• Non ci sono risultati.

Una questione di categorie

2.2 Oltre il genere

Anche l’analisi della filosofa francese Monique Wittig prende le mosse dal sogno utopico di Rubin: quello di un mondo senza generi. Un sogno reso necessario dal carattere totalitario della categoria stessa:

It shapes the mind as well as the body since it controls all mental production. It grips our minds in such a way that we cannot think outside of it. This is why we must destroy it and start thinking beyond it if we want to start thinking at all, as we must destroy the sexes as a sociological reality if we want to start to exist. (Wittig, 1982, p. 68)

Nel suo primo articolo, pubblicato nel 1976 a Berkeley e intitolato The category of sex, Wittig, come Rubin, sostiene che la distinzione tra uomo e donna (e maschile/femminile) è uno strumento della società eterosessuale e dimostra come questa differenza, che si vorrebbe insita nel corpo, sia solo la giustificazione di un’ideologia che opera una classificazione arbitraria e sancisce un rapporto di forza:

The ideology of sexual difference functions as censorship in our culture by masking, on the ground of nature, the social opposition between men and women. Masculine/feminine, male/female are the categories which serve to conceal the fact that social differences always belong to an economic, political, ideological order. (Wittig, 1982, p. 64)

39

Allo stesso modo in cui la categoria di razza imponeva la schiavitù ai neri, la categoria di sesso, secondo Wittig, impone alle donne «the rigid obligation of the reproduction of the "species"» (Wittig, 1982, p. 66). Entrambe le categorie funzionano attraverso «an operation of reduction, by taking the part for the whole, a part (color, sex) through which the whole human group has to pass as through a screen» (Wittig, 1982, p. 68). Tanto la categoria di razza quanto quella di sesso non esistono a priori: in quanto categorie di dominazione non esistono al di fuori della società e non possono essere il prodotto di un’egemonia naturale, poiché – come scrive Wittig – «there is but social dominance» (Wittig, 1982, p. 66).

In un altro celebre articolo intitolato L pensée straight (scritto in inglese nel 1978 e pubblicato in Francia nel 1980 sulla rivista QF), Wittig rivisita il titolo del famoso saggio di Lévi- Strauss, La pensée sauvage, per mettere in evidenza come le categorie di “uomo”, “donna”, “differenza” – «et de toute la série de concepts qui se trouvent affectés par ce marquage y compris des concepts tels que “histoire” “culture” et “réel”» (Wittig, 1980a, p. 49) – funzionino nella nostra cultura come dei concetti primitivi e universali:

Et bien qu'on ait admis ces dernières années qu'il n'y a pas de nature, que tout est culture il reste au sein de cette culture un noyau de nature qui résiste à l'examen, une relation qui revêt un caractère d'inéluctabilité dans la culture comme dans la nature c'est la relation hétérosexuelle ou relation obligatoire entre « l'homme » et « la femme ». Ayant posé comme un principe évident, comme une donnée antérieure à toute science l’inéluctabilité de cette relation la pensée straight se livre à une interprétation totalisante à la fois de l'histoire, de la réalité sociale, de la culture et des sociétés, du langage et de tous les phénomènes subjectifs. (Wittig, 1980a, p. 49)

La lotta femminista, secondo la teorica francese, deve concentrarsi sulla distruzione del sistema sociale dell’eterosessualità, poiché il sesso è la categoria politica naturalizzata che fonda la società come eterosessuale. Se per Wittig, come per Beauvoir, il corpo delle donne è programmato dall’intervento sociale, Wittig si distingue dalla celebre formula di Beauvoir in un articolo scritto trent’anni dopo intitolato On ne naît pas femme (1980). Sopprimendo on le devient, Wittig mette in discussione il percorso obbligato del divenire donna e pone il lesbismo in posizione di alternativa: «refuser de devenir hétérosexuel (ou de le rester) a toujours voulu dire refuser, consciemment ou non, de vouloir devenir une femme ou un homme» (Wittig, 1980b, p. 78). Così come per Rubin il separatismo era un tentativo di

40

formare gruppi sociali nei quali le relazioni tra donne non fossero mediate dagli uomini15, secondo Wittig le lesbiche, nonostante subiscano gli effetti dell’appropriazione collettiva delle donne – salari inferiori, violenza, stupri…– allo stesso tempo sfuggono all’appropriazione privata da parte di un uomo:

car (…) ce qui fait une femme, c’est une relation sociale particulière à un homme, relation que nous avons autrefois appelée de servage, relation qui implique des obligations personnelles et physiques aussi bien que des obligations économiques (“assignation à residence”, corvée domestique, devoir conjugal, production d’enfants illimitée, etc.), relation à laquelle les lesbiennes échappent en refusant de devenir ou de rester hétérosexuelles. (Wittig, 1980b, pp. 83-84)

In quest’ottica, le lesbiche non sono “donne” perché si trovano al di fuori dall’economia politica dell’eterosessualità riproduttiva che definisce la categoria di donna:

« Lesbienne » est le seul concept que je connaisse qui soit au-delà des catégories de sexe (femme et homme) parce que le sujet désigné (lesbienne)

n’est pas une femme, ni économiquement, ni politiquement, ni

idéologiquement. (Wittig, 1980b, p. 83)

Il concetto di “differenza dei sessi”, che costituisce ontologicamente le donne come “altri diversi”, è uno degli aspetti che rivela come la società eterosessuale – e “la pensée straight” che la conferma – si fondi sulla necessità dell’altro. Come scriverà anche Rosi Braidotti, trent’anni dopo Wittig, «il pensiero occidentale ha una logica di opposizioni binarie che considera la differenza come qualcosa che è “altro da” la norma accettata» (Braidotti, 1996). La differenza in quanto inferiorità peggiorativa svolge un ruolo strutturale e costitutivo, e funziona come conferma della presunta superiorità del soggetto dominante:

la différence n'a rien d'ontologique, elle n'est que l'interprétation que les maîtres font d'une situation historique de domination. La différence a pour fonction de masquer les conflits d'intérêt à tous les niveaux idéologiquement compris. (Wittig, 1980a, p. 50)

In un processo dialettico di definizione per negazione, il polo della differenza possiede un potere di definizione del medesimo tale da funzionare anche in senso inverso. Di

41

conseguenza, la differenza gioca un ruolo strategico nell’illuminare le complesse e asimmetriche relazioni di potere tra soggetto dominante e soggetto dominato. Da questo punto di vista la misoginia non è un caso o un accidente: essa appare piuttosto come la necessità strutturale di un sistema che non può fare altro che rappresentare l’alterità come negatività.

Per Wittig il lesbismo, che permette di uscire dalla logica binaria degli opposti, non è da intendersi come categoria fissa ma come «porteur de l’avènement de la personne humaine, c’est-à-dire non genrée, non sexualisée car non-incluse dans le contrat hétérosexuel reproductif» (Chetcuti, 2009). Wittig si appropria dell’utopia come strumento euristico che permette di esaminare la dinamica sociale e il suo cambiamento. Pensare al di là della categorizzazione per sesso mette a distanza la realtà presente, che così smette di apparire come naturale, necessaria, ineluttabile. Come scriverà Teresa De Lauretis, nella sua formulazione del soggetto eccentrico come soggetto politico del femminismo16,

la lotta contro gli apparati ideologici e le istituzioni socio-economiche dell’oppressione delle donne consiste nel rifiutare i termini del contratto eterosessuale, non solo nella pratica del vivere ma anche nella pratica del conoscere. Consiste nel concepire il soggetto sociale in modo eccentrico, in termini autonomi eccedenti le categorie del genere. “Lesbica” è uno di questi. (De Lauretis, 1999, p. 55)

In continuità con Wittig, secondo Teresa De Lauretis il genere è la rappresentazione di un rapporto sociale, dell’appartenenza a una classe, che regola posizione e significato nella società, una finzione normativa:

The term gender is, actually, the representation of a relation, that of belonging to a class, a group, a category. Gender is the representation of a relation, or (…) gender constructs a relation between one entity and other entities, which are previously constituted as a class, and that relation is one of belonging; thus, gender assigns to one entity, say an individual, a position within a class, and therefore also a position vis-a-vis other preconstituted classes. (De Lauretis, 1987, pp. 4-5)

42

Il titolo e la premessa concettuale del suo saggio del 1987, Technologies of Gender, derivano dalla teoria foucaultiana della sessualità come “tecnologia del sesso” (sistematizzata nel 1976 nel primo volume della sua Histoire de la sexualité)17:

gender, too, both as representation and as self-representation, is the product of various social technologies, such as cinema, and of institutionalized discourses, epistemologies, and critical practices, as well as practices of daily life. (De Lauretis, 1987, p. 2)

A partire da questa premessa, De Lauretis analizza la costruzione sociale del genere e la sua introiezione o assunzione da parte dei singoli individui come effetto di discorsi e rappresentazioni che, come insegna Foucault, si ancorano a dispositivi di potere, ossia istituzioni sociali (la famiglia, la scuola, la medicina, il diritto, il linguaggio, i mass media…), pratiche culturali e saperi disciplinari (come la filosofia e la teoria). De Lauretis, inoltre, aggiunge:

La natura artificiale del genere, il suo essere rappresentazione o costruzione discorsiva, però, non significa che esso non abbia effetti concreti nella vita materiale, sociale e psichica degli individui. Al contrario, la realtà del genere sta precisamente negli effetti di realtà prodotti dalla sua rappresentazione: il genere si realizza, diviene realtà concreta quando la rappresentazione diviene autorappresentazione, ossia viene assunta dal soggetto quale componente della propria identità. (De Lauretis, 1999, p. 98)

Per questo De Lauretis propone il neologismo «en-gender», che rende in italiano con ingenerarsi:

il soggetto si ingenera, vale a dire si produce in quanto soggetto nell’assumere, nel fare proprie o nell’identificarsi con gli effetti di senso e le posizioni specificate dal sistema sesso/genere di una data società. Detto altrimenti, il soggetto è prodotto o ingenerato nella misura in cui è soggetto attivamente alle tecnologie del genere. (De Lauretis, 1999, pp. 98-99)

17 La sessualità per Foucault, lungi dall’essere un nucleo di desideri originario e naturale che il potere

si impegna a reprimere (come volevano le teorie della “rivoluzione sessuale”) è un dispositivo della biopolitica: il potere, agendo attraverso la cultura, la socializzazione, l’educazione, produce dialetticamente tanto la norma sessuale quanto le identità perverse che le sono correlate, e attraverso questa classificazione esercita la sua presa sulle vite individuali.

43

Secondo De Lauretis, la presa di coscienza derivante da questa analisi e dall’analisi della macroistituzione che sottende tutte le tecnologie del genere, cioè l’istituzione dell’eterosessualità, fa sì che il soggetto del femminismo si ponga in posizione critica, distanziata, eccentrica rispetto all’ideologia del genere. Per questo De Lauretis lo chiama “soggetto eccentrico”: «non immune o esterno al genere, ma autocritico, distanziato, ironico, eccedente» (De Lauretis, 1999, p. 60). Poiché il genere sta in rapporto di contiguità con i ruoli riproduttivi, e quindi con l'ordinamento eterosessuale, pensare in termini di genere ci mantiene dentro le sponde del patriarcato, perennemente e universalmente in opposizione concettuale al maschile. Esso impedisce, dunque, come scrive Liana Borghi, di «pensare il soggetto sociale e le relazioni tra soggettività e socialità con radicalismo visionario» (Borghi, 2001). La lesbica di Wittig non si riferisce semplicemente a una donna lesbica: è un termine concettuale, teorico, «di una forma di coscienza femminista che può esistere storicamente soltanto nel “qui e ora” come coscienza di qualcos’altro» (De Lauretis, 1999, p. 57).

Anche secondo la filosofa statunitense Donna Haraway (1991, p. 188) «vision can be good for avoiding binary oppositions». Nel suo A Cyborg Manifesto del 1985, Haraway introduce la figura visionaria del cyborg, che da invenzione fantascientifica diventa metafora della condizione umana, la cui presunta “naturalità” si rivela essere solo una costruzione culturale. Il cyborg è al contempo essere umano e macchina, individuo situato oltre le categorie di genere, creatura sospesa tra finzione e realtà:

A cyborg is a cybernetic organism, a hybrid of machine and organism, a creature of social reality as well as a creature of fiction. Social reality is lived social relations, our most important political construction, a worldchanging fiction. The international women's movements have constructed 'women's experience', as well as uncovered or discovered this crucial collective object. This experience is a fiction and fact of the most crucial, political kind. Liberation rests on the construction of the consciousness, the imaginative apprehension, of oppression, and so of possibility. The cyborg is a matter of fiction and lived experience that changes what counts as women's experience in the late twentieth century. This is a struggle over life and death, but the boundary between science fiction and social reality is an optical illusion. (Haraway, 1991, p. 149)

44

Le immagini cyborg possono indicarci, secondo Haraway, una via di uscita dal labirinto di dualismi – sé/altro, uomo/donna, umano/macchina, cultura/natura, mente/corpo, organico/inorganico – attraverso i quali «we have explained our bodies and our tools to ourselves» (Haraway, 1991, p. 84).

La lesbica e il cyborg sono figure liminali, ibride, contaminate, che sconvolgono l’economia e i confini delle opposizioni binarie e si fondano sull’idea di diversità come fonte di ricchezza, sull’attenzione verso l’altro come strumento di conoscenza. L’identità ipotizzata da queste figure – che sono miti, utopie, invenzioni filosofiche e politiche – è quindi debole, provvisoria, in continua contrattazione con l’alterità. La discussione sull’identità è strettamente legata a quella sull’identità di genere, dal momento che le persone diventano intellegibili soltanto acquisendo una connotazione di genere conforme a standard ben riconoscibili. Come ha messo in evidenza Judith Butler nel suo celebre Gender Trouble (1990), i generi “intellegibili” sono quelli che istituiscono e mantengono relazioni di coerenza e continuità tra sesso, genere, pratica sessuale e desiderio. La “verità” del genere viene contestata da Butler, che lo considera invece una “finzione culturale”, un effetto performativo di atti reiterati:

Gender is the repeated stylization of the body, a set of repeated acts within a highly rigid regulatory frame that congeal over time to produce the appearance of substance, of a natural sort of being. (Butler, 1990, pp. 43-44)

Nel genere non c’è nulla di autentico, nessuna matrice originaria alla quale ricondurre le sue espressioni: «there is no gender identity behind the expressions of gender; (…) identity is performatively constituted by the very “expressions” that are said to be its results» (Butler, 1990, p. 33). Interrogandosi, inoltre, sul modo in cui le pratiche che regolamentano la formazione e la divisione del genere costituiscono l’identità e la coerenza interna del soggetto, Butler si chiede:

To what extent is “identity” a normative ideal rather than a descriptive feature of experience? And how do the regulatory practices that govern gender also govern culturally intelligible notions of identity? In other words, the “coherence” and “continuity” of “the person” are not logical or analytic features of personhood, but, rather, socially instituted and maintained norms of intelligibility. Inasmuch as “identity” is assured through the stabilizing concepts of sex, gender, and sexuality, the very notion of “the person” is

45

called into question by the cultural emergence of those “incoherent” or “discontinuous” gendered beings who appear to be persons but who fail to conform to the gendered norms of cultural intelligibility by which persons are defined. (Butler, 1990, p. 23)

Il “sesso” dunque, non è semplicemente qualcosa che una persona ha, o una descrizione fissa di ciò che una persona è: è una delle norme attraverso cui una persona diventa pensabile, e che qualifica un corpo per tutta la vita all’interno del campo dell’intelligibilità culturale.