene, Tolomeo, Pitagora, Platone e Aristotele fanno la loro comparsa all’interno del testo portando testimonianza della saggezza greca; e all’imperatore sasanide Ḫusraw I Anuširwān e il suo consigliere Buzurǧmihr, a Qabāḏ (Kavad), all’alto sacerdote Aḏarbāḏ, al re Bahman e al già menzionato Awšahnǧ (Hošang), personaggi reali e leggendari dell’Antica Persia sasanide o di epoche ancora più antiche, è dedicato il primo capitolo dell’opera, che dà lo spunto – grazie al testamento di Awšahnǧ – a tutta la raccolta.

In questo modo, non soltanto la presunta incompatibilità della ḥikma dei Greci con i principi della Rivelazione viene rigettata in favore della sua legittimità dal punto di vista islamico, così come della legittimità della falsafa che in essa affonda le sue radici – in perfetta concordanza con il progetto kindiano sopra esaminato – ma anche il tema tipico della Šu῾ūbiyya persiana, ovvero il particolare accento posto sulla necessità di salvaguardare l’antica cultura della Persia pur accettando la sua islamizzazione trova quindi qui un’argomentazione favorevole, o meglio una prova: il capitolo dedicato alla sapienza persiana, l’Ḥikam al-Furs, infatti, rende chiaro come parte di quella Verità che fu conosciuta dagli esseri umani in modo definitivo solo grazie alla Rivelazione del Corano da parte di Dio, fosse già posseduta da quegli imperatori e da quei personaggi del loro seguito dell’Antica Persia che si distinsero per la loro sapienza, come appunto Anuširwān.

Non è chiaro in quale modo, in particolare, essi poterono godere di questa parte di Verità: se essi la ottennero nient’altro che grazie al loro sforzo razionale sulla via del Vero, oppure grazie ad una partecipazione a una forma di Rivelazione non definitiva251,

250 Ibid., p. 22. 251

La prima posizione è quella sostenuta da al-Kindī; è il caso infatti di far notare che, sebbene gli autori qui menzionati si propongano tutti il suo medesimo scopo, ovvero trovare una legittimazione allo studio della filosofia greca, il particolare ruolo del ricorso alla ragione nel perseguimento della verità può variare a seconda dell’autore; ecco perché argomentazioni così diverse, per non dire contrastanti – l’origine

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come può considerarsi quella di cui godettero i filosofi greci che appresero la Verità da Luqmān, oppure, nel caso degli antichi persiani, quella della religione zoroastriana, considerata da molti interpreti del Corano come una delle religioni del Libro.252 Quel che è certo è che il lettore medievale musulmano del Kitāb al-Ḥikma al-Ḫālida – a differenza del lettore moderno, consapevole della natura pseudo-epigrafica della maggior parte, se non della totalità, dei testi che lo compongono – avrà trovato in esso una concezione monoteistica di Dio molto simile a quella di derivazione coranica attribuita in modo anacronistico ai popoli della Ǧāhilīyya, nonché una concezione dell’etica, delle virtù e dell’adab comune a tutte le epoche e a tutti i popoli di cui tratta, tanto valida per il ǧāhil – colui che non ha ricevuto la Rivelazione – quanto per il

muslim; troverà che filosofi greci ed imperatori sasanidi danno voce a concetti

considerati fondamentali nella morale islamica e che sono contenuti anche nel Corano o negli aḥādīṯ.

Più avanti, commentando il testo del capitolo dell’Ḥikam al-Rūm, potrò mostrare più nel dettaglio la commistione di elementi filosofici – in particolare neo-platonici, stoici e cinici – e di elementi islamici presente all’interno di questo particolare capitolo.

rivelata del sapere filosofico da una parte; e la legittimità del ricorso alla ragione autonomo, sancita dal Corano stesso, dall’altra – possono comunque essere menzionate assieme, come conseguenze, in misura diversa, della stessa influenza kindiana.

252

Tale interpretazione si basa su Cor. XXII, 17: «Invero nel Giorno della Resurrezione (Yawm al-

Qiyāma) Dio giudicherà tra coloro che hanno creduto i Sabei (al-Ṣābi᾿īn), i Cristiani (al-Naṣārā), i Magi

(al-Mağūs) e gli associatori (allaḏīna ašrakū). Certo Dio è Testimone di ogni cosa». Riporto ora il commento di Nasr a questo versetto: «Magians translates majūs, the only instance of this word in the Quran. It likely comes from the Greek magos, which comes from the Old and Middle Persian mugh; it was originally a reference to a line of Persian priests (from which the word “magic” derive sas well as “Magi”, the three who came from the East to visit the newly born Christ, as the use of sorcery was attributed to them by the ancient Greeks). To this day, however, majūs is understood by most Muslims to be a reference to Zoroastrians in general, not just the special class of priests. Historically, there has been debate, especially among Arabs, as to whether the Zoroastrians could be considered People of the Book, and it was common for different ritual and legal matters to be judged differently; for example, many jurists forbade intermarriage with Zoroastrians but permitted the consumption of meat purchased from them, while others debated whether one could use their animals to hunt […] During Islamic history, many jurists (such as al-Shāfi῾ī) accepted Zoroastrians as People of the Book, as we also see very generally in Persia and among Muslims of the Indian subcontinent»; cfr. S. H. Nasr, The Study Quran, Harper One, New York, 2015, p. 834 n. 17.

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II

Miskawayh

1. Le fonti

In generale, è raro trovare autori, all’interno della cultura araba, che parlino di se stessi.253

Fatta eccezione per alcuni casi, l’uomo musulmano in generale e l’intellettuale musulmano in particolare, sembra sempre far valere in se stesso un certo sentimento di umiltà che lo porta a svalutare l’importanza del proprio punto di vista personale e a rimarcare piuttosto l’interesse generale e l’utilità sociale che la sua opera si propone di servire attraverso divulgazione della scienza ivi contenuta.

Miskawayh rappresenta una delle eccezioni a questa regola. Egli si fa infatti piuttosto portavoce di quella tendenza comune ai ṣūfi e ai falāsifa per la quale la conoscenza di se stessi è la condizione necessaria di tutta la vera saggezza. Per questo motivo, nel caso di questo autore ci è possibile raccogliere notizie biografiche dalle sue stesse opere.

Il Tahḏīb al-Aḫlāq254 è l’opera più importante sotto questo punto di vista. Essa, oltre a contenere alcune informazioni che permettono, ad esempio, di datarla dopo l’assunzione dell’autore al servizio di ῾Aḍud al-Dawla, può essere considerata alla stregua di un’autobiografia spirituale nella quale, attraverso la citazione dei maestri venerabili dell’antichità – che certo all’epoca di Miskawayh era un elemento indispensabile senza il quale non poteva esistere alcuna speculazione valida – l’autore persegue lo scopo di mettere in luce quanto più possibile la convergenza di opinioni sussistente tra i grandi spiriti del passato e quelli a lui contemporanei, i quali dunque possono interrogare i fatti allo stesso modo di Aristotele e Platone, per esempio. All’esperienza personale che risiede all’origine di una determinata convinzione viene dunque conferito un valore particolare; cosicché, tutte le definizioni e le analisi delle virtù e dei vizi contenute nel Tahḏīb al-Aḫlāq non devono essere considerate

253 La fonte principale per questo capitolo è il capitolo “Valeur des sources bio-bibliographiques” in M.

Arkoun, L’Humanisme Arabe au IVe-Xe Siècle, pp. 29-54. Lo stesso si dica per le fonti primarie citate in

nota, laddove non sia indicato diversamente.

254 Miskawayh, Tahḏīb al-Aḫlāq, ed. Q. Zurayk, Beirut, 1966; per la traduzione francese, Id., Traité

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unicamente come il frutto di un approccio scientifico al problema etico, ma anche come una regola ispiratrice della condotta dell’autore.

Importante è anche l’opera storica di Miskawayh, il Taǧārib al-Umam255

, scritta sul modello del Ta᾿rīḫ di Ṭabarī ma originale rispetto a quest’ultima soprattutto nel resoconto che parte dal regno di Muqtadir (918). Infatti, la seconda parte dell’opera (Tomo II), dove vengono registrati fatti di cui Miskawayh è stato testimone diretto nel ruolo privilegiato di intellettuale di corte, rivela in modo molto chiaro le grandi qualità di Miskawayh come storico e come fine osservatore esperto nelle pratiche di governo. Miskawayh, infatti, è considerato il primo storiografo di lingua araba ad aver introdotto l’utilizzo delle fonti ufficiali di governo, e nella sua opera egli dimostra un grande interesse per gli aspetti di politica fiscale, ciò che ha fatto sì che si ipotizzasse che egli svolgesse anche il ruolo di “ufficiale finanziario”.256

Oltre a ciò, è possibile anche trarre da quest’opera alcuni importanti dettagli