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Il Queer e la deontologizzazione delle categorie

Una questione di categorie

2.5 Il Queer e la deontologizzazione delle categorie

Come scrive Federica Valentini nel suo tentativo di ricostruzione di una geneaologia del queer: «gli inizi del queer sono plurimi, intrecciati, dilazionati (…) nessuno di questi inizi può essere considerato più legittimo rispetto agli altri» (Valentini, 2018). Uno degli inizi del queer è il momento in cui viene nominato come “teoria” all’interno dell’accademia nordamericana, e in cui alcune pubblicazioni (tra cui Gender Trouble di Butler e Epistemology of the Closet di Eve Kosofsky Sedgwick) vengono riconosciute dalla critica come “iniziatrici” della teoria queer, a prescindere dalle intenzioni delle autrici stesse. La data di nascita del queer in accademia è febbraio 1990, quando Teresa De Lauretis formula la definizione “Queer theory” in occasione di una conferenza tenutasi a Santa Cruz presso l’Università della California. De Lauretis esprime la necessità di individuare i limiti delle articolazioni discorsive dominanti prodotte all’interno degli studi gay e lesbici, in modo da scongiurare il pericolo di naturalizzazione ed essenzializzazione di un’identità “generalmente” gay o lesbica. Secondo De Lauretis, solo un lavoro analitico di decostruzione e valorizzazione delle differenze può portare a rielaborare e reinventare i termini delle “sessualità” e propone di riferirsi a questo tipo di lavoro teorico con l’espressione di “queer theory”. La nuova denominazione nasceva dalla necessità di prendere una distanza critica rispetto alle conformazioni discorsive-identitarie di “gay” e “lesbica”:

in un certo senso, il termine “Teoria Queer” è giunto nello sforzo di evitare tutte queste fini distinzioni nei nostri protocolli discorsivi, per non aderire a nessuno di questi termini dati, per non assumere le loro responsabilità ideologiche, piuttosto per trasgredirle e trascenderle, o quantomeno problematizzarle (De Lauretis in Valentini, 2018, p. 20)

Già nel 1994, tuttavia, De Lauretis prenderà dichiaratamente le distanze rispetto alla teoria queer, «diventat[a] molto velocemente una creatura dell’industria editoriale concettualmente insulsa» (De Lauretis in Valentini, 2018, p. 22). La definizione di “teoria queer” era stata assunta acriticamente dalla grande maggioranza degli studiosi, normalizzata da quelle stesse istituzioni che intendeva attaccare e diventata spesso una comoda sintesi per ciò che prima veniva chiamato “lesbian and gay” (Valentini, 2018). Quando Teresa De Lauretis portò il queer in accademia, però, la parola queer aveva già una lunga vita fuori di essa: entrato nella lingua inglese nel XVI secolo con il significato

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originario di “strano”, “bizzarro”, “insolito”, a partire dal XX secolo l’aggettivo “queer” assume un senso fondamentalmente denigratorio e verrà impiegato per riferirsi in termini dispregiativi agli omosessuali. Già nella New York di inizio XX secolo, però, “queer” veniva spesso rivendicato in senso auto-affermativo e di autodeterminazione, prima ancora della parola gay (Valentini, 2018). La riappropriazione decisiva del termine in un senso apertamente provocatorio avvenne a partire dalla fine degli anni Ottanta, quando alcuni gruppi di attivisti di New York inaugurarono una nuova linea politica, resa urgente dalle emergenze che minacciavano la vita dei gay e delle lesbiche degli Stati Uniti, a partire dall’ondata di violenza e di intolleranza che si era sollevata in seguito alla crisi di AIDS. La convenzionale strategia di impronta liberale che la comunità gay e lesbica aveva fino a quel momento condotto non bastava più: non era più sufficiente richiedere “uguaglianza” e pari diritti, era necessario l’emergere di una nuova politica che mettesse in discussione il concetto stesso di legittimità sociale, politica ed esistenziale e che contestasse le dinamiche che regolano l’attribuzione della “cittadinanza”. Con questi obiettivi, nel 1987 nasce l’ACT UP (AIDS Coalition To Unleash Power), dalla quale germoglierà la Queer Nation negli anni Novanta:

ACT UP, l’organizzazione, fa esattamente quello che dice il suo nome. Facciamo dimostrazioni e agiamo in modo tale che le autorità (funzionari governativi, ricercatori, politici, chiesa e legge) si sentano inadeguate, ma fondamentalmente raggiungiamo il nostro obiettivo mettendo a fuoco i problemi che queste non vogliono o hanno timore di affrontare (…) ACT UP è un gruppo diverso, apartitico, unito nella rabbia e impegnato nell’azione diretta per porre fine alla crisi AIDS. (…) NON STIAMO IN SILENZIO. (in Valentini, 2018, p. 31)

I movimenti di attivismo AIDS individuarono e contestarono la grande operazione discorsiva scientifico-mediatica, che propagandò un’immagine dell’epidemia come strettamente correlata a dei “gruppi ad alto rischio” (eroinomani, sex-worker, latini, neri e gay) e lontana quindi dalla popolazione “normale”. Questo attivismo nacque come fortemente polemico e sospettoso nei riguardi delle conoscenze considerate “universalmente vere” e “scientifiche”, riconoscendo un meccanismo produttivo delle verità e intuendo il potere del discorso e dei suoi effetti concreti sulla realtà:

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(…) prima che in termini filosofici, la “volontà di sapere” delle istituzioni di potere venne violentemente percepita in modo esperienziale da quegli individui che sperimentarono sulla propria pelle l’esclusione dal “discorso”, la perdita della “cittadinanza” e dei diritti ad essa spettanti e lo svuotamento di significato dell’identità, rivelatasi ormai come un costrutto in questo caso del tutto inutile ai fini di una politica di attivismo AIDS. (Valentini, 2018, p. 35)

Movimento polimorfo e imprevisto, l’attivismo queer ha assunto le molteplici differenze al proprio interno come elemento di forza destrutturante che opera sulle categorie di identificazione, potere e conoscenza, mettendo in discussione i meccanismi di produzione delle identità “normali” e prefigurando problematiche e metodologie che saranno poi elaborate nella teoria accademica. Nonostante storicamente la stragrande maggioranza degli studi e dei contributi che si collocano in ambito queer abbiano riguardato l’identità sessuale e di genere, l’accento posto dall’attivismo queer degli anni Novanta sulla delegittimazione della “normalità” faceva già intuire la capacità del queer di estendere la sua analisi ben oltre i significati connessi esclusivamente al genere e alla sessualità. Come sostiene Carmen Dell’Aversano:

il potenziale di innovazione della teoria queer sta proprio nella possibilità di generalizzarne l’approccio a una messa in questione di tutte le identità e delle loro rappresentazioni, a un critica di tutte le forme di normatività e, in ultima analisi, a una deontologizzazione delle costruzioni sociali che sono alla base del funzionamento di qualunque cultura. (Dell'Aversano, 2017, p. 50)

A fondamento teorico di questa metodologia di indagine Dell’Aversano cita il lavoro illuminante di Harvey Sacks che, negli anni tra il 1964 e il 1972, non solo fondava la branca della sociolinguistica pragmatica attualmente nota come analisi della conversazione ma gettava anche le basi per un’analisi sistematica delle categorie sociali, a cui negli ultimi anni viene fatto riferimento con il nome di Membership Categorization Analysis. Nelle sue Lectures on Conversation – la trascrizione di tutte le sue lezioni conservate – Sacks ci svela i meccanismi attraverso cui le categorizzazioni identitarie determinano il destino dei membri di una società: «metterle in questione vuol dire porre le premesse per smantellare il progetto di dominio e di esclusione che in queste categorie è implicito, e che si attua per loro tramite» (Dell'Aversano, 2017, p. 51).

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Capitolo terzo