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A chi appartiene la realtà? Femminismo, fantascienza e decostruzione delle categorie identitarie

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Academic year: 2021

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Being women together was not enough. We were different. Being gay-girls together was not enough. We were different. Being Black together was not enough. We were different. Being Black women together was not enough. We were different. Being Black dykes together was not enough. We were different… It was a while before we came to realize that our place was the very house of difference rather than the security of any one particular difference.

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Indice

I

NTRODUZIONE 1

1

L

A FANTASCIENZA FEMMINISTA 8

1.1 La Science Fiction 9

1.1.1 La (controversa) questione delle origini 10

1.1.2 Una letteratura di rivolta 13

1.2 Sorelle della rivoluzione 18

1.2.1 Le prime visionarie 21

1.2.2 Galactic Suburbia 23

1.2.3 La marea femminista 25

1.2.4 Soggetti alieni 27

2

U

NA QUESTIONE DI CATEGORIE 29

2.1 Alle origini del genere 30

2.2 Oltre il genere 38

2.3 Oltre il sesso 45

2.4 Oltre la differenza 51

2.5 Il Queer e la deontologizzazione delle categorie 54

3

U

NA QUESTIONE DI IMMAGINAZIONE 57

3.1 Il micropotere di una cultura 58

3.1.1 Il dispositivo di categorizzazione 60

3.1.2 «Who owns reality?» 65

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4

A

CHI APPARTIENE LA REALTÀ

?

77

4.1 The Left Hand of Darkness di Ursula K. Le Guin 77

4.1.1 «Truth is a matter of the imagination» 81

4.1.1.1 «The perfect uselessness of knowing the answer to the wrong question» 82

4.1.2 «A safe trip into androgyny and back» 87

4.1.2.1 «He means he, no more, no less» 88

4.1.2.2 «Women are more alien to me than you are» 90

4.1.2.3 «The king was pregnant» 97

4.1.3 «Call me by my name» 102

4.2 Le Silence de la Cité di Élisabeth Vonarburg 106

4.2.1 «N’importe quel corps» 111

4.2.1.1 «Ils croient qu’ils sont de vraies personnes» 113

4.2.1.2 «Les conséquences réelles du mythe» 118

4.2.2 «Qui donc détient la vérité?» 122

4.2.2.1 «Jamais fini de se mettre au monde» 123

4.2.2.2 «Ni homme, ni femme, mais ce qu’on veut» 127

C

ONCLUSIONI 134

(4)

Preliminare ammissione di colpa

L’uso del neutro maschile in queste pagine è per me profondamente problematico. Questa tesi parte dal presupposto che il linguaggio non sia solo un’istituzione sociale o uno strumento di comunicazione, ma anche un elemento centrale nella costruzione delle identità, individuali e collettive. La lingua italiana è una lingua sessuata, che già dalla sua grammatica riproduce e istituisce un rigido binarismo di genere e una specifica gerarchia, in cui predomina il maschile, presentato come universale e neutro. Ma il neutro maschile non è mai neutro: esso è un riflesso linguistico-culturale di un sistema caratterizzato dalla disparità dei generi, dall’egemonia del maschile e dal suo primato ontologico sul femminile. Per questo, anche riconoscendo che la mia, più che una scelta, sia una costrizione dettata da questioni di leggibilità e correttezza grammaticale, non posso evitare di viverla come una sconfitta personale e politica.

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1

Introduzione

Sono passati esattamente settant’anni dalla famosa affermazione di Simone De Beauvoir, secondo cui «on ne naît pas femme: on le devient» (De Beauvoir, 1949, p. 13): in questi settant’anni le teorie femministe, da entrambi i lati dell’Atlantico, hanno elaborato potenti critiche del modo in cui si costruiscono i significati culturalmente associati ai due sessi, e dei rapporti di potere che questi significati producono. Per farlo, alcune femministe statunitensi hanno adottato, a partire dagli anni Settanta, il termine genere per indicare la sfera degli aspetti culturali e sociali legati alla differenza sessuale. Negli stessi anni, il femminismo materialista francese ha insistito sul fatto che fosse il genere a costruire la categoria stessa del sesso, realtà anatomica di per sé muta e non necessariamente binaria. Monique Wittig (1980a), in particolare, ha sottolineato come sia «la pensée straight»1 a dare un senso ai concetti di “maschio” e “femmina”, i quali non esisterebbero al di fuori di una reciproca relazione binaria. Come la categoria di “razza”, anche quella di sesso si fonda su una classificazione arbitraria: la differenza che si vorrebbe insita nel corpo, è solo la giustificazione di un’ideologia che legittima un rapporto di forza.

Questa tesi affonda le sue radici nella riflessione e nella pratica femminista che ha sognato e continua a sognare un mondo utopico senza generi, «in which one’s sexual anatomy is irrelevant to who one is, what one does, and with whom one makes love» (Rubin, 1975, p. 204). Un’utopia resa necessaria dal carattere “totalitario” della categoria di sesso, che «grips our minds in such a way that we cannot think outside of it» (Wittig, 1982, p. 68). Per poter cominciare a “pensare fuori di essa” la riflessione femminista deve occupare una posizione eccentrica – come l’ha definita Teresa De Lauretis (De Lauretis, 1999, p. 29) – che sia critica e distanziata rispetto all’ideologia del genere; una posizione da cui provare a creare nuovi spazi di discorso, a riscrivere le narrazioni culturali e a definire i termini di un’altra prospettiva: «a view from "elsewhere"» (De Lauretis, 1987, p. 25). Non è un caso, allora, che una delle modalità narrative privilegiate dalle femministe del passato e del presente sia la

1 In The straight mind, pubblicato per la prima volta in inglese nel 1978, Wittig insiste sul fatto che

l’eterosessualità, considerata un fatto di natura, debba invece essere riconosciuta come un sistema politico.

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2

fantascienza. In essa hanno trovato l’altrove per ripensare l’esistente con radicalità visionaria, dando vita a romanzi che permettono di comprendere l’oppressione e immaginare la resistenza oltre i limiti posti dallo stesso discorso femminista. Riconoscendo la convergenza quasi obbligatoria tra il pensiero femminista e l’immaginazione fantascientifica, il progetto di questa tesi nasce con l’obiettivo di proporre strumenti nuovi con i quali indagare le potenzialità politiche e rivoluzionarie di un genere letterario che, partendo da una solida tradizione maschilista, è stato irreversibilmente contaminato dall’ondata femminista degli anni Settanta.

Nel primo capitolo ripercorrerò brevemente la storia del genere fantascientifico, mettendo in evidenza come il suo statuto debole dal punto di vista del canone letterario (con il suo smarcarsi da definizioni univoche e universalmente valide) ne abbia fatto uno spazio di libertà da cui le scrittrici femministe hanno potuto prendere parola. In questo capitolo, la storia della fantascienza canonica lascia spazio alla ricostruzione della sua herstory2, seguendo una storiografia che rintraccia le connessioni storiche tra teoria femminista e fantascienza già in quella che può essere considerata la protostoria di entrambi i termini. Diverse studiose – tra cui Gwyneth Jones e Jane Donawerth – individuano la genesi della fantascienza femminista nel 1666, con la pubblicazione del romanzo utopico di Margaret Cavendish The Description of a New World, Called the Blazing-World. Sara LeFanu, in uno dei primi studi critici dettagliati sulla fantascienza femminista (LeFanu, 1988) sostiene che essa ha doppie radici: da un lato nella tradizione letteraria del gotico femminile (e non solo nel Frankenstein di Mary Shelley, al quale tradizionalmente si fa risalire la nascita del genere fantascientifico), dall’altro nella scrittura utopica femminista della fine del XIX secolo. Vedremo come ognuna di quelle che posso essere considerate a pieno titolo le prime progenitrici del genere rispondesse alle condizioni scientifiche, sociali e politiche della propria realtà e fosse influenzata dalle riflessioni femministe sollevate dal proprio tempo e alle proprie latitudini. A partire da quella che viene definita la “seconda ondata femminsta”3, questioni di sessualità e di genere diventeranno fuori e dentro la fantascienza

2 Herstory è un neologismo coniato dal femminismo anglosassone per proporre una visione della

storia che prenda in considerazione il ruolo delle donne, in contrapposizione alla storiografia convenzionale che riflette tradizionalmente un punto di vista maschile (“his-story”).

3 La storia dei movimenti femministi occidentali viene suddivisa in fasi, dette "ondate": la prima

ondata è quella della fine dell’Ottocento e inizio Novecento, caratterizzata dalle lotte per l’uguaglianza legale (in particolare per il diritto al voto e alla proprietà privata); la seconda ondata

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3

sempre di più un punto di partenza per mettere in discussione la soggettività, le relazioni di potere e la rappresentazione dell’alterità. Un numero sempre maggiore di scrittrici – come Joanna Russ, Marge Piercy, Octavia Butler – sceglieranno la fantascienza per distanziarsi dalle norme costrittive del proprio mondo e sperimentare realtà radicalmente altre, ribadendo la necessità di mettere in discussione ciò che appare come “naturale”, prime fra tutte le categorie culturali di uomo e donna.

Le riflessioni femministe che hanno ispirato questi mondi visionari verranno approfondite nel secondo capitolo ripercorrendo la storia di un pensiero che, dal femminismo radicale degli anni Settanta allo xenofemminismo contemporaneo, ha offerto una critica potente del modo in cui le relazioni sociali e le strutture di potere esistenti continuano a marginalizzare le donne e le soggettività non conformi. Il filo rosso che lega le proposte politiche e teoriche esposte in questo capitolo – dal sogno di una società senza generi di Gayle Rubin e Wittig, alla metafora della soggettività cyborg di Donna Haraway, dalla performatività di genere di Judith Butler, alla contrasessualità di Paul Preciado – è l’esigenza di mettere in discussione prima di tutto il meccanismo stesso di produzione delle identità “normali” e la costruzione delle categorie che la sostengono. La problematizzazione della concezione ontologico-essenzialistica delle identità è alla base delle complesse e molteplici produzioni teoriche alle quali si fa riferimento con la comune denominazione di queer theory, di cui i testi di Butler e Preciado sono considerati alcuni dei capisaldi. Nonostante storicamente la stragrande maggioranza degli studi e dei contributi che si collocano in ambito queer abbiano riguardato l’identità sessuale e di genere, alla fine di questo capitolo si propone – come fanno Carmen Dell’Aversano e altre prima di lei – una generalizzazione dell’approccio queer «a una messa in questione di tutte le identità e delle loro rappresentazioni, a un critica di tutte le forme di normatività e, in ultima analisi, a una deontologizzazione delle costruzioni sociali che sono alla base del funzionamento di qualunque cultura»

(1960-1980) prende avvio negli Stati Uniti, ampliando il dibattito per includervi anche le disuguaglianze culturali e il ruolo di genere delle donne all'interno della società; la terza ondata femminista (1990-2000) viene generalmente intesa come una continuazione della seconda e una risposta alla percezione dei suoi fallimenti, con una profonda messa in questione della visione essenzialista della differenza sessuale. Dalla nascita del movimento Ni Una Menos che ha preso avvio in Argentina nel 2015 e si è diffuso in pochi anni in tutto il mondo, possiamo dire che siamo nel pieno della quarta ondata di femminismo: un femminismo intersezionale, antirazzista, antifascista, anticapitalista, che mira alla trasformazione radicale della società a partire dalla lotta contro la violenza maschile e di genere e contro le gerarchie sociali.

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(Dell'Aversano, 2017, p. 50). A fondamento teorico di questa metodologia di indagine Dell’Aversano cita il lavoro illuminante di Harvey Sacks (1935-1975) che, mentre fondava la branca della sociolinguistica pragmatica attualmente nota come analisi della conversazione, gettava anche le basi per un’analisi sistematica delle categorie sociali, a cui negli ultimi anni viene fatto riferimento con il nome di Membership Categorization Analysis. Nelle sue Lectures on Conversation (1992) – la trascrizione di tutte le sue lezioni conservate – Sacks ci svela i meccanismi attraverso cui le categorizzazioni identitarie determinano il destino dei membri di una società, facendo luce sulle importanti conseguenze di quello che definisce «the fine power of a culture» (Sacks, 1992, p. 245): le norme culturali inscritte nelle categorie attraverso cui veniamo definiti non solo rendono spiegabili e prevedibili gli eventi, ma hanno anche l'effetto di indirizzare la nostra interpretazione di essi in modo da limitarne le ambiguità e confermarne la “normalità”. Le informazioni veicolate dalle categorie sociali, quindi, non hanno semplicemente la funzione di spiegare la realtà, ma ne condizionano in modo decisivo la percezione stessa. Immaginate una donna adulta che dà un bacio a una bambina che piange: la “realtà” di questa scena sarà verosimilmente quella di un genitore che cerca di consolare sua figlia; allo stesso modo, la “realtà” di un uomo nordafricano seduto in un vicolo di una città italiana sarà verosimilmente quella di uno spacciatore che aspetta i suoi clienti4. Provate a invertire i protagonisti di queste due brevi storie e avrete delle “realtà” completamente diverse. L’effetto magico di questo meccanismo nasconde evidentemente un trucco: i membri di una società non lo sono tutti allo stesso titolo e le categorie usate per definirli prescrivono il diritto (o dovere) di compiere o meno delle azioni, con il risultato che – come dice Sacks – «what dominant groups basically own is how it is that persons perceive reality» (Sacks, 1992, p. 398). Il terzo capitolo esplora i preziosi concetti elaborati da Sacks principalmente per due motivi. Prima di tutto, la sua analisi sistematica del funzionamento delle categorie sociali ha il potere di illuminare in modi sorprendenti le teorie femministe e queer approfondite nel secondo capitolo: mostrando il carattere ricattatorio delle categorie che ci definiscono, Sacks – con parole diverse, ma allo stesso modo del femminismo – ci invita a cercare nella sovversione del funzionamento di quelle categorie la via d’accesso alla trasformazione sociale. Secondo il sociologo statunitense, nella lotta al pregiudizio, molto più che la singola affermazione

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sessista, razzista o omofoba, è necessario combattere prima di tutto la procedura attraverso cui si fa risalire la spiegazione di un evento (un comportamento, un’affermazione, un gusto…) a un’identità. Le due scene citate prima, quella della “mamma” e dello “spacciatore”, sono esempi tanto semplificatori quanto lampanti di questo meccanismo: in termini sacksiani, diremo che nella nostra cultura “prendersi cura dei figli” e “commettere azioni illegali” sono “category-bound activities”, vale a dire attività legate a una categoria, in questo caso rispettivamente quella di “donna” e quella di “immigrato”. Il valore identificativo delle “category-bound activities” è tale da rendere «large class of activities immediately understandable, needing no further explanation» (Sacks, 1992, p. 337): l’associazione di una attività category-bound alla categoria a cui è culturalmente legata ha il potere, come abbiamo visto, di creare descrizioni intrinsecamente verosimili, che non sono (direbbe Sacks) accountable – delle quali, cioè, non è possibile chiedere spiegazioni. Vi è mai venuto in mente di chiedere a una donna perché ha figli, o a uomo perché indossa i pantaloni?

Se le brillanti intuizioni di Sacks offrono termini e concetti nuovi per descrivere le costruzioni culturali denunciate in tempi e modi diversi da tutta la riflessione femminista, allo stesso tempo sono anche estremamente utili ad esplorare le potenzialità sovversive della fantascienza, un genere letterario il cui linguaggio può modificare «how it is that persons perceive reality». La seconda parte del terzo capitolo è dedicata alla teoria letteraria fantascientifica, e in particolare alle formulazioni dello scrittore e teorico della fantascienza Samuel Delany, che negli anni Settanta ha dato nuova vita alla critica del genere, spostando l’attenzione sul modo particolare del testo fantascientifico di usare le parole. Secondo Delany, ciò che distingue la fantascienza da altri modi narrativi è il modo in cui la sequenza di parole che costruisce una storia acquista significato nella mente del lettore. Per spiegarlo, Delany fa un semplicissimo esempio, invitandoci ad esaminare cosa accade quando ci troviamo davanti al sintagma “cane alato”: in un racconto realista questa giustapposizione di parole sarebbe priva di significato, poiché la correzione mentale che avviene passando dalla parola “cane” alla parola “alato” è fuori dai confini accettabili; in un fantasy, invece, sarebbe accettabile, ma implicherebbe solo una correzione visiva; in un racconto di fantascienza, una volta compiuta la correzione visiva, siamo portati a considerare come è possibile l’esistenza di un cane alato, prendendo in considerazione ad esempio tutte le

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implicazioni di una tecnologia capace di tale operazione. La particolare libertà verbale della fantascienza, insieme al processo di correzione che esplora i confini degli universi fisicamente (e socialmente, culturalmente, antropologicamente…) spiegabili, fa sì che le sue parole non solo ci trasportino «worlds away», ma spieghino anche «how we got there» (Delany, 2009, p. 12). Seguendo l’incisiva formulazione di Delany, possiamo dire che il linguaggio fantascientifico non solo ci chiede di, ma ci obbliga a, interrogarci sui criteri di spiegazione della realtà, rendendoli così osservabili e accountable – come direbbe Sacks. Allo stesso tempo – sottolinea Delany – ciò che è significativo delle immagini mentali evocate dal testo fantascientifico non è in che modo sono simili alle immagini familiari della realtà extratestuale, ma in che modo differiscono da esse. Il linguaggio fantascientifico ci parla attraverso significanti che sono sempre «something more than and different from» (Delany, 2009, p. 144) i significanti attraverso cui descriviamo la realtà: in questo modo, ha il potere di destabilizzare, ristrutturare ed espandere la rete di significati che a quei significanti associamo. È evidente, allora, perché la fantascienza possa essere considerata (e abbia dimostrato di essere) uno strumento prezioso per mettere in pratica e abituare il pensiero a quella sovversione delle categorie identitarie individuata, tanto da Sacks che dal femminismo, come punto di partenza per la decostruzione (e ri-costruzione) della realtà. Nel quarto e ultimo capitolo, le formulazioni di Delany e i concetti e i termini di Sacks serviranno a indagare il funzionamento delle categorie di sesso, genere e identità nell’universo testuale di due dei romanzi più rappresentativi del canone fantascientifico femminista: The Left Hand of Darkness (1969) di Ursula K. Le Guin e Le Silence de la Cité (1981) di Élisabeth Vonarburg. In entrambi i romanzi il linguaggio fantascientifico è usato per creare personaggi il cui corpo senza un sesso fisso differisce tanto da quello maschile che da quello femminile, costringendoci a riflettere sulla nostra comprensione del corpo sessuato e sui modi in cui questo viene letto e regolato nella realtà sociale. Le Guin immagina un pianeta ai confini della galassia abitato da esseri umani dalla fisiologia sessuale molto particolare: i getheniani, ermafroditi neutri per la maggior parte del tempo, esprimono desiderio e caratteri sessuali (ormoni e genitali maschili o femminili) solo nel periodo di fertilità che dura circa tre giorni al mese. Nessun individuo ha alcuna predisposizione naturale verso uno dei due sessi: su Gethen non si nasce e non si resta mai donna, ma lo si diventa presumibilmente almeno una volta nella vita, e lo stesso individuo può essere

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madre di alcuni figli e padre di altri. Vonarburg, invece, sceglie un’ambientazione post-apocalittica che sembra una fotografia fin troppo verosimile del nostro futuro prossimo: «sur le territoire qui etait autrefois l’Europe», l’umanità sopravvissuta è divisa tra l’élite di privilegiati, che si è rifugiata in città completamente tecnologizzate e isolate dall’esterno, e il resto della popolazione, che vive in comunità formate principalmente da donne (una mutazione genetica determina la nascita di un solo maschio ogni quattro femmine) e controllate unicamente dagli uomini. È in una delle Cité che nasce e cresce Elisa, miracolo dell’ingegneria genetica: dotata di una capacità autorigenerativa straordinaria, Elisa scoprirà anche di poter controllare il suo corpo al punto da poterlo modificare a suo piacimento. Potendo fare esperienza di entrambi i sessi, Elisa rappresenta per le donne fuori dalla Cité la speranza di un futuro più egualitario, in cui nessuno sia obbligato ad essere uomo o donna, ma possa essere ciò che desidera. I getheniani di Le Guin e i protagonisti cyborg di Vonarburg non possono essere definiti dalle categorie che nella nostra cultura dividono l’umanità in due metà, associando all’una e all’altra comportamenti, personalità, caratteri diversi e incompatibili. Per poter essere pensati, questi corpi che destabilizzano la logica binaria dei sessi richiedono una rinegoziazione dei significati che al corpo sessuato associamo. L’analisi dei due romanzi metterà in luce i modi in cui le nuove reti di significati evocate nel processo della loro lettura ci aiutano a decostruire le implicazioni e le conseguenze della modellizzazione di sesso e genere nel senso comune, ma anche a ripensare radicalmente il concetto stesso di identità. Immaginare un corpo capace di continua metamorfosi ci obbliga a interrompere una volta per tutte quella che Madhavi Menon definisce «the hegemonic line that get drawn from the soma to identity» (Menon, 2015), che più che verità biologiche serve a confermare gerarchie e relazioni di potere. Come scrive Christine Delphy, «ce que seraient les valeurs, les traits de personnalité des individus, la culture d'une société non hiérarchique, nous ne le savons pas; et nous avons du mal à l'imaginer», ma per immaginarli – continua Delphy – «il faut déjà penser que c’est possible» (Delphy, 2007, pp. 259-260). Ciò che ci chiede il femminismo, trova la sua realizzazione immediata nella premessa stessa della fantascienza: rifiutare l’inevitabilità della realtà per immaginare come potrebbe essere possibile ciò che non è o non è ancora.

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Capitolo primo

La fantascienza femminista

Truth is a matter of the imagination Ursula K. Le Guin

Nel suo saggio The Image of Women in Science Fiction, pubblicato per la prima volta nel 1970, Joanna Russ scriveva:

One would think science fiction the perfect literary mode in which to explore (and explode) our assumptions about ‘innate’ values and ‘natural’ social arrangements, in short our ideas about Human Nature, Which Never Changes. Some of this has been done. But speculation about the innate personality differences between men and women, about family structure, about sex, in short about gender roles, does not exist at all. (Russ, 2007, p. 206)

Se a cinquant’anni di distanza possiamo dire che la considerazione di Russ non è più valida è perché la fantascienza è cambiata grazie al lavoro di molte scrittrici – tra cui la stessa Russ – che hanno portato le riflessioni femministe dentro un genere con una solida tradizione maschile (nonché maschilista). A cinquant’anni di distanza dall’affermazione di Russ, la fantascienza ha dimostrato ampiamente di essere “the perfect literary mode” per la loro espressione.

Descrivere il connubio tra fantascienza e pensiero femminista che ha dato vita a quella che oggi chiamiamo inequivocabilmente fantascienza femminista non è un’impresa semplice. Virginia Woolf, posta davanti al problema di dover discutere «about women and fiction», considera prima di tutto le implicazioni e le variazioni dei due termini: da questa riflessione verranno fuori le acute idee di A Room of One’s Own, ma il grande problema «of the true nature of woman and the true nature of fiction» resterà «unsolved» (Woolf, 1929). Prendendo ispirazione da Woolf, proverò a riflettere sui due termini e sulle loro implicazioni, tenendo ben presente l’impossibilità di risolvere il problema della vera natura della fantascienza e della vera natura del femminismo: se, da una parte, la fantascienza è

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un genere che si è sempre smarcato da definizioni univoche ed universalmente valide, anche la storia del movimento femminista insegna che non è possibile parlare di un’unica posizione o di un unico approccio – e per questo ci invita a parlare di femminismi.

Nel tentativo di circoscrivere il campo della fantascienza (un genere le cui origini e definizioni continuano a ispirare dibattiti) proverò a mettere in evidenza non tanto ciò che il genere è, quanto ciò che permette di fare. È proprio nelle potenzialità di questa forma letteraria, infatti, che risiede il suo terreno d’incontro con le politiche femministe, che hanno esplorato i territori della fantascienza facendone campo di indagine e strumento politico.

1.1 La science fiction

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Un chiaro segnale della complessità di descrivere la SF in quanto categoria generica è il fatto che la critica ha sempre dedicato un’attenzione considerevole al problema della sua definizione. In apertura alla sua panoramica sulla storia critica del genere fantascientifico, Istvan Csicsery-Ronay Jr. scrive:

No popular genre of fiction has generated as much, and as diverse, critical commentary as science fiction […] since it is in the nature of SF’s oxymoronic fusion of the rational and the marvelous to challenge received notions of reality – sometimes seriously, sometimes playfully – critical provocation is part of SF’s generic identity. (Csicsery-Ronay Jr., 2005, p. 43)

Anche Carl Freedman apre la sua riflessione con la stessa affermazione di discordanza: no definitional consensus exists: there are narrow and broad definitions, eulogistic and dyslogistic definitions, definitions that position science fiction in a variety of ways with regard to its customary generic Others (notably fantasy, on the one hand, and “mainstream” or realistic fiction on the other) and, finally, antidefinitions that proclaim the problem of definition to be insoluble. (Freedman, 2000, p. 13)

5 La scelta del termine inglese è dovuta alla centralità del mondo anglosassone nella letteratura e

nella critica fantascientifica. Per lo stesso motivo, vengono utilizzate le abbreviazioni SF (science

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10 E aggiunge:

not only the question of definition proper but even the looser matter of description – of deciding, even in the most rough-and-ready way, approximately which texts are to be designated by the rubric of science fiction – is a matter of widespread disagreement. (Freedman, 2000, p. 13)

Fra la critica non vi è mai stata unanimità né sulle origini storiche del genere – che alcuni fanno risalire al Frankenstein di Mary Shelley, altri ascrivono al fenomeno americano fiorito dai magazine pulp degli anni Venti – né tantomeno sulla sua natura: tutt’ora “science fiction” resta un termine complesso e fluido, sotto la cui etichetta hanno trovato riparo sia classici della letteratura universale che opere senza pretese destinate al consumo di massa. Anche per questo, infatti, diversi tentativi di definizione si sono concentrati sullo sforzo di legittimare la fantascienza come genere “rispettabile”. Non è un caso che molti scrittori abbiano preferito l’etichetta speculative fiction6: spostando l’attenzione dalla scienza in sé alla dimensione filosofica e speculativa, gli avanguardisti della fantascienza elevano le loro storie “serie” e plausibili al di sopra di ciò che considerano, come direbbe Margaret Atwood, narrativa-spazzatura su «talking squids in outer space» (Mancuso, 2016).

1.1.1 La (controversa) questione delle origini

All’interno della questione delle origini del genere è necessario identificare e delimitare due diverse tradizioni: una storia breve della fantascienza e una storia lunga, corrispondenti a due concezioni diverse del genere che Carl Freedman definisce rispettivamente “narrow” e “broad” (Freedman, 2000, p. 13). La ricostruzione breve e «extremely narrow» (Freedman, 2000, p. 14) vede la conquista dell’identità sociale del genere nel fenomeno dei magazine pulp americani, fiorito nelle prime decadi del XX secolo, e accetta l’etichetta di SF solo per le opere che ne discendono. Questa tradizione pone la data di nascita del genere nel 1926, anno in cui Hugo Gernsback fonda Amazing Stories, la prima rivista di lingua inglese interamente dedicata alla SF. Oltre ad aver consacrato la sua rivista alle storie di vocazione scientifica, avveniristica e spaziale, Gernsback è anche il primo a tentare di definire il genere

6 Speculative fiction viene usato come termine ombrello per diversi generi non realistici, di cui la science

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che nel 1929 battezzerà “science fiction”. Nell’editoriale del primo numero descrive così le storie che intende pubblicare: «By “scientifiction” I mean the Jules Verne, H.G. Wells and Edgar Allan Poe type of story – a charming romance intermingled with scientific fact and prophetic vision» (James in Parrinder, 2000, p. 22). Citando e ripubblicando questi autori, Gernsback ne fa scrittori di SF a posteriori, inventando una tradizione per supportare le sue ambizioni. Nella sua visione la SF ha il preciso scopo di educare sulle possibilità della scienza e aprire la mente a una più ampia comprensione del mondo:

Not only is science fiction an idea of tremendous import, but it is to be an important factor in making the world a better place to live in, through educating the public to the possibilities of science on life which, even today, are not appreciated by the man on the street… If every man, woman, boy and girl, could be induced to read science fiction right along, there would certainly be a great resulting benefit to the community, in that the educational standards of its people would be raised tremendously. Science fiction would make people happier, give them a broader understanding of the world, make them more tolerant. (James in Parrinder, 2000, p. 22)

Nonostante i buoni propositi, molti contributi dei primi magazine non verranno da esperti della speculazione scientifica ma da esperti scrittori di pulp fiction, «adaptable professionals willing to supply the new market with variations on what they had been writing for detective, western or general adventure magazines» (Attebery, 2003, p. 35). Il risultato sarà misto: da un lato storie superficiali traslate dai vecchi generi alla neonata space opera, dall’altro audaci sperimentazioni ad opera di autori come Stanley Weinbaum e C. L. Moore, che nelle pagine dei pulp magazines trovano occasione di esplorare «truly ‘amazing’ situations and unconventional scenarios» (Attebery, 2003, p. 35). La maggioranza della critica preferisce comunque considerare la tradizione pulp solo una delle filiazioni della SF anglo-americana, e sostiene un utilizzo del termine in un senso più ampio di quello che la mera correttezza filologica alla base della “storia breve” della SF permetterebbe.

All’altro estremo delle possibili visioni sulla nascita della SF c’è quella che Freedman definisce «a construction of science fiction as broad as the pulp-centered construction is narrow» (Freedman, 2000, p. 15), e che include nel genere tanto l’intera tradizione della letteratura di viaggio non-realistica, da Luciano a Rabelais e Cyrano, quanto la tradizione

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dell’utopia classica da More in avanti, fino ad abbracciare il Paradise Lost di Milton o addirittura la Repubblica di Platone e la Commedia dantesca (Aldiss, 1986; Suvin, 1979). A metà tra queste due visioni ce n’è una terza, tanto screditata al momento della sua elaborazione quanto riproposta nel presente. Nel 1973 Brian Aldiss, figura cruciale della SF inglese, nel suo Billion Year Spree: The History of Science Fiction (rivisto e ampliato nel 1986 con David Wingrove in Trillion Year Spree) sostiene che la SF sia il frutto dell’intersezione tra il romanzo gotico, la rivoluzione darwiniana e quella industriale, che Mary Wollstonecraft Shelley sia la prima vera scrittrice di SF e che il suo Frankenstein; or the Modern Prometheus (1818) sia il testo fondante del genere. Al momento della pubblicazione, come scrive lo stesso Aldiss nella prefazione all’edizione del 1986, «both the thesis that Frankenstein marked a beginning and that SF was a Gothic offshoot were so unacceptable» (Aldiss, 1986, p. 21) ma il suo mito delle origini si è rivelato negli anni il più fortunato. Di certo la sua enunciazione è la più suggestiva:

In her Introduction to the 1831 edition Mary reveals that her story, like The Castle of Otranto, began with a dream, those signals from our inner selves. In her dream, she saw 'the hideous phantasm of a man stretched out, and then, on the working of some powerful engine, show signs of life, and stir with an uneasy, half vital motion.' It was science fiction itself that stirred. (Aldiss, 1986, pp. 52-53)

Secondo Aldiss la SF emerge nel clima culturale dell’inizio del XIX secolo, quando la coscienza occidentale attraversa un cambiamento rivoluzionario, contaminata dalle trasformazioni innovative, e spesso alienanti, che accompagnano la rivoluzione industriale, e da una nuova comprensione più dinamica del mondo naturale – «once regarded as a static stage for a theological drama» (Aldiss, 1986, p. 18) – che porterà alla teoria evoluzionistica di Darwin. La visione positiva e positivistica comune ad alcuni lavori tardo-illuministi si metamorfizza presto nella sua cupa controparte: il romanzo di Shelley, spostando l’origine del terrore dal soprannaturale allo scientifico, esemplifica il rifiuto romantico della fiducia del secolo precedente nello scienziato come eroe e nella tecnologia come intrinsecamente positiva. Frankenstein esprime le paure di una generazione colta in un improvviso cambio di paradigma tra tradizione e modernità:

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Frankenstein's is the Faustian dream of unlimited power, but Frankenstein makes no pacts with the devil. 'The devil' belongs to a relegated system of belief. Frankenstein's ambitions bear fruit only when he throws away his old reference books from a pre-scientific age and gets down to some research in the laboratory. This is now accepted practice, of course. But what is now accepted practice was, in 1818, a startling perception, a small revolution. The novel dramatizes the difference between the old age and the new, between an age when things went by rote and one where everything was suddenly called into question. (Aldiss, 1986, p. 49)

I due temi principali del romanzo, la hybris del dottor Frankenstein nella creazione della vita artificiale e la parabola del destino della Creatura, avranno in seguito variazioni infinite, dando vita al topos dello scienziato pazzo e a tutte le creature “altre” – alieni, androidi, robot – della fantascienza. Combinando la critica sociale con le nuove idee scientifiche, Mary Shelley anticipa i metodi di H. G. Wells (indicato spesso come padre del genere); e, come verrà approfondito nei prossimi paragrafi, la tradizione gotica femminile riecheggia anche nella fantascienza delle donne che arriva fino ai nostri giorni.

1.1.2 Una letteratura di rivolta

Tra i numerosi tentativi di individuare un principio di definizione analitico, il più proficuo è stato quello di Darko Suvin, capace di portare alla luce quella particolare tensione tra il noto e l’ignoto che è il cuore della narrazione fantascientifica. Nel suo rivoluzionario Metamorphoses of Science Fiction: On the Poetics and History of a Literary Genre (1979), Suvin definisce la SF «literature of cognitive estrangement» (Suvin, 1979, p. 4):

SF is then a literary genre whose necessary and sufficient conditions are the presence and interaction of estrangement and cognition, and whose main formal device is an imaginative framework alternative to the author’s empirical environment. (Suvin, 1979, pp. 7-8)

Il concetto di “estrangement” – che Suvin elabora ispirandosi al concetto di ostranenie dei formalisti russi e a quello brechtiano di Verfremdungseffekt – si riferisce alla creazione di un mondo narrativo alternativo che, differenziandosi significativamente dal mondo empirico dell’autore, induce un’interrogazione critica su di esso, producendo «a shocking and

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distancing mirror above the all too familiar reality» (Suvin, 1979, p. 54). Il carattere critico di questa messa in discussione è garantito dall’operazione definita da Suvin cognition o cognitiveness, che implica «not only a reflecting of but also on reality (…), a creative approach tending toward a dynamic transformation rather than toward a static mirroring of the author’s environment» (Suvin, 1979, p. 10). Da un lato, lo straniamento distingue la SF dal genere realistico (caratterizzato dallo sforzo di riprodurre fedelmente «empirical textures and surfaces vouched for by human senses and common sense» (Suvin, 1979, p. 18)); dall’altro, l’aspetto cognitivo distingue il genere fantascientifico dagli altri generi non realistici che Suvin unisce sotto l’etichetta di «estranged fiction» (il cui contesto formale radicalmente diverso è «unverifiable by common sense» (Suvin, 1979, p. 18)) come il mito, il racconto popolare e il fantasy. L’effetto combinato di straniamento e cognizione è ottenuto grazie al dispositivo letterario che Suvin definisce novum e che costituisce il nucleo narrativo del racconto fantascientifico:

A novum of cognitive innovation is a totalizing phenomenon or relationship deviating from the author’s and implied reader’s norm of reality (…) its novelty is “totalizing” in the sense that it entails a change of the whole universe of the tale, or at least of crucially important aspects thereof (and that is therefore a means by which the whole tale can be analytically grasped). As a consequence, the essential tension of SF is one between the readers, representing a certain number of types of Man on our times, and the encompassing and at least equipollent Unknown or Other introduced by the novum. This tension, in turn, estranges the empirical norm of the implied reader. (Suvin, 1979, pp. 63-64)

Il carattere fondamentale della «strange novelty» (Suvin, 1979, p. 36) che informa il racconto fantascientifico è il suo essere, allo stesso tempo, significativamente estranea da tempi, spazi e personaggi della fiction realistica, ma al tempo stesso percepita come non impossibile. L’aspetto di novità introdotto dal novum funziona sullo stesso livello ontologico della realtà empirica dell’autore e può essere misurato e compreso solo attraverso un confronto con essa. Se il novum è la condizione necessaria della SF, la razionalizzazione del novum «by scientifically methodical cognition» (Suvin, 1979, p. 66) a cui il lettore è inesorabilmente portato è la sua condizione sufficiente.

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La specifica modalità di esistenza della SF è, quindi, secondo Suvin,

a feedback oscillation that moves now from the author’s and implied reader’s norm of reality to the narratively actualized novum in order to understand the plot-events, and now back from those novelties to the author’s reality, in order to see it a fresh from the new perspective gained. (Suvin, 1979, p. 71)

Questa oscillazione tra realtà empirica e realtà del testo, nota lo stesso Suvin, non è prerogativa del novum fantascientifico, ma è «a consequence of every poetic, dramatic, scientific, in brief semantic novum» (Suvin, 1979, p. 71). In The Act of Reading (1978), Wolfgang Iser ne fa il meccanismo base del funzionamento della lettura. Secondo la sua “teoria della risposta estetica”, fiction e realtà non sono opposte ma in una relazione di comunicazione. Come ogni tipo di comunicazione, anche questa è prodotta da una lacuna informativa – blank, secondo la terminologia di Iser – che innesca la necessità dell’interpretazione. L’interazione fallisce se i blanks vengono riempiti esclusivamente dalle proprie proiezioni; ma nel rapporto asimmetrico che c’è tra testo e lettore, la comunicazione può avvenire solo tramite cambiamenti nelle proiezioni del lettore. Nel processo della lettura, quindi, il lettore formula significati che deve continuamente modificare, in un processo dinamico di auto-correzione, in cui il familiare (la realtà extratestuale, che Iser chiama repertoire e Suvin zeroworld) facilita la comprensione dell’estraneo, mentre l’estraneo (il novum), a sua volta, ristruttura la comprensione del familiare.

Cosa differenzia, quindi, il funzionamento della SF da quello della letteratura in generale? È una domanda che Suvin si pone, ma alla quale sembra non rispondere7. È Samuel Delany che, a mio parere, è riuscito più efficacemente a descrivere il meccanismo particolare della narrazione fantascientifica (che verrà approfondito nel dettaglio nel Capitolo 3). Delany, come Iser, vede la lettura come atto di acquisizione del significato secondo una serie di aggiustamenti. Nella sequenza narrativa, sostiene Delany, le parole producono toni di voce, aspettative sintattiche, richiamano per affinità altre parole e altre immagini, determinando nel lettore un processo di correzione e revisione, che ha fine solo nel momento in cui

7 Suvin si limita ad affermare che la realtà narrativa della SF è «sufficiently autonomous and

intransitive to be explored at length as to its own properties and the human relationships it implies» (Suvin, 1979)

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leggiamo l’ultima parola del testo. Secondo Delany un romanzo di sessantamila parole è un’immagine corretta cinquemila novecentonovantanove volte:

A story is not a replacement of one set of words by another (…) The story is what happens in the reader's mind as his eyes move from the first word to the second, the second to the third, and so on to the end of the tale. (…) The process as we move our eyes from word to word is corrective and revisionary rather than progressive. Each new word revises the complex picture we had a moment before. (Delany, 2009, p. 4)

Ciò che distingue diversi modi narrativi – la SF, il romanzo realista, il reportage, il fantasy – è il modo in cui la sequenza di parole che costruisce una storia acquista significato nella mente del lettore, che dipende da quello che Delany definisce «level of subjunctivity» (Delany, 2009, p. 10)

Subjunctivity is the tension on the thread of meaning that runs between (to borrow Saussure's term for 'word':) sound-image and sound-image. Suppose a series of words is presented to us as a piece of reportage. A blanket indicative tension (or mood) informs the whole series: this happened. That is the particular level of subjunctivity at which journalism takes place. Any word, even the metaphorical ones, must go straight back to a real object, or a real thought on the part of the reporter. The subjunctivity level for a series of words labeled naturalistic fiction is defined by: could have happened. (…) Fantasy takes the subjunctivity of naturalistic fiction and throws it into reverse (…) the level of subjunctivity become: could not have happened. And immediately it informs all the words in the series. No matter how naturalistic the setting, once the witch has taken off on her broomstick the most realistic of trees, cats, night clouds, or the moon behind them become infected with this reverse subjunctivity. But when spaceships, ray guns, or more accurately any correction of images that indicates the future appears in a series of words and mark it as SF, the subjunctivity level is changed once more: these objects, these convocations of objects into situations and events, are blanketly defined by: have not happened. (Delany, 2009, pp. 10-11)

Nel caso della narrazione realista, le correzioni devono essere attuate in accordo con ciò che sappiamo del mondo «personally observable» (Delany, 2009, p. 11). Anche il processo di correzione del fantasy è limitato: quando ci troviamo davanti a una correzione che non è sensata nei termini del mondo personalmente osservabile, dobbiamo accettare il mistero o

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qualsiasi pseudo-spiegazione ci venga proposta. Il livello di subjunctivity tipico della SF espande le possibilità di concatenazioni di parole che percepiamo come sensate: «the subjunctive level of SF say that we must make our correction process in accord with what we know of the physically explainable universe. And the physically explainable has a much wider range than the personally observable» (Delany, 2009, p. 12)

Per spiegare cosa il subjunctive level della SF rende possibile Delany fa un semplice esempio, invitandoci ad esaminare cosa accade quando ci troviamo davanti al sintagma winged dog. In un racconto realista questa giustapposizione di parole sarebbe priva di significato, poiché la correzione mentale che avviene passando dalla parola dog alla parola winged è fuori dai confini accettabili: alato distorce in modo troppo inusuale le immagini che associamo alla parola cane. In un fantasy, invece, sarebbe accettabile, ma implicherebbe solo una correzione visiva. In un racconto di SF, una volta compiuta la correzione visiva, siamo portati a considerare come è possibile l’esistenza di un cane alato, prendendo in considerazione tutte le implicazioni di una tecnologia capace di tale operazione:

The visual correction must include modification of breastbone and musculature if the wings arc to be functional, as well as a whole slew of other factors from hollow bones to heart rate, or if we subsequently learn as the series of words goes on that grafting was the cause, there are all the implications (to consider)of a technology capable of such an operation. (Delany, 2009, pp. 12-13)

Nel romanzo di Ursula Le Guin The Left Hand of Darkness troviamo una sequenza di parole altrettanto breve e immaginifica:

The king was pregnant.

Il particolare tipo di correzione visuale e mentale implicato dalla SF (come si vedrà nell’analisi dettagliata del romanzo) fa di queste quattro parole non solo un’immagine potente e inusuale, ma anche uno spunto efficace per esplorare il genere come una costruzione culturale al tempo stesso coercitiva e contingente.

La particolare libertà verbale della SF, insieme al processo di correzione che esplora i confini degli universi fisicamente (e socialmente, culturalmente, antropologicamente…) spiegabili, fa sì che le parole della fantascienza non solo ci trasportino «worlds away», ma spieghino anche «how we got there» (Delany, 2009, p. 12). È questo processo ad avvicinare la modalità

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della SF a quell’approccio critico definito come queer theory a partire da Butler (ma che, come vedremo nel prossimo capitolo, trascende Butler e i soli dispositivi di sessualità), che investiga il modo in cui ciò che sembra causa naturale e inevitabile delle categorie con cui leggiamo il mondo è in realtà effetto di istituzioni, pratiche, discorsi dai molteplici e diffusi punti di origine. L’evasione dalla realtà suggerita dalla SF è, quindi, solo «an optical illusion and epistemological trick» (Suvin, 1979, p. 81), una fuga verso una posizione privilegiata dalla quale osservare «the distorted ideological perception of social reality» (Csicsery-Ronay Jr., 2005, p. 52) e comprendere «how things could be different» (Suvin, 1979, p. xiv). Le riflessioni di Darko Suvin sono interessanti per molteplici motivi: la sua definizione di SF è stata la prima utile a catalizzare un discorso critico sull’argomento, ma soprattutto è riuscita a mettere in evidenza – con la passione dell’approccio critico marxista – le potenzialità rivoluzionarie di questo genere eretico (Suvin, 1979, p. xiv), facendone una letteratura di rivolta, la cui migliore espressione «è sempre diretta, più o meno esplicitamente, contro i sistemi di potere che impediscono la realizzazione umana delle persone» (Suvin, 1993). Sono queste le potenzialità sfruttate dalle scrittrici femministe, che hanno trovato nella SF uno strumento per distanziarsi dalle norme costrittive del loro mondo e sperimentare realtà radicalmente altre.

1.2 Sorelle della rivoluzione

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Fantascienza è percepire il mondo in modi diversi. Così è il femminismo. «Il y a une convergence obligée entre SF et féminisme» (Vonarburg, 1994, p. 453), scrive Élisabeth Vonarbourg, sottolineando come questa forma letteraria condivida con il femminismo la stessa esigenza di re-immaginare l’esistente. Anche LeFanu evidenzia che, se la SF nella sua forma migliore dispiega «a sceptical rationalism as its subtext» (LeFanu, 2012), il femminismo si basa su «a profound scepticism: of the “naturalness” of the patriarchal world and the belief in male superiority on which it is founded» (LeFanu, 2012). Tra i «sistemi di potere che impediscono la realizzazione umana delle persone» verso i quali,

8 Sisters of revolution è il titolo della raccolta curata da Ann & Jeff VanderMeer sulla speculative fiction

femminista, edita nel 2015. Il titolo della traduzione italiana del 2018, Le visionarie, ispira il titolo del paragrafo 1.2.1.

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secondo Suvin, dovrebbe essere sempre diretta la migliore SF, c’è quello di una cultura patriarcale che, ponendo a Soggetto della presunta universale “natura umana” l’uomo bianco eterosessuale e borghese, non riconosce i suoi “altri”. Il femminismo è una critica di questo punto di vista maschile che «si è imposto sul mondo e che continua a imporsi sul mondo come sua modalità di sapere» (De Lauretis, 1999, p. 16).

La particolare forma della SF, secondo Pamela J. Annas, condivide con i gruppi socioeconomici oppressi una tecnica percettiva, che Annas descrive con l’immagine della “dual vision”:

for oppressed groups, dual vision means seeing the world and yourself through two sets of opposed values. […] W.E.B. DuBois wrote in The Souls of

Black Folk that “it is a peculiar sensation, this double-consciousness, this sense

of always looking at oneself through the eyes of others.” And Joanna Russ writes in The Female Man of “the knowledge you suffer when you're an outsider...the perception of all experience through two sets of eyes, two systems of value, two habits of expectation, two minds.” This duality of perception comes, for a member of an oppressed class, through the experience of having one's reality defined not by oneself, but by somebody else. (Annas, 1978, p. 144)

Questa dual vision è la stessa da cui, secondo Teresa De Lauretis, nasce la riflessione teorica femminista, quando, al suo primo tentativo di autodefinirsi, il femminismo degli anni Settanta pone la domanda «chi o che cosa è una donna? Chi o che cosa sono io?» (De Lauretis, 1999, p. 11), e nel porre questa domanda scopre l’inesistenza della donna:

il paradosso di un essere che è allo stesso tempo assente e prigioniero del discorso, di cui continuamente si discute pur rimanendo esso, di per sé, non esprimibile; un essere spettacolarmente esibito eppure non rappresentato o addirittura irrappresentabile, invisibile e tuttavia costituito come oggetto e garanzia della visione: un essere la cui esistenza e specificità vengono a un tempo affermate e negate, messe in dubbio e controllate. (De Lauretis, 1999, p. 11)

In un secondo momento di autoriflessione, nel porsi questa stessa domanda, il femminismo si è reso conto di come una teoria femminista debba partire da questo paradosso e affrontarlo direttamente, assumendo e rivendicando la «posizione eccentrica» (De Lauretis,

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1999, p. 29) del suo soggetto politico, il suo essere contemporaneamente dentro e fuori le proprie determinazioni sociali e discorsive. La consapevolezza di questa sua particolare natura – ci dice ancora De Lauretis – segna un terzo momento per la teoria femminista, che ha dato alle donne «la possibilità di vedere come la propria identità sociale e sessuale sia insieme qualcosa di costruito dall’esterno e qualcosa di interiorizzato» (De Lauretis, 1999, p. 21) ed è diventata nel tempo uno strumento analitico con cui leggere e contrastare le ingiustizie sociali e politiche affrontate non solo dalle donne, ma da tutti i soggetti eccentrici. La SF si è rivelata luogo privilegiato e modalità narrativa preziosa per rappresentare questa posizione eccentrica. Con la sua attitudine a mettere in discussione e decostruire ciò che viene presentato come “naturale” e immutabile, la SF offre al femminismo «a means of fusing political concerns with the playful creativity of the imagination» (LeFanu, 1988), un linguaggio nuovo per interrogare l’ordine culturale. L’universo narrativo della SF dà risposta a molte domande poste dal femminismo sul piano politico e invita, al tempo stesso, a formularne di nuove, contrapponendosi all’imitazione di una realtà «la cui conformazione alimenta [il] bisogno di mondi paralleli» (Durastanti e Raimo in Vandermeer, 2018, p. 530) Inoltre, la SF ha reso possibile un nuovo modo di scrivere: la contaminazione di varie forme narrative, brevi o lunghe – «writers can let themselves experiment, writing and rewriting in short story, novella or novel form» (LeFanu, 1988) – si unisce a quello che LeFanu definisce «an easy flow between writers and readers» (LeFanu, 1988), raro in qualsiasi altro genere letterario9:

Professional writers often start out as fans, writing in fanzines or producing their own. One does not have to be a professional in order to be read. Ideas, themes and characters are borrowed, elaborated, reworked by different people in different forms. […] Writers, C.J. Cherryh being one example, may invent a universe and then invite other writers to share it. And the numerous SF conventions bring together writers, fans and artists from all over the world. (LeFanu, 1988)

Tutto questo porta allo smantellamento delle convenzionali gerarchie tra scrittori e lettori, e alla messa in discussione della convenzionale autorità del singolo autore. Questo carattere

9 Fatta eccezione per il fantasy, che non a caso Le Guin definisce «the ancient kingdom of which

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“antiautoritario” e lo “statuto debole” del genere dal punto di vista del canone letterario lo rendono uno spazio marginale – eccentrico – dal quale prendere parola.

Proverò a tracciare la straordinaria relazione tra il femminismo e la SF, che inizia con il pensiero utopico, si alimenta delle fantasie del gotico e si consolida nella travolgente seconda ondata del movimento delle donne. Una relazione che in diversi periodi storici ha dato vita a romanzi che permettono di comprendere l’oppressione e immaginare la resistenza oltre i limiti posti dallo stesso discorso femminista, facendosi ponte tra teoria e pratica.

1.2.1 Le prime visionarie

Nonostante sia opinione comune che la fantascienza femminista sia emersa in tutta la sua forza negli anni Sessanta del XX secolo, numerosi studi critici hanno esaminato come e fino a che punto la SF del passato sia stata, anche se non apertamente, femminista. Diverse studiose – tra cui Gwyneth Jones (2009) e Jane Donawerth (2009) – rintracciano le connessioni storiche tra teoria femminista e SF già in quella che può essere considerata la protostoria di entrambi i termini, individuando la genesi della FSF con la pubblicazione del romanzo utopico di Margaret Cavendish The Description of a New World, Called the Blazing-World del 1666. In un’epoca in cui le doti intellettive e morali delle donne vengono dibattute nella cosiddetta querelle des femmes, Cavendish immagina un regno ideale governato da un’imperatrice, istruita da filosofi e scienziati e circondata da prodigi tecnologici.

Ignorando questa prima visionaria, molti sostengono che, se la SF inizia con il Frankenstein di Shelley, con esso ha inizio anche la SF femminista. In uno dei primi studi critici dettagliati sulla FSF – il già citato In the Chinks of the World Machine – Sara LeFanu sostiene che la FSF ha doppie radici: da un lato non solo nel Frankenstein ma in tutta la tradizione letteraria del gotico femminile; dall’altro nella scrittura utopica femminista della fine del XIX secolo. LeFanu, nella sua analisi del gotico femminile, mostra come il genere sia riuscito ad offrire alle donne molto più di eroine e personagge10 ribelli, dimostrando di poter essere uno strumento – allo stesso modo della SF – «to challenge dominant literary conventions and to

10 La personaggia è un neologismo introdotto («con un gesto di arbitrio creativo sulla lingua») dalla

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produce a literature that can be at once subversive and popular» (LeFanu, 1988). Le eroine di Ann Radcliffe fanno da sole tutto ciò che le donne non potevano fare, «or could do only with difficulty and under the protection of a man» (LeFanu, 1988). La Creatura di Mary Shelley – madre di tutti gli “altri” e i diversi della futura SF – mette in discussione le costruzioni culturali abitualmente collegate alla mostruosità e invita a una nuova concettualizzazione del diverso e dell’identità. L’immaginazione di Ann Radcliffe e Mary Shelley non conosce confini geografici e psicologici: se in questa terra la vita delle donne è limitata, le fantasie del gotico (come poi della SF) aprono loro un universo di possibilità «off earth through time and space» (LeFanu, 1988).

Oltre lo spazio e il tempo è andata anche l’immaginazione delle scrittrici utopiche che, tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX, rispecchiano nei loro scritti le grandi battaglie per il voto e per il diritto alla proprietà privata che le suffragiste combattevano sulla scena politica, ampliando allo stesso tempo il campo di riflessione a ogni altra possibile trasformazione sociale, politica e culturale.

Nel 1881 Mary E. Bradley Lane, casalinga di Cincinnati, pubblica anonimamente il suo romanzo Mizora: a Profecy. Il mondo di Mizora è un nuovo stato matriarcale, paradiso tecnologico dotato di dirigibili e lavastoviglie, dove i figli si producono per partenogenesi e il lavoro domestico è considerato una professione a tutti gli effetti. Ventiquattro anni dopo (e quasi dall’altra parte del mondo), Sakhawat Hossain, donna musulmana nata in Bangladesh, scrive Sultana’s Dream (1905), ipotizzando un mondo utopico in cui i ruoli di genere sono invertiti: le donne hanno preso il controllo dello spazio pubblico e gli uomini sono confinati nella purdah. L’ordine sociale che Hossain costruisce, come quello di Lane, è un mondo di meraviglie tecnologiche; al contrario di Lane, che crea una società di sole donne, Hossain sfrutta la tecnica narrativa del role reversal e ribalta i ruoli di genere del Bangladesh della sua epoca. Sia Lane che Hossain usano il novum nell’ordine sociale per mostrare le disparità e le iniquità del loro mondo.

Anche Charlotte Perkins Gilman nel suo Herland (1915) rovescia i tradizionali ruoli di genere: è la Madre – non il politico o il guerriero – a trasformare la società. La sua visione di una comunità di donne e bambine, con la trasformazione della relazione privata madre-figlia in una visione comunitaria, anticipa un tema centrale delle utopie femministe degli anni Settanta. Nel lavoro di Gilman è possibile vedere la congiuntura di due importanti

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componenti del pensiero femminile del XX secolo: l’aspetto pragmatico della scrittura utopica ispirata al socialismo, con la sua enfasi sulla struttura sociale, e la più dolorosa interiorizzazione dell’esperienza femminile, come esemplificato dal suo The Yellow Paper. Entrambi gli elementi, quello ottimista e quello pessimista, sono bilanciati da un’implicita o dichiarata critica al sistema politico e sociale di dominazione maschile. Ed entrambi, come si vedrà, appariranno nel lavoro delle scrittrici di SF che seguiranno.

Ognuna di queste prime progenitrici della FSF rispondeva alle condizioni scientifiche, sociali e politiche del proprio mondo; ognuna di loro era influenzata dalle riflessioni femministe sollevate dal proprio tempo e alle proprie latitudini. E, ad accezione di Shelley, tutte loro hanno usato il novum di un ordine sociale diverso per mettere in evidenza quello esistente e invocarne il cambiamento.

1.2.2 Galactic Suburbia

Nell’età d’oro dei pulp magazine americani, quando la pratica di pubblicare SF in forma di romanzo viene soppiantata dalla diffusione della short story, la SF riflette ciò che LeFanu definisce «masculine concerns», basati sul tema centrale delle esplorazioni spaziali e dello sviluppo tecnologico: «masculine concerns because access to these areas was effectively denied to women in the real world, and science fiction, like all writing, is written from within a particular ideology» (LeFanu, 1988). Attebery riassume in quattro punti esemplificativi i diversi ruoli che poteva assumere il personaggio femminile nei racconti pulp degli anni Trenta:

(1) being explained to

"Seed spores? Mars?" Lucy was clearly baffled. "Let me explain." (2) making coffee:

The girl busied herself at the [spaceship's] electric stove and soon they sat down to a steaming meal of scrambled eggs and coffee.

(3) getting rescued:

"Ray!" she shouted hoarsely, striving vainly to tear free from the merciless grip on her arms. "Ray! Save me! They're taking me away—to Meropolis!" (4) marrying the hero. (Attebery, 2002, p. 45)

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È a queste rappresentazioni della donna nei romanzi di SF maschile che Joanna Russ dedica l’articolo (citato all’inizio di questo capitolo) The Image of Women in Science Fiction, in cui sottolinea come il predominio maschile sulla cultura si rifletta anche in un genere così potenzialmente sovversivo come quello fantascientifico. Nel panorama maschile della SF di questi anni anche le autrici, secondo Russ, rimangono ancorate a una visione conservatrice del personaggio femminile, relegato a quella che chiama «galactic suburbia», una futuristica periferia «white and middle-class» (Russ, 2007, p. 214), in cui le mogli si prendono cura della famiglia nucleare mentre mariti eroici risolvono crisi interstellari. Lisa Yaszek nel 2008 intitolerà il suo studio sulla SF delle donne dopo la Seconda Guerra Mondiale Galactic Suburbia: Recovering Women's Science Fiction, rivendicando l’espressione sarcastica di Russ per mostrare come molte scrittrici abbiano in realtà complicato l’ambientazione domestica, mettendo in scena esploratrici e eroine casalinghe per interrogare le strutture patriarcali della famiglia e aiutare a ripensare la possibilità di azione delle donne nella creazione di nuove forme di vita domestica e familiare. Dopo la Seconda guerra mondiale iniziano a pubblicare nella comunità fantascientifica quasi trecento donne. Sebbene Yaszek descriva la loro scrittura come women's SF e non necessariamente SF femminista, possiamo considerarle tra le anticipatrici della FSF per il semplice fatto di aver costituito una presenza numerosa e importante dentro la comunità della SF.

Due degli esempi più potenti del contributo femminile degli anni Quaranta sono i racconti di Catherine L. Moore – che si firma significativamente con le sole iniziali neutre C. L. – e di Judith Merril. In No Woman Born (1944), Moore immagina la prima cyborg della SF delle donne. Deirdre è una cantante, ballerina e attrice il cui corpo, irrimediabilmente danneggiato da un incendio, viene totalmente ricostruito tecnologicamente. La storia si sviluppa attorno alla problematizzazione della (non) femminilità e della (non) umanità di Deirdre nel suo nuovo corpo. Facendo un uso intelligente di alcune delle strategie della SF a firma maschile – il punto di vista maschile, l’associazione del femminile con il mostruoso – Moore evita di costruire una semplicistica opposizione tra corpo naturale e corpo tecnologico, tra l’essere una donna e il performare la femminilità, proponendo una storia di politica femminista non comune per l’epoca. Nel frankensteiniano discorso finale con il suo “creatore”, Deirdre riafferma che proprio la sua peculiare situazione di liminalità, al confine

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tra l’umano e la macchina, costituisce la sua nuova identità11. Anche That Only a Mother (1948) di Judith Merril si distingue dalle storie di conquista che popolano i pulp degli anni Quaranta. La storia di Merril, infatti, propone una forte critica alle politiche militari statunitensi, esaminando le conseguenze umane e psicologiche delle radiazioni nucleari e descrivendo il rifiuto testardo di una madre di vedere le deformità del corpo della figlia. That Only a Mother racconta una storia non solo sorprendentemente moderna per la sua sensibilità alle questioni politiche e all’esperienza di una donna, ma anche «remarkable in science fictional terms for its insistence on the reality of emotional life» (LeFanu, 1988).

1.2.3 La marea femminista

Ritch Calvin nota come negli anni Sessanta il femminismo stava solo cominciando ad essere parte del discorso popolare, ma tra il 1969 e il 1972 «feminism became the main subject of discourse within the world of science fiction» (Calvin, 2012, p. 9). Alla fine degli anni Settanta anche l’attenzione della critica si sposta sulla SF prodotta dalle donne e dalle femministe. Una parte importante di questo lavoro è la ricostruzione di una herstory, ovvero di quella storiografia che documenta le opere delle precedenti scrittrici di SF e colloca la SF femminista nella lunga storia che risale alle utopie del XIX secolo e alla loro parte nel movimento per i diritti delle donne – una tradizione che era stata fino ad allora in gran parte dimenticata.

A partire dagli anni Settanta, molte scrittrici riscoprono l’utopia (e il suo corollario: la distopia) per sviluppare in forma narrativa i temi centrali della seconda ondata di femminismo. Come Lane, Hossain, e Gilman prima di loro, queste scrittrici ribaltano le relazioni di potere o evidenziano i modi in cui le donne sono state destinate a un ruolo subalterno. Tom Moylan definisce questi testi «critical utopias» (Moylan, 1986) trovandoli “critici” in un duplice senso: poiché si oppongono a istituzioni e valori sociali esistenti e poiché raggiungono la “massa critica” (nel senso fisico del termine) «required to make the necessary explosive reaction» (Moylan, 1986, p. 10).

11 «I’m myself – alive. I’m not a robot, with compulsions built into me that I have to obey. I’m

(30)

26

Gli anni Settanta e Ottanta vedono la pubblicazione di numerosissime utopie femministe. In The Female Man (1975), un’originale scissione del punto di vista in quattro varianti della stessa donna – implicitamente l’autrice stessa – permette a Joanna Russ di mettere a confronto tre possibili futuri per le donne: uno in continuità con il presente, fatto di disparità salariale e costrizioni familiari; uno distopico, in cui i sessi sono letteralmente in guerra; uno utopico, in cui gli uomini sono scomparsi e le donne sono libere di fare ciò che vogliono. Anche Marge Piercy, in Woman on the Edge of Time (1976), costruisce un’efficace doppia visione: da un lato, nel presente, attraverso la vita calpestata di Connie – donna, ispano-americana e povera – disegna un ritratto fin troppo plausibile dell’oppressione degli ultimi istituzionalizzata dalla società; dall’altro, con le sue incursioni nel futuro di Mattapoisett, descrive un’alternativa utopica in cui non esistono istituzioni – dalla famiglia nucleare, o la monogamia, fino alla gestazione – che permettano la riproduzione di relazioni di potere: tutti i bambini di Mattapoisett hanno tre genitori genetici, nascono da uteri meccanici e sono liberi e incoraggiati a esprimere la propria individualità senza categorie predefinite. Piercy raccoglie le suggestioni di Shulamith Firestone, che nel suo testo cult del femminismo The Dialectic of Sex: The Case for Feminist Revoution (1970) afferma che la dicotomia sessuale biologica, e in particolar modo la divisione del lavoro riproduttivo, sia la causa profonda della dominazione maschile, e suggerisce come la liberazione della donna sia strettamente legata a una rivoluzione tecnologica. L’obiettivo della rivoluzione femminista, scrive Firestone, deve essere «not just the elimination of male privilege but of the sex distinction itself» (Firestone, 1970, p. 11), cosicché la differenza di genitali non comporti più un significato culturale. Nella società senza genere di Mattapoisett, anche la grammatica riflette questa indistinzione: non ci sono più pronomi maschili e femminili ma si usa il pronome personale per, derivato da person.

La riflessione sul linguaggio e sulla sua influenza nella costruzione del sé e del genere è al centro di molte delle fantasie della SF femminista di questi anni. Ne Les Guérillères (1969), Monique Wittig afferma che per una nuova società bisogna creare un nuovo linguaggio, e ci narra una storia raccontata interamente al femminile plurale. Analogamente, in Native Tongue (1984), Suzette Haden Elgin, ispirandosi all’ipotesi Sapir-Whorf, inventa una “lingua delle donne” (il láadan) che rappresenta l’esperienza e il punto di vista femminile,

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