• Non ci sono risultati.

L'(in)utilità del "pit-gazing": morte, memoria e narrazione nell'opera di Julian Barnes

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "L'(in)utilità del "pit-gazing": morte, memoria e narrazione nell'opera di Julian Barnes"

Copied!
235
0
0

Testo completo

(1)

1

ALMA MATER STUDIORUM – UNIVERSITÀ DI BOLOGNA

DIPARTIMENTO DI LINGUE, LETTERATURE E CULTURE MODERNE

Dottorato di Ricerca in

Letterature Moderne, Comparate e Postcoloniali

Settore concorsuale: 10/L1

Settore scientifico-disciplinare: L-LIN/10

Ciclo XXVII

L’(in)utilità del “pit-gazing”: morte, memoria e narrazione

nell’opera di Julian Barnes

Presentata da Valentina Chiesa

Coordinatore

Relatore

Prof.ssa Silvia Albertazzi

Prof.ssa Silvia Albertazzi

Correlatore

Prof. Maurizio Ascari

ESAME FINALE

Anno 2016

(2)

2 INDICE

INTRODUZIONE ... 4

CAPITOLO 1MORTE, MEMORIA E NARRAZIONE ... 8

1.1 La morte protagonista della vita ... 8

1.2 Morte e modernità ... 15

1.3 Breve storia della morte ... 18

1.4 Il discorso sull’anima ... 24

1.5 Il lutto ... 27

1.6 Dopo la morte: memoria e narrazione ... 31

1.7 Quale memoria? ... 36

1.8 La memoria della letteratura: tra memoria culturale e intertestualità ... 41

1.9 La memoria nella letteratura: la rappresentazione del “ricordare” ... 44

1.10 Le due sorelle: memoria/narrazione e immaginazione... 45

CAPITOLO 2“THE GREASY PIGLET” E IL VIAGGIO ALL’INDIETRO NEL TEMPO ... 49

2.1 La memoria delle cose ... 49

2.2 “Style is truth to thought” ... 54

2.3 Possiamo afferrare il passato? ... 59

2.4 L’inaffidabilità della Storia ... 62

2.5 (Proprio) le lezioni di storia ... 65

2.6 False verità ... 67

CAPITOLO 3RIAVVOLGERE IL NASTRO: IL TEMPO ROVESCIATO E IL RECUPERO DELLA VITA TRA MEMORIA E NARRAZIONE ... 75

3.1 La narrazione come esercizio ma anche "critica" della memoria ... 76

3.2 L’inganno del ricordare ... 78

3.3 Le metafore del nastro e della pellicola ... 81

3.4 Una teoria del tempo che viene da lontano ... 86

3.5 L’autenticità come chimera ...88

3.6 Un possibile ritorno all’oggettività: il ruolo dei testimoni ... 91

3.7 La fine come pensiero fondante di significato ... 94

CAPITOLO 4UN “PIT-GAZER” TENTA DI ESORCIZZARE LA PAURA ... 98

4.1 “Death is well alive” ... 99

4.2 Nascondere la morte, nella realtà come nel linguaggio ... 101

4.3 “God might be dead” ... 104

4.4 Una questione di vita e di morte ... 106

4.5 Alle radici della paura ... 109

4.6 Dalla paura alla scrittura ... 118

4.7 Si può sconfiggere, la paura?... 121

(3)

3

4.9 Nulla salva dalla paura. Ma non c'è nulla di cui aver paura. ... 129

CAPITOLO 5“NAVIGATING UNCHARTED TERRITORY”: DALL’AMORE AL DOLORE, ATTRAVERSO LA MORTE ... 135

5.1 Oates, Didion, Lewis e Loewenthal: altri volti del lutto ... 137

5.2 Dall’amore al dolore, attraverso la morte ... 146

5.3 Perdere l'orientamento ... 151

5.4 Il lutto nella vita quotidiana ...157

5.5 Il lutto negli occhi e nelle parole degli altri ... 162

5.6 Lutto e memoria ... 165

CAPITOLO 6NON MORIRE PER RICORDARE, RICORDARE PER NON MORIRE ... 170

6.1 Razionalità della scelta, decenza dell’atto ente ... 171

6.3 Dal Cristianesimo all’epoca moderna: dalla condanna alla rimozione ... 173

6.4 Camus e Nietzsche ... 176

6.5 Le dimensioni della scelta e della responsabilità ... 179

6.6 La morte costringe a tematizzare la vita ... 181

6.7 Una prospettiva sociologica ... 183

6.8 La lettura sfaccettata della psicanalisi ... 184

6.9 I motivi per andarsene ... 187

6.10 I motivi per restare. E ricordare ... 189

CAPITOLO 7“CHEER UP!DEATH IS ROUND THE CORNER.”LA VECCHIAIA, ASPETTANDO LA FINE ... 191

7.1 Edulcorare la fine e rileggere il principio ... 192

7.2 La terribile minaccia dell’Alzheimer ... 196

7.3 Gettare la spugna ... 200

7.4 Il tempo del ricordare... 203

7.5 Quando la memoria è una risorsa ... 205

7.6 Il corpo, la sessualità, l’amore ... 208

7.7 L’illusione dell’arte ... 212

7.8 Un tentativo di classificazione ... 213

EPILOGO LA FUGA NELLE VITE DEGLI ALTRI ... 217

CONCLUSIONI ... 223

(4)

4

INTRODUZIONE

«Non potendo parlare sempre della morte, tutti i nostri discorsi sono banali.» Nicolás Gómez Dávila

Il mio fortunato “incontro” con Julian Barnes, qualche anno fa, in una libreria londinese, è stato determinante per la scelta dell’argomento di questo lavoro. Il romanzo era Arthur & George, il tempo freddo e piovoso, e io mi accomodai in una delle comode poltrone sistemate tra gli scaffali. Passai buona parte di quel pomeriggio immersa nella lettura, catturata dalla vicenda che aveva per protagonista l’autore delle detective stories divorate durante l’adolescenza. Ma soprattutto deliziata dalla scrittura fluida di Barnes, classe 1946 (la stessa di mio padre, all’epoca già malato di Alzheimer), originario di Leicester (sì, proprio la cittadina delle East Midlands la cui squadra di calcio è assurta di recente a insperata fama), premiato con il prestigioso Man Booker Prize nel 2011 per The Sense of an Ending. Una prosa, la sua, elegantissima; l’arguzia, quella del fine intellettuale; lo stile, quello inequivocabilmente inglese del wit e dello humour.

Il merito di aver contribuito alla messa a fuoco dell’argomento della tesi va in primis alla professoressa Silvia Albertazzi che, nel 2012, ha accettato di seguire il mio progetto di dottorato presso l’Università di Bologna, affiancata, a partire dall’autunno dell’anno successivo, dal professor Maurizio Ascari. Il dialogo instaurato con entrambi i relatori, le loro osservazioni sempre preziose e puntuali, il proficuo scambio di idee che ha caratterizzato tutte le fasi del lavoro, hanno fatto sì che questa tesi prendesse forma e venisse ultimata.

Il primo capitolo, oltre a offrire una panoramica sullo sguardo dell’Occidente nei confronti della morte, si prefigge di evidenziare, nell’ambito dei diversi quadri teorici e critici di riferimento, i nessi tematici che legano a doppio filo morte, memoria e narrazione. L’intento è chiaramente quello di definire le coordinate interpretative grazie alle quali affrontare con maggiore consapevolezza e sistematicità l’analisi dell’opera barnesiana alla luce dei motivi che la attraversano: la paura dell’annichilimento, la riflessione sul passato, il ruolo dell’arte (e della scrittura) nell’affrontare la vita e la morte, la fallibilità della memoria, la ricerca della verità, il restringimento dell’orizzonte delle possibilità che caratterizza la vecchiaia.

(5)

5 Il secondo capitolo, imperniato su Flaubert’s Parrot, si propone di dimostrare come gli stessi meccanismi che caratterizzano la memoria individuale (di per sé fallace e inaffidabile) operino anche a livello di memoria collettiva. Per Barnes il passato – confuso e incerto, quasi mai verificabile – non si può afferrare del tutto, ma solo in parte e necessariamente da prospettive multiple: la storia è dunque sempre un “riscrittura” della realtà, una ricostruzione parziale e distorta degli eventi.

L’analisi del concetto di “tempo rovesciato” occupa gran parte del terzo capitolo, incentrato sul romanzo The Sense of an Ending, che fa del pensiero della fine un elemento fondante di significato. Qui il protagonista è portato a riadeguare il proprio punto di vista sul presente (e sulla vita) attraverso il tentativo di decifrare il proprio passato e la morte dell’amico Adrian, liberandosi progressivamente delle distorsioni causate dal trascorrere del tempo e dalle alterazioni della memoria.

Il quarto capitolo si sviluppa intorno al saggio Nothing to be Frightened of, una meticolosa autoanalisi condotta da Barnes con il distacco e lo humour che caratterizzano il suo atteggiamento verso la mortalità umana. Guardando al lascito di filosofi e scrittori, e ripensando alla storia della sua famiglia, l’autore ha cercato (invano) di esorcizzare la paura del nulla, concludendo che i grandi interrogativi dell’esistenza restano inevitabilmente senza risposta.

Il quinto è un capitolo di taglio comparatistico che pone a confronto Levels of Life, il memoir scritto in seguito alla morte della moglie Pat Kavanagh, con altri quattro memoir sulla perdita: The Year of Magical Thinking, di Joan Didion; A Widow’s Story di Joyce Carol Oates; A Grief Observed di C.S. Lewis e Lo specchio coperto di Elena Loewenthal, dai quali il lavoro di Barnes mirabilmente si distingue per la delicata prospettiva storica e romanzesca che l’autore assume nelle prime due sezioni del libro, in cui costruisce “an entire library of metaphorically rich imagery”1, prima di

riuscire ad analizzare, con l’ausilio di quelle stesse metafore e con la lucida razionalità che lo caratterizza, la propria personale sofferenza nella terza parte.

Il capitolo sesto affronta in chiave eminentemente psicoanalitica il complesso tema del suicidio in riferimento a The Sense of an Ending (in cui l’autore riprende il pensiero di filosofi come Camus e Nietzsche per spiegare la scelta di Adrian Finn di togliersi la vita), a Flaubert’s Parrot (in

1 T. Carroll, ‘History and Mortality: A Julian Barnes Reader’, Signature, 11 maggio 2016, http://www.signature-reads.com/2016/05/history-and-mortality-a-julian-barnes-reader/

(6)

6 particolare col personaggio di Ellen Braithwaite) e a Levels of Life, in cui Barnes, pur nella disperazione seguita alla scomparsa della moglie, elabora un’argomentazione forte contro quel tipo di gesto.

Il capitolo settimo è dedicato alla vecchiaia intesa come la fase dell’approssimarsi della morte, quando lo sguardo si volge all’indietro, il tempo diviene una questione stringente e i ricordi si fanno sempre meno affidabili. L’età senile è anche quella in cui si scandaglia il passato nel tentativo di confezionarne una life story adeguata, inventando, ricostruendo, colmando gli interstizi, in un processo del tutto analogo a quello che porta alla (ri)scrittura di un testo letterario.

L’epilogo, infine, vuole rappresentare un sorvolo sull’ultimo libro di Barnes, pubblicato in Inghilterra nel gennaio del 2016, quando ormai la stesura di questo lavoro era pressoché ultimata: The Noise of Time, romanzo biografico incentrato sulla figura del compositore russo Šostakovič, in cui l’autore torna a riflettere sulla morte e sulle possibilità (fittizie) che gli esseri umani hanno di sconfiggerla.

La tesi si propone di verificare come l’intera opera di Julian Barnes sia attraversata dall’ossessione dell’autore per il pensiero della fine nelle sue molteplici forme, a partire dal disimpegnato Metroland (1980) sino appunto al più recente The Noise of Time. Di fronte al passaggio da “qualcosa a niente del tutto”, davanti alla “finestra che dà sul niente” che è la morte, Barnes adotta un atteggiamento di risoluto distacco, anche quando si trova a parlare della scomparsa dell’amatissima moglie o quando affronta la prospettiva della sua stessa dipartita.

A ben vedere, però, l’imperturbabile razionalità che è la vera cifra dell’opera barnesiana, ne rappresenta anche il più grande limite: le riflessioni dell’autore rischiano a tratti di diventare, per dirla con Améry, “una monotona e maniacale litania”2. In altre parole, il pit-gazing, la fissità dello

sguardo vacuo, a capofitto nel buio del nulla di fronte al quale, pur riconoscendo la propria sconfitta, l’autore si ostina a insistere nella riflessione, tende a rivelarsi una scomoda zavorra per la sua poetica non meno che – possiamo azzardarci a supporre – per la sua stessa vita interiore.

Concludiamo con un’ultima, breve annotazione: nel condurre l’analisi critica si è scelto di dare ampio spazio alle citazioni dalle opere perché, come ci ricorda Barnes senza mai stancarsi, “all

(7)

7 answers are in the books”, tutte le risposte alle nostre domande (di lettori, di critici, di curiosi) sono nei romanzi stessi; al contempo, si è deciso di fare un uso il più limitato possibile delle dichiarazioni dell’autore, raccolte nel corso delle interviste, perché, ed è Barnes stesso a metterci in guardia,

I would warn anyone against taking an interview with a writer, however interesting and seemingly truthful, as a surer guide to the author’s intentions than the book itself. […] Nowadays, given the amount writers are interviewed, they inevitably either say the same thing time and time again so they no longer know whether they believe it or not, but it will do for the occasion, or they start saying different things just out of boredom. […] I try to answer the questions as accurately as possible, but it’s not always the best way to pass the time to end up saying what you’ve said before3.

Come a dire: esiste la possibilità che lo scrittore decida di mentire per noia…

3 V. Guignery, R. Roberts, Julian Barnes: the Final Interview, 4 aprile 2007 in V. Guignery, R. Roberts,

(8)

8 CAPITOLO 1MORTE, MEMORIA E NARRAZIONE

1.1 La morte protagonista della vita

Che Julian Barnes sia affascinato dal tema della morte è evidente sin dai tempi di Metroland, il suo primo romanzo, del 1980, seguito da Flaubert’s Parrot, successo editoriale con il quale lo scrittore si impone alla critica e al pubblico nel 1984. Non solo in buona parte dei suoi romanzi, infatti, la morte è protagonista strisciante che decide i destini e i pensieri dei personaggi; per l’autore la morte rappresenta anche, insieme alla memoria e all’inafferrabilità del passato e della verità, una assai feconda fonte di ispirazione.

Con una prosa precisa ed elegantissima che nulla lascia al caso, cesellando ogni frase come fosse un pezzo di artigianato finissimo e raggiungendo il risultato di una tecnica talmente alta da risultare invisibile, lo scrittore considera la fine in senso generale (quella che riguarda qualsiasi essere umano) e quella dei suoi cari, mostrando paura, se non un’ansia tormentosa, al pensiero della propria morte.

Che Julian Barnes sia un tanatofobico lo si sa da quando, nel 2008, l’autore lo ha dichiarato apertamente e con ironia in alcune interviste rilasciate in concomitanza alla pubblicazione di Nothing to be Frightened of: «And while I’m not the most death-fearing person in the book, I’m pretty high on the list.»1

In un’intervista apparsa sul Sunday Times nel marzo dello stesso anno, inoltre, parlando del brillante pastiche a metà tra saggio e memoir in cui riflette non solo sulla morte, ma anche su Dio, sulla memoria, sull’identità e sull’arte , lo scrittore ha spiegato: «I covered love and stuff in my earlier books. This one's about death. And death brings in God, and how you spend the period before death brings in art. And then there's how you got here, which is family.»2

Nel marzo del 2014, trent’anni dopo la pubblicazione del suo capolavoro Flaubert’s Parrot e sei anni dopo la conversazione apparsa sul Sunday Times, Barnes, che solitamente non si concede

1 J. O’Connell, ‘Julian Barnes: interview’, Time Out, 13 marzo 2008, http://www.timeout.com/london/books/julian-barnes-interview (sito visitato il 10 marzo 2013).

2 S. Herbert, ‘Julian Barnes - not dead yet, just dying’, The Sunday Times, 16 marzo 2008, http://www.thesundaytimes.co.uk/sto/culture/books/article82404.ece (sito visitato il 10 marzo 2013).

(9)

9 volentieri, ha rilasciato una lunga intervista televisiva a Mark Lawson per la BBC (“Mark Lawson talks to Julian Barnes”) tornando a parlare d’amore, di morte, di memoria e di dolore. Tra Nothing to be Frightened of e la trasmissione di Mark Lawson, Barnes ha vinto il Man Booker Prize nel 2011 con The Sense of an Ending, un romanzo in cui si intrecciano morte, memoria e storia, e pubblicato, tra gli altri, Levels of Life che, a metà tra saggio, romanzo e memoir, è anche una toccante riflessione sul dolore provocato dalla morte di una persona cara.

Il discorso sul senso della fine intesa come “cessazione delle funzioni vitali nell’uomo” porta a distinguere e a perlustrare due strade: la morte dell’altro e la morte di sé, entrambe legate a doppio filo alla riflessione filosofica sul senso della vita e della sua finitudine, sull’impatto che la morte dell’altro ha in termini di esperienza e di elaborazione del lutto e della perdita (Barnes ha dedicato un’ampia sezione di Levels of Life al grief, che in italiano viene appunto reso con dolore, afflizione, cordoglio, pena, lutto), nonché sull’angoscia derivante dal senso della propria fine. A nostro modo di vedere, nell’opera di Barnes tanto il pensiero della morte dell’altro quanto quello della propria, e dunque anche la paura della morte, sono legati alla riflessione filosofica nel senso che li si può “tenere a bada” (e Julian Barnes cerca di “controllarli”) ricorrendo appunto alla speculazione filosofica o, meglio ancora, facendoli diventare i veri protagonisti di alcuni suoi romanzi: come se lo scriverne diventasse quasi terapeutico e lo aiutasse ad alleviarne un po’ la pena. La letteratura si rivela dunque come uno dei livelli della vita, quello che con la sua penetrazione metaforica ci spinge a spiegare il senso più intimo ed essenziale dell’esistenza, fino a spiegare il senso della fine.

Per Barnes, questa riflessione rappresenta un’ottima strategia per gestire la paura della morte: lo scambio epistolare tra l’autore e il fratello Jonathan, filosofo oxoniano, il dialogo tra loro (di fatto ininterrotto in Nothing to be Frightened of), rappresenta non solo un modo per riflettere sulle tematiche che per Julian sono stringenti, ma anche un efficace pungolo narrativo.

Come ha spiegato Barnes nel corso dell’intervista a Time Out:

I started writing the book not quite sure of it in my head and not sure of what the mix between memoir and essay would be. I’d already started asking Jonathan questions by email – he lives in France now – and his answers were quite… provoking, and appetising. Probably not at a conscious level, I thought there was something in the exchange which could lead to a narrative theme. So I sent him the first twenty pages and said, “Look, this is the sort of book I’m writing and I think you ought to see it at this stage and please make corrections.”3

3 J. O’Connell, op.cit.

(10)

10 Nel memoir l’autore cita compositori, filosofi, scrittori, intellettuali, poeti e tra questi, Michel de Montaigne4, filosofo che si colloca proprio nel momento in cui nasce il pensiero moderno sulla

morte, punto di congiunzione tra l’antichità e il tentativo, ancora attuale, “to find a modern, grown-up, non-religious acceptance of our inevitable end.”5 Affermando che “philosopher, c’est apprendre à mourir” 6, Michel de Montaigne cita in realtà Cicerone, che a sua volta riprende Socrate, secondo

il quale la filosofia ha una sua utilità nel prepararci alla morte e nel placare le nostre paure perché ci insegna a prendere le (giuste) distanze dalle preoccupazioni terrene. Poiché la morte, afferma Montaigne, è un nemico che non si può evitare, “impariamo ad affrontarlo e a combatterlo”, non facendoci prendere alla sprovvista, bensì spogliandolo del suo carattere di estraneo, rendendolo consueto.

In filosofia l’atteggiamento nei confronti della morte oscilla tra due poli che possono essere sintetizzati nel pensiero di due grandi filosofi: Platone e Spinoza. Il contrasto tra l’atteggiamento dei due nei confronti della morte è sorprendente: per il primo, la morte è un argomento cruciale per qualunque filosofo, un tema sul quale occorre meditare senza sosta. Per il secondo, invece, è saggio chi la ignora, concentrandosi su altri aspetti dell’esistenza umana. Analogamente, “è più facile”, scrive Blaise Pascal, “accettare la morte senza pensarci che pensare alla morte”7: posizione dalla

quale Barnes non potrebbe essere più distante. Per Montaigne, e forse anche per Julian Barnes, poiché non ci è dato sconfiggere la morte, la miglior forma di resistenza consisterebbe nel pensarci di continuo. Infatti, nel momento in cui riflette, il filosofo si prepara a morire, perché dedica del tempo alla mente, ignorando quindi il corpo che la morte inevitabilmente annienterà e dunque l’ininterrotta meditazione sulla morte diventa un forte anestetico per la paura.

Nella prefazione a La casa di Psiche, Umberto Galimberti suggerisce che, di fronte alla mancanza di senso che caratterizza la vita e dunque anche la morte, “occorre la pratica filosofica. Fin dal suo sorgere, la filosofia si è applicata alla ricerca di senso.”8 Ed è come se Barnes facesse suo

4 Studiato per la prima volta all’università di Oxford, dove Barnes ha a suo tempo frequentato (ma per due soli semestri) i corsi di filosofia e di psicologia.

5 J. Barnes, Nothing to be Frightened of, London, Vintage Books, 2008, p. 39. Per le successive citazioni dal testo si indicherà direttamente il numero della pagina fra parentesi al termine della citazione stessa.

6 Si veda M. de Montaigne, Saggi, trad. it. di Garavini F., Milano, Adelphi, 1992. 7 B. Pascal, Pensieri e altri scritti, Milano, Mondadori, 2008, p. 195

(11)

11 questo pensiero, specialmente in Nothing to be Frightened of: di fatto, l’autore si avvale della riflessione filosofica per orientarsi, per conoscere e per capire, per tentare insomma di esorcizzare l’angoscia esistenziale che nasce dal pensiero della morte.

Per usare le lucide parole di Vladimir Jankélévitch, brillante filosofo francese di origine russa che si muove nell'atmosfera dell'esistenzialismo, pensando alla morte, cerchiamo forse “di dominarla [sebbene] questo non mi impedisca di morire. Nella misura in cui la penso, non ne sono dentro, ma fuori. Ne sono dentro se e in quanto muoio. Ma fintanto che la penso, non sono dentro, bensì fuori della mia morte.”9 Questo è ciò che probabilmente succede a Barnes, anche se, e questa è la differenza

sostanziale tra lo scrittore e il filosofo francese, la soluzione proposta da quest’ultimo in relazione alla paura della morte “è cercare di non pensarci, in primo luogo perché non c’è niente da pensare, niente da dire – in tal senso la morte è una sfida al discorso e al pensiero.”10

Secondo Galimberti, invece, “[e]vocando la morte, il vero rimosso della cultura occidentale, evochiamo il limite costitutivo dell’esistenza umana, la sua finitudine, di cui la sofferenza che costella la vita, la vita di tutti, è anticipazione e ineludibile richiamo.”11 Interrogarsi, come fa Barnes, sul senso

della morte, significa anche rifiutare quella che Galimberti definisce l’esperienza del negativo, “la non accettazione della propria finitezza, del proprio limite.”12 In questo senso, potremmo dire che

Barnes dimostra di avere, almeno in parte, un atteggiamento “filosoficamente greco” di fronte alla morte. Per i greci, dolore e morte sono intrinseci alla vita come condizioni del suo stesso accadere, vita e morte sono indissolubilmente legate in una circolarità ineludibile. “Nel ciclo naturale di vita e morte, il Greco elabora risposte attive all’ineluttabilità della morte. Il che significa farsi forte attraverso il dolore, tradurre la precarietà in impresa conoscitiva. Non rassegnarsi, non illudersi, ma conoscere.”13

Come ricorda Nietzsche, l’uomo è l’unico fra gli animali aperto al senso. Ma se accettare la morte è accettare l’implosione di ogni senso costruito da una biografia, che qui ha trovato la descrizione di sé, la sua identità, il suo nome,14 e se il senso è apertura totale alimentata dal desiderio

9 V. Jankélévitch, Pensare la morte?, Milano, Raffaello Cortina Editore, 1995, p. 56. 10 U. Galimberti, op. cit., p. 96.

11 Ivi, p. 12. 12 Ibid. 13 Ivi, p. 25. 14 Ivi, pp. 372-3.

(12)

12 (di) infinito di cui i mortali soffrono, allora la contraddizione, dolorosa, risulta evidente. Tanto per i filosofi qui citati quanto per lo scrittore, la morte definisce la vita, la determina, le dà un senso. In Nothing to be Frightened of Barnes afferma:

For me, death is the one appalling fact which defines life; unless you are constantly aware of it, you cannot begin to understand what life is about; unless you know and feel that the days of wine and roses are limited, that the wine will madeirize and the roses turn brown in their stinking water before all are thrown out for ever – including the jug – there is no context to such pleasures and interests as come your way on the road to the grave. (126)

In modo del tutto analogo, Jankélévitch sostiene che la morte, pur essendo irrevocabile e irreversibile, è l’evento che sigilla per sempre l’esistenza di una persona, cioè il fatto che quella persona è stata: “morire è la condizione stessa dell’esistenza. [La morte] è il non-senso che dà un senso negando questo senso.”15

Galimberti sostiene che proprio in merito alla contraddizione “esplosiva” tra finitudine umana e desiderio (di) infinito la filosofia può ancora dire qualche cosa di nuovo. Sebbene Barnes sembri voler prendersi gioco della filosofia e dei filosofi16, se è vero che la filosofia è, per citare Edgar Morin,

“una forza di interrogazione e di riflessione che verte sui grandi problemi della conoscenza e della condizione umana”17, e se concordiamo sul fatto che Barnes, soprattutto in Nothing to be Frightened of medita, si interroga, esamina la questione18, cerca di capire, creando e ricreando sé stesso

attraverso la riflessione e la scrittura, allora possiamo affermare che l’autore ricorre ─ suo malgrado ─ alla pratica filosofica. In fondo, lo afferma lui stesso, illustrando il miglior scenario possibile immaginato per la propria morte:

«The best case, in my fantasizing, used to turn on a medical diagnosis which left me just enough time, and just enough lucidity, in which to write that last book – the one which would contain all my thoughts about death. Although I didn’t know if it was going to be fiction or non-fiction, I had the first line planned and noted many years ago: ‘Let’s get this death thing straight.’» (100, enfasi di chi scrive)

15 V. Jankélévitch, op. cit., p. 44.

16 A titolo di esempio, si veda, in Nothing to be Frightened of, il lungo paragrafo in cui, a pagina 42, con ironia l’autore “smonta”, a uno a uno, gli argomenti addotti da Montaigne.

17 E. Morin, La testa ben fatta, Riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero nel tempo della

globalizzazione, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2000, p. ??

18 Nelle parole dello scrittore: «I regarded it [Nothing to be Frightened of] as an examination of the case rather than as an autobiography. […] I had this notion of writing a book about death which started “Let’s get this death thing straight” as long as twenty years ago.» Si veda J. O’Connell, op. cit.

(13)

13 D’altra parte, non abbiamo la minima idea della morte, dato che si tratta di un “ordine tutt’altro”19 e di conseguenza, nonostante i pensieri che elaboriamo sulla fine, non possiamo che

essere insoddisfatti, per dirla con Jankélévitch, attaccati come siamo alle forme empiriche del pensiero. La morte è l’altro senza alcun punto di riferimento, senza relazione a niente nell’al di qua.20

Leggendo le riflessioni di Barnes, l’impressione è che lo scrittore conosca molto bene e, in qualche misura, condivida il pensiero del già citato Jankélévitch. Se ciò non fosse, sarebbe comunque utile ricorrere alla riflessione di quest’ultimo, perché i punti di contatto tra Barnes e il filosofo francese sono molti e sorprendenti. Anche il piglio con cui affrontano il discorso sulla morte pare piuttosto simile, così come l’ironia, godibilissima, o lo stile loquace e un poco proustianamente divagatorio che utilizzano per parlare della finitudine umana.

Che non esista una sola verità è un concetto profondamente postmoderno e Barnes, in quanto scrittore della postmodernità, ne è convinto. Esiste forse una verità nella letteratura, ma non ci è dato di trovarla nella vita reale. Come Barnes, anche Jankélévitch era un agnostico che, per usare le sue stesse parole, guardava ai problemi “con le sole risorse della riflessione razionale.”21 Egli sostiene

che “non raggiungeremo mai una conoscenza certa delle cose; ma vivremo sempre nel miraggio di poter raggiungere concetti finalmente ‘reali’ e definitivamente ‘veri’.”22 Come Barnes, il filosofo

francese ritiene che la morte sia un fenomeno demografico e medico e in questo senso sia la cosa più banale del mondo. Nella misura in cui “la morte è l’assenza di futuro, la distruzione di ogni futuro, di ogni avvenire quale che sia o per quanto poco probabile sia – la morte è disperante.”23 Così pure

per Barnes, l’angoscia della morte riguarda il passaggio da qualcosa a qualcosa d’altro che non ha forma, che non è conosciuto né conoscibile. Anzi, non è neppure un passaggio, è qualcosa di indefinito: una finestra che non dà su niente. È pertanto “l’angoscia di qualcosa di irrappresentabile: un’esperienza che non è stata mai fatta e che si fa sempre per la prima e l’ultima volta […].”24

19 V. Jankélévitch, op. cit., p. 44. 20 Ivi, p. 94.

21 Ivi, p. 48. 22 Ivi, p. 18. 23 Ibidem. 24 Ivi, p. 95.

(14)

14 Sembra che la società odierna non riesca a produrre risposte efficaci e convincenti contro la paura della morte: Elias sostiene che la soluzione nel breve termine è la sua rimozione.25 Sviluppando

un’intuizione di Philippe Ariès, secondo il quale minore è il grado di differenziazione dal contesto sociale, più facile è per l’individuo affrontare la fine, pare sensato sostenere che a un più elevato tasso di individualismo in una società corrisponda un più basso livello di accettazione del pensiero della morte.

Come si può tenere a bada la paura di morire? Secondo Jankélévitch, ingannandoci, attribuendo la morte sempre agli altri, attraverso un rinvio e un rimando continui. “L’esistenza stessa,” sostiene il filosofo, “presuppone costantemente questo inganno: “So che morirò, ma non ci credo” […] Lo so, ma non ne sono intimamente persuaso. Se ne fossi persuaso, completamente certo, non potrei più vivere.”26 e pare che Barnes cada nello stesso inganno. La maggior parte di noi, infine,

cade nella medesima trappola perché essa ci aiuta ad annientare l’ansia causata dal pensiero della fine e ci permette di continuare a vivere “come se niente fosse”, come se, in fondo, la morte potesse capitare a tutti gli altri tranne che a noi.

Potrebbe darsi che l’articolata riflessione portata avanti in Nothing to be Frightened of aiuti Barnes a persuadersi della certezza della propria finitudine: “Reminding myself of mortality (or, more truthfully, mortality reminding me of itself) is a useful and necessary prod.” (108)

A proposito dell’angoscia di morte, Philippe Ariès puntualizza che l’atteggiamento medievale, in cui la morte vicina e familiare è, al tempo stesso, rimpicciolita e sdrammatizzata, è decisamente in contrasto col nostro: noi della fine abbiamo tanta paura da non osar più pronunciare il suo nome.27

E ci ricorda che esistono due modi di non pensare alla morte: il nostro, ossia quello della civiltà della tecnica, che la rifiuta e la colpisce d’interdetto; e quello delle civiltà tradizionali, che non è rifiuto, ma impossibilità di pensarla intensamente, perché essa è troppo vicina alla vita di ogni giorno.28

È significativa, infine, la definizione (peraltro pienamente in linea con il pensiero di Montaigne) che di “morte” dà l’Encyclopédie (1765-1772): “Dacché la morte è altrettanto naturale

25 Citato in A. Micalizzi, La rete di Thanatos. Memorie digitali, commemorazioni e riti di commiato

nell’IperModernità, Edizioni Homeless Book (eBook), 2012, p. ??

26 Ivi, p. 37.

27 P. Ariès, L’uomo e la morte dal medioevo a oggi, Roma-Bari, Editori Laterza, 1980, p. 32. 28 Ivi, pp. 24 e ss.

(15)

15 della vita, perché averne tanta paura?... Gli uomini temono la morte come i bambini le tenebre, soltanto perché la loro immaginazione è stata atterrita con fantasmi vani quanto terribili.”29 D’altra

parte, la paura della morte, all’epoca, appariva superabile attraverso l’atteggiamento mondano del borghese, il quale, attraverso il lavoro, poteva sottrarre alla morte la sua qualità di telos che adombra la vita.30 Tuttavia, nell’illuminato mondo della borghesia, la morte rimaneva pur sempre

un’incertezza, un problema non chiarito, un qualche cosa di oscuro, proprio perché essa, sia pure concepita come naturale e profana, contraddiceva i postulati più importanti della razionalità illuminista: il valore dell’individuo, il progresso e l’autonomia della civiltà, la possibilità di calcolare e dirigere le cose.31

1.2 Morte e modernità

Nel definire l’impianto teorico a partire dal quale verranno analizzate le riflessioni di Barnes sulla morte non si può trascurare il discorso socio-antropologico, quello che mira a indagare come sia cambiato, nel corso del tempo, l'atteggiamento dell'uomo nei confronti della morte, o piuttosto, come ha ricordato Jankélévitch, nei confronti delle pratiche intorno alla morte32.

Nel suo saggio Fuchs si propone di confutare la tesi della rimozione della morte nella società odierna. Sebbene il sociologo tedesco non arrivi forse a dimostrare il punto in modo del tutto convincente, il saggio illustra, con l’ausilio di un buon apparato empirico, l’attuale secolarizzazione e l’abbandono della trascendenza in tutto quel che riguarda la morte. Se è vero che “il tentativo […] di disattivare l’angoscia di morte […] percorre tutta la storia spirituale dell’Europa e culmina nella filosofia dell’epoca moderna”33, è anche vero che lentamente si è affermato nella storia ciò che la

29 Cit. in W. Fuchs, Le immagini della morte nella società moderna, Torino, Einaudi, 1973, p. 71.

30 Fuchs, poi, ricorda che in età moderna i borghesi rifiutano di dedicare troppi pensieri alla morte così come rifiutano la stessa paura di morire in quanto irrazionale.

31 W. Fuchs, op. cit., pp. 70 e ss.

32 Jankélévitch si chiede se esista in effetti un atteggiamento riguardo alla morte, dato che la parola stessa implica “l’idea di qualcosa che ha una propria continuità. […] Un atteggiamento, quindi, è inutile, dato che in generale l’atteggiamento – concetto del tutto antropologico e sociale, come tale indispensabile solo all’esistenza ordinaria – non è rivolto alla morte, sulla quale non c’è niente da dire, ma semmai all’uso che si fa dei morti.” Si veda V. Jankélévich, op. cit., pp. 95 e ss.

(16)

16 morte significa oggi, ovvero fine irreversibile, consunzione fisica, evento ormai privo dei suoi “stretti ed esclusivi legami con le forze oltremondane”. Liberata dalla connessione con la trascendenza la morte diventa “nemico e avversario, contro il quale debbono essere adoperate le forze della natura.” Se un tempo il cristianesimo abituava l’uomo a vivere la morte con familiarità, da un lato imparando a morire (la mortificazione è un concetto cristiano), dall’altro insistendo sull’aldilà (sul momento, cioè, in cui si comincerebbe a vivere davvero), oggi queste credenze risultano indebolite.34

Come conferma Marina Sozzi, “il morire si presenta oggi come “problema” o questione aperta, non solo in assoluto, ma anche per via di un disagio e una sofferenza particolarmente acuti relativi al modo in cui lanostra cultura ha selezionato i comportamenti per dire addio all’esistenza. La società occidentale oggi percepisce la morte, soprattutto quando non giunge in tarda età, come “intollerabile”, e la situazione del morente come un abisso di solitudine; vive una crisi rituale e una difficoltà nel superare il lutto.”35

Christian von Ferber sostiene che la morte nella nostra società è gravata da un’inibizione comunicativa36: l’esperienza primaria della comunicazione quotidiana consente di stabilire che la

morte non è tollerata come tema di conversazione. Parlarne significa infrangere le convenzioni. Lo ha rilevato anche l’antropologo inglese Geoffrey Gorer: oggi, in Gran Bretagna, si guarda ancora alla morte con lo stesso pudore che, un secolo fa, permeava tutto ciò che riguarda la sessualità. Della morte non sta bene parlare: qualunque riferimento alla scomparsa di un individuo è considerato “spiacevole” o “sconveniente”.37 È l’uomo dei tempi moderni che ha cominciato a provare

un’inclinazione alla reticenza nei confronti del momento della propria morte, o, per dirla con Ariès, che ha cominciato ad allontanare la morte a distanza di sicurezza dalla vita, allontanando un poco l’idea della fine, in maniera discreta, senza spingersi ancora a una volontà di rifiuto, d’oblio o d’indifferenza.38

La fine inattesa, un tempo spaventosa perché in essa si era conservato il ricordo della morte procurata da forze ostili (la norma per le società primitive), viene anteposta oggi a ogni altra forma

34 V. Jankélévitch, op. cit., p. 76.

35 M. Sozzi, Reinventare la morte. Introduzione alla tanatologia, Roma-Bari, Laterza, 2009, p. 18. 36 Cit. in W. Fuchs, op. cit., p. 101.

37 G. Gorer, Death, Grief, and Mourning in Contemporary Britain, The Cresset Press London, 1963, pp. 111 e ss.

(17)

17 del morire: è infatti dominante il desiderio di una morte rapida, inaspettata e quindi priva, per quanto possibile, di dolore e sofferenza.39

In concomitanza con lo sgretolarsi di quelle strutture familiari o collettive che costituivano una rete di supporto per l’organizzazione dei riti funebri e commemorativi, questi compiti tendono man mano ad essere attribuiti all’ambito istituzionale, civile o religioso, ed assolti nella pratica dalle imprese funebri. Nella società odierna, per un numero sempre minore di morenti l’evento morte si verifica a casa, nella cerchia familiare: per i più, la morte avviene nel contesto asettico degli ospedali, delle cliniche o di strutture di ritiro per anziani.40 Anche lo studio di Geoffrey Gorer rivela un trend

analogo e pare dunque che morire nel proprio letto stia diventando via via sempre più eccezionale.41

Il campione di Gorer conferma anche la tendenza secondo cui, per citare Pascal, oggi “si muore soli”42. In Gran Bretagna la maggior parte dei decessi avviene in solitudine o in presenza del

personale medico, e la presenza o meno di una persona cara è correlata alla classe sociale del morente:

«Most people, it would seem, now die alone, except for medical attendants; less than a quarter of the bereaved were present when their relative died […]. In the upper middle and professional classes it is rare for the bereaved person to be present at death (less than 1 in 8); as one descends the class structure, presence becomes more common, reaching nearly a third in the unskilled working class.»43

Come si è detto, ai familiari del moribondo, gradualmente sostituiti dal personale sanitario, spettano ruoli tutto sommato sporadici e periferici.44 Di conseguenza, si è arrivati a ritenere che la

morte sia causata più dall’insufficienza delle istituzioni mediche che da una legge naturale, e che non rappresenti più una condizione biologica immanente, bensì l’imprevedibile punto di rottura della tecnologia medica.45 Si accentuano i tratti che hanno caratterizzato la società moderna: la morte

viene trasformata in qualcosa di invisibile, definitivamente eluso dal contesto sociale. 46

39 W. Fuchs, op. cit., pp. 90-3. 40 Ivi, p.

41 G. Gorer, op. cit., p. 17. 42 B. Pascal, op. cit., p. 44. 43 G. Gorer, op. cit., p. 19. 44 W. Fuchs, op. cit, pp. 155-156. 45 Ivi, p. 93.

46 “I am going to the inevitable” disse in punto di morte Larkin, defunto nel 1985, all’infermiera che gli teneva la mano. Si veda R. Cooke, ‘In Search of the Real Philip Larkin’, The Guardian, 26 giugno 2010.

(18)

18 Proprio perché, come sottolinea Fuchs, non esiste un’immagine moderna della morte consistente e storicamente univoca, e in considerazione del fatto che le immagini arcaiche sono tutt’altro che liquidate, può essere utile ricordare brevemente le tappe fondamentali del percorso che, a partire dal Medioevo, ha caratterizzato l’atteggiamento dell’uomo davanti alle “cose della morte”, anche in considerazione del fatto che alcuni concetti (come quello della “buona morte” o della morte improvvisa) torneranno utili per la nostra analisi dell’opera di Julian Barnes.

1.3 Breve storia della morte

Lungi dal voler essere un excursus storico fine a se stesso, questa sintesi si propone di individuare le origini dei grandi mutamenti della percezione della morte nel nostro secolo, per arrivare a verificare come nelle società post industriali e secolarizzate, il modo di guardare alla morte sia cambiato nella sostanza: da sacrale poco alla volta l’atteggiamento diventa asettico e fortemente medicalizzato.

Anzitutto, colpisce che in un mondo pervaso dal meraviglioso come quello medioevale, la morte fosse, al contrario, descritta in termini la cui semplicità contrasta con l’intensità emotiva del contesto. Nell’alto medioevo la morte era regolata da un rituale consuetudinario, descritto quasi con compiacimento. La morte comune non coglieva mai a tradimento, nemmeno quando era conseguenza di una ferita: a ogni causa seguiva un effetto che, quando noto e riconosciuto, veniva passivamente accettato. La morte improvvisa o repentina, invece, squarciava l’ordine del mondo, diventando assurdo strumento di un caso spesso mascherato da collera divina, ed era perciò ritenuta infamante e vergognosa, al pari della morte clandestina, quella che avveniva senza testimoni né cerimonia. Siamo dinnanzi alla morte che non accorda dilazione, che non avverte ed è temuta da tutti.47

Se per tutto il medioevo la morte risulta socializzata all’interno della comunità e può quindi essere descritta, secondo la definizione data da Ariès, come “addomesticata”48, in seguito poco alla

volta le cose cambiarono. Già dalla fine del Trecento si reputava che, in un mondo in cui regnasse la moderazione, anche la morte dovesse esser soggetta alla comune legge della misura. Risale appunto

47 P. Ariès, op. cit., pp. 6 e ss.

(19)

19 alla fine del Trecento l’idea della “buona morte”, della morte bella ed edificante, quella dell’uomo giusto, di colui che non pensa alla propria morte fisica soltanto quando questa arriva, perché ci ha pensato per tutta la vita. Questo modello, pur essendo ancora vicino a quello tradizionale della morte addomesticata, preannuncia, di fatto, la morte romantica. Non solo: essendo epilogo di una vita giusta trascorsa nel mondo, è, sì, simile alla morte tradizionale, familiare e fiduciosa, ma con in più una punta di dramma e di messa in scena in cui si può riconoscere il segno dell’età barocca.49

A partire dal Quattrocento traspare un atteggiamento nuovo o, quantomeno, una svalutazione a stento confessata dei vecchi atteggiamenti medievali: la funzione fondamentale dell’avvertimento si attenua e addirittura scompare.50 Se per l’uomo del medioevo e del primo Rinascimento la morte

rappresenta comunque il “centro di repulsione”, nel Quattrocento e nel Cinquecento sono la vita e il mondo a essere considerati marci, vacillanti: la morte e la vita si sono scambiate le parti.51 Tuttavia,

se ancora la morte non fa paura, in compenso costituisce un problema: comincia a diffondersi una nuova ansia legata a tutto ciò che riguarda la fine dell’essere umano.

Fino a tutto il Cinquecento, si è convinti che non è al momento della morte né al suo approssimarsi che bisogna pensare ad essa, ma bisogna farlo nel corso di tutta la vita. Ne è prova il fatto che i trattati mistici del tempo non sono più finalizzati a preparare i moribondi al trapasso, ma a insegnare ai vivi a meditare sulla fine. In siffatto contesto, non stupisce dunque che la morte diventi pretesto per una meditazione metafisica sulla fragilità della vita, per non cedere alle sue illusioni.52

Certo, nel quotidiano la morte resta un momento importante, ma gli uomini dotti, dal Cinque al Settecento, sono restii ad ammetterlo e tentano di sminuire la sua intensità o la sua portata: la morte perde i suoi poteri quasi magici e irrazionali; la morte improvvisa e la morte violenta vengono banalizzate.

Se fino a tutto il Cinquecento la morte sembra aver perso il carattere di presenza vigorosa che aveva nel Medioevo, nel corso del Sei e del Settecento essa torna sotto un’altra forma, quella del corpo morto, dell’erotismo macabro e della violenza naturale. È alla fine del Seicento che la morte e il corpo morto divengono oggetto di studio scientifico.

49 P. Ariès, op. cit., pp. 358 e ss. 50 Ivi, p. 344.

51 Ivi, pp. 384-385. 52 Ivi, pp. 347-348.

(20)

20 Con la nascita delle scienze naturali e il graduale allontanamento dai contenuti dottrinali offerti dalla religione, grazie alle importanti scoperte in campo medico che determinano una riduzione del tasso di mortalità, prende piede e si radica la convinzione secondo cui la morte, appunto naturale, biologica e funzionale al processo evolutivo, derivi da cause che agiscono sugli uomini in quanto parte della natura. Se gli uomini possono dominare la natura, allora possono anche dominare la morte. Ecco che la medicina acquista già nel periodo rinascimentale il carattere di prevenzione della morte. Già nella prima metà del Seicento, Francis Bacon sosteneva che “il terzo compito da noi attribuito alla medicina, cioè il prolungamento della vita, è nuovo ed è fra i desiderata.”53

Le pretese dell’uomo verso la vita, ovviamente, sono aumentate insieme al suo potere. Pensiamo a come viene considerata, oggi, la scienza medica, che, come ha rilevato Jankélévitch, a ben guardare, ci porta davvero a credere nei miracoli. Il ruolo del medico consiste essenzialmente nel preservare la vita e prolungarla quanto più è possibile. Di conseguenza, l’uomo non può essere preparato a vivere con familiarità qualcosa che crede di poter rimandare54 indefinitamente (grazie

appunto alla medicina).

Lungo tutto il Seicento, la morte diventa silenziosa, discreta, e destinata quasi a venire “eliminata”.55 Ecco l’inclinazione alla reticenza cui si è fatto cenno e che porterà, nel primo

Settecento, a focalizzarsi sul “nulla”, sull’annientamento del corpo, sulla brevità della vita. Come ha scritto Ariès, “ancora oggi, il niente può rivolgersi a noi con la stessa forza che aveva nei secoli XVII e XVIII”56: Barnes conosce bene questo genere di stato d’animo, tanto da dichiararlo in alcune

interviste e da sostenere in Nothing to be Frightened of di essersi ritrovato in più occasioni, sveglio nel cuore della notte, a prendere a pugni il cuscino urlando “No!” per allontanare il pensiero dell’annichilimento.57

Nel secolo dei lumi, i significativi capovolgimenti culturali e sociali portano a un progressivo allontanamento del pensiero della fine fino alla sua completa rimozione, dovuta all’allontanamento

53 W. Fuchs, op. cit., pp. 61-65. 54 V. Jankélévitch, op. cit. pp. 76-77. 55 P. Ariès, op. cit., p. 386.

56 Ivi, p. 399.

57 “Only a couple of nights ago, there came again that alarmed and alarming moment, of being pitchforked back into consciousness, awake, alone, utterly alone, beating pillow with fist and shouting ‘Oh no Oh No Oh NO’ in an endless wail, the horror of the moment – the minutes – overwhelming what might, to an objective witness, appear a shocking display of exhibitionist self-pity.” (126)

(21)

21 dai modelli tradizionali per quel che riguarda il ruolo del singolo rispetto alla comunità, alla fiducia maturata verso le scienze mediche e tecniche (che sembrano poter definitivamente realizzare il sogno dell’amortalità58) e al deciso allontanamento dalla visione religiosa e dall’idea di morte come fatto

meramente individuale.59

Con l’affermarsi dei principi e degli ideali borghesi tra fine Settecento e inizio Ottocento, la rappresentazione della morte come forza violenta e legittimata dalla religione a poco a poco perde forza per cedere il passo a una visione della morte come “legge naturale, che agisce quando le forze biologiche dell’uomo sono alla fine.”60 In altre parole, si assiste in questo periodo al passaggio da

un’ottica eminentemente spirituale, sovrannaturale, religiosa, a una prettamente naturale, biologica, evoluzionista. La morte viene vista come fenomeno naturale, che pone fine a una vita che si sta logorando, o a un corpo che sta deperendo. Come ebbe a teorizzare Freud, “[s]e dobbiamo necessariamente morire, e prima dobbiamo perdere le persone che ci sono più care, preferiamo esser soggetti a una legge naturale inesorabile, alla sublime Λνανχη [necessità], piuttosto che a un caso che forse avremmo potuto evitare. Ma questa convinzione della necessità interna della morte è forse soltanto una delle illusioni che l’uomo si è creato perché “solo così sopporta il peso della vita”61. La

dipartita di un essere umano non è più considerata come qualcosa di sconvolgente e le conseguenze della morte di un individuo non sono più irreparabili. Anzi, la vita continua. Questa espressione generica viene intesa in riferimento alla vita terrestre o, meglio, dell’intero universo. La vita e la morte sono pertanto aspetti del tutto naturali regolati dalle leggi della natura. Questa è anche la concezione di Barnes, il cui pensiero appare evidente, per esempio, in Levels of Life:

«I would drive home from the hospital and at a certain stretch of road, just before a railway bridge, the words would come into my head, and I would repeat them aloud: ‘It’s just the universe doing its stuff.’ […] The words didn’t hold any consolation; perhaps they were a way of resisting alternative, false consolations.» (74, enfasi di chi scrive)

58 È qui utile distinguere, come suggerisce Morin, il concetto di amortalità da quello di immortalità: la prima attiene all’aspirazione dell’uomo occidentale moderno di protrarre in eterno la sua esistenza sulla terra, senza alcuna visione escatologica sulle sorti della propria entità oltre la morte; la seconda, invece, ha a che fare con i meccanismi adattivi generati in risposta alla paura della morte e alla ricerca di un senso della propria esistenza. Per un approfondimento si rimanda dunque a E. Morin, L’uomo e la morte, cit.

59 A. Micalizzi, op. cit., p. 55. 60 W. Fuchs, op. cit., pp. 51-56.

61 S. Freud, Al di là del principio del piacere, in Opere 1917-1923, L’io e l’es e altri scritti, Torino, Boringhieri, 1977, p. 230.

(22)

22 Tornando all’excursus storico, è interessante rilevare come, a partire dal Settecento, i segni caratteristici della morte non ispirino più orrore e repulsione, ma attrazione e desiderio: si viene infatti elaborando tutto un repertorio di forme e di atteggiamenti che andranno raffinandosi fino all’inizio dell’Ottocento. Il cadavere non deve scomparire, poiché in esso qualcosa sussiste: questa sorta di essere a sé che si ravvisa nel corpo morto suscita il desiderio ed eccita i sensi.62 Nel corso del

Settecento non è del tutto eccezionale che si conservi in casa il corpo della persona di cui non ci si vuole privare dandole sepoltura.

È tuttavia agli inizi dell’Ottocento che “qualcosa di irreparabile”63 interviene nelle millenarie

relazioni fra l’uomo e la morte. La preoccupazione di seppellire un essere umano ancora vivo si manifesta per tutta la prima metà dell’Ottocento, come dimostrano i testamenti e la letteratura medica del tempo64. Sebbene alla fine del secolo la morte apparente abbia già perduto il suo potere

ossessivo, intanto la superficie immobile degli atteggiamenti davanti alla finitudine è stata agitata da una sorta di sommovimento: per dirla con Ariès, “senza dubbio la prima manifestazione della grande paura della morte.”65

L’antropologo francese ha evidenziato che, prima del Settecento, gli uomini non hanno mai avuto veramente paura della morte. Certo la temevano, provavano di fronte a essa una qualche angoscia, ma questa non oltrepassava mai la soglia dell’ineffabile, dell’inesprimibile. Si traduceva, anzi, in parole rassicuranti e veniva canalizzata in riti familiari. Ma è proprio quando si cominciano a giocare con la morte dei “giochi perversi” che la gravità del sentimento di quest’ultima si trova a essere intaccata, qualcosa muta nell’antica familiarità dell’uomo con la morte ed è proprio a questo momento che viene fatto risalire l’inizio della paura: “[s]i è stabilito un rapporto tra la morte e il sesso; perciò essa esercita un fascino, un’ossessione come il sesso: indizi di un’angoscia fondamentale a cui non si riesce a dare un nome.”66

62 Sebbene l’accostamento di Eros a Thanatos non sia ancora palese, nell’immaginario dell’uomo morte e violenza sono associate al desiderio.

63 P. Ariès, op. cit., p. 461. 64 Ivi, pp. 464-468. 65 Ivi, p. 471. 66 Ivi, p. 475.

(23)

23 È proprio all’inizio dell’Ottocento che, con insolita brutalità, emerge una sensibilità nuova: l’incapacità di adattarsi alla perdita delle persone care, l’“intolleranza della morte dell’altro”67, la

volontà e la certezza di ritrovare gli scomparsi in una vita ultraterrena e l’ammirazione della morte come fenomeno colto nella sua intrinseca bellezza.68 La fine viene drammatizzata e diviene

dominante: si esce dalla contemplazione di se stessi e del proprio destino per osservare con più attenzione quello altrui, per piangere la dipartita dell’altro. Nel corso del secolo, tutto ciò che riguarda il corpo, l’anima, la salvezza va progressivamente sottraendosi al dominio del diritto per diventare affare domestico. Si è convinti della continuazione dopo il trapasso degli affetti della vita che, coltivati e persino esaltati, rendono più dolorosa la separazione e invitano a cercare un compenso nel ricordo: è quella che Ariès ha definito la rivoluzione del sentimento di matrice romantica. La presenza al letto di morte ha un significato che va oltre la partecipazione a una cerimonia sociale di rito, significa assistere a uno spettacolo che conforta ed esalta, apoteosi che in realtà nasconde una sottile contraddizione: questa morte non è più la morte, è una illusione dell’arte. Proprio in quest’epoca si diffonde il culto dei morti attraverso monumenti e celebrazioni, e nasce il culto delle tombe.69

Dalla seconda metà dell’Ottocento, i famigliari celano al moribondo la verità della sua condizione, per timore di fargli del male e di togliergli la speranza, nell’intento di proteggerlo lasciandolo nell’ignoranza della sua prossima fine. Per Ariès, questa menzogna segna l’inizio del processo che ha portato gli esseri umani a spingere la morte nella clandestinità. Si giunge così a quella che è stata definita come morte proibita: la morte scompare dal panorama sociale, perché la vita deve essere bella e felice e la finitudine non può far parte di questo panorama. Si comincia a sottolineare gli aspetti disgustosi della morte, che diventa pertanto sconveniente come gli atti biologici dell’uomo, come le secrezioni del suo corpo e viene così relegata perché brutta e sudicia.70

La morte nascosta in ospedale, che è anche il luogo della morte solitaria, fa la sua comparsa negli

67 Ivi, p. 538. Si veda anche p. 655: “Il culto dei cimiteri e delle tombe è manifestazione […] della sensibilità nuova, che dal Settecento in poi, rende intollerabile la morte dell’altro.”

68 Ivi, pp. 516-517. 69 Ivi, pp. 552 e ss. 70 Ivi, pp. 662 e ss.

(24)

24 anni Trenta e Quaranta del Novecento, per generalizzarsi dopo il 1950. Come ha ben sintetizzato Ariès,

“[i] rapidi progressi del comfort, dell’intimità, dell’igiene personale, dei principi asettici, hanno reso tutti più delicati; […] i sensi non sopportano più gli odori e gli spettacoli che ancora nel primo Ottocento, con la sofferenza e la malattia, facevano parte della vita di tutti i giorni. La sequela dei fenomeni fisiologici è uscita dalla routine per passare nel mondo disinfettato dell’igiene, della medicina e della moralità […]. Questo mondo ha un modello esemplare, l’ospedale […].”71

I due conflitti mondiali, infine, mettono il mondo intero dinnanzi alla morte di massa: la guerra lascia migliaia di corpi senza vita non più solo sui campi di battaglia, ma anche nelle città bombardate e nelle camere a gas.

A partire dal 1945, la morte è diventata sempre più dominio della medicina. Ciò è dovuto, da un lato, al progresso delle tecniche chirurgiche e mediche, dei procedimenti di rianimazione, di attenuazione del dolore e della sensibilità; dall’altro, al disagio che proviamo di fronte alla malattia grave, alla ripugnanza fisica che essa ci provoca, al bisogno di nasconderla a sé e agli altri.72

1.4 Il discorso sull’anima

La figura giacente nella sua formulazione arcaica è un homo totus che dorme, un connubio di corpo e anima votato prima al riposo, poi alla trasfigurazione, alla fine dei tempi.73 Nel Medioevo la

morte è rappresentata dall’uomo che giace a letto malato, che si accomiata dal mondo e che raccomanda la sua anima a Dio. Dalla fine del Trecento, però, essa diventa qualcosa di metafisico che si esprime con una metafora: la separazione dell’anima dal corpo.74 Si tratta di un passaggio

fondamentale a cui non solo occorre risalire per spiegare l’attuale attenzione per il corpo e quindi per le pratiche mediche, ma in cui, tra l’altro, è anche utile collocare il dibattito bioetico contemporaneo che cerca una risposta all’interrogativo su quale sia il momento preciso in cui una

71 Ivi, p. 672.

72 Ivi, p. 690. 73 Ivi, pp. 282-283. 74 Ivi, p. 346.

(25)

25 persona può essere considerata morta (in modo particolare in relazione al prelievo di organi per il trapianto oppure al possibile distacco dalla macchina che tiene in vita il paziente)75.

Tra la fine del Trecento e l’inizio del Quattrocento compare dunque un tema nuovo, rivoluzionario, il tema della migrazione dell’anima: l’iconografia in generale, e l’iconografia funeraria in particolare, mostrano chiaramente che la morte viene vista come separazione dell’anima dal corpo. Nel corso del Cinquecento si fa strada la tendenza a suddividere l’essere, a considerarne la pluralità; tendenza che nell’iconografia funeraria porterà, a poco a poco, alla soppressione della figura giacente (il corpo corruttibile) a vantaggio dell’orante (l’anima immortale). Per più di tre secoli, per dirla con Ariès, “si propende per l’anima” in risposta alla costante necessità psicologica della salvezza e della conquista dell’eternità.76

A partire dal Seicento l’opposizione del corpo all’anima mette capo all’annientamento del corpo: la figura giacente scompare.77 In merito alla distruzione delle carni, si possono rintracciare in

questo periodo due opposte correnti di pensiero. Da un lato, quelli che credono alla continuazione nel cadavere di una certa forma di vita e che riconoscono implicitamente una composizione dell’essere che non si riduce all’unione di corpo e anima. Sebbene, con la morte, l’anima si concentri fuori di esso, il cadavere conserva una certa sensibilità, una vis vegetans, un vestigium vitae, un residuo di vita.78 Dall’altro, la tradizione della Scolastica, secondo la quale la riunione e la

separazione dell’anima e del corpo rendono ragione della creazione e della morte. La figura dell’orante scompare a sua volta alla fine del Settecento, quando prende definitivamente piede l’idea della separazione dell’anima dal corpo che permane fino all’inizio del Novecento: il niente per il corpo, e per l’anima destini diversi secondo le opinioni (sopravvivenza nell’aldilà, sopravvivenza terrena nel ricordo, o il nulla). L’homo totus e il corpo sono stati relegati nell’indifferenza, mentre l’anima ha invaso tutte le dimensioni dell’essere, diventando “tutto l’uomo”. È l’anima l’elemento essenziale della personalità, il principio essenziale dell’essere, la sua parte immortale, l’individualità stessa.79

75 Si tratta di tematiche indubbiamente interessanti che tuttavia vengono qui soltanto accennate in quanto esulano dalla nostra analisi.

76 Cfr. P. Ariès, op. cit., pp. 283 e ss. 77 Ivi, p. 306.

78 Ivi, p. 413. 79 Ivi, pp. 328 e ss.

(26)

26 Con l’eccezione, nel Settecento, del ritorno al corpo come oggetto di preoccupazione (un corpo ritenuto morto, ma di cui non si sa se la vita l’ha davvero abbandonato del tutto), tra il Seicento e l’inizio del Novecento non ha cessato di estendersi la credenza nell’autonomia dello spirito, sola parte immortale dell’essere.80

E se fino al Seicento il momento del trapasso aveva un carattere puntuale, definendosi appunto come “istante” la cui brevità era attenuata dalla certezza di una continuazione, di un prolungamento, di lì in poi la credenza nella dualità dell’anima e del corpo nonché nella loro separazione nel momento della morte ha eliminato il margine di tempo, rendendo il trapasso istantaneo.

A partire dal primo Novecento, la medicina ha recuperato questo margine, spostandolo però “verso l’al di qua, non più verso l’aldilà.”81 Dal punto di vista medico-scientifico si parla oggi di morte

cerebrale, di morte biologica, di morte cellulare: gli antichi segni, come l’arresto del cuore e della respirazione, sembrano non bastare più, sostituiti da una misurazione dell’attività encefalica.

Per buona parte del secolo scorso i medici hanno definito la morte come il completo arresto della circolazione sanguigna e la conseguente cessazione della respirazione e delle pulsazioni: basandosi su questi parametri, era abbastanza semplice stabilire il momento del decesso. Ma negli anni Sessanta le tecniche di rianimazione, unite ai progressi delle biotecnologie e all’avvento dei trapianti degli organi, hanno complicato la questione e suscitato animati dibattiti sull’accertamento della morte, dimostrando che “le definizioni della morte date nel corso della storia della medicina sono […] storicamente condizionate, e determinate anche da istanze pratiche, mediche, politiche e giuridiche”82. Oggi viene universalmente ritenuta adeguata la definizione proposta dal comitato della

Harvard Medical School legata alla “perdita permanente di tutte le funzioni cerebrali, in base alla quale la morte encefalica è stata accettata anche in ambito giuridico per dichiarare il fine vita e consentire il prelievo degli organi.83

80 Nell’Ottocento la morte è separazione dell’anima dal corpo, deformazione e assenza di vita: diventa quindi un fatto solo negativo, che non ha più senso al di fuori della malattia indicata con un nome e catalogata, di cui rappresenta l’ultima tappa.

81 Cfr. P. Ariès, op. cit., p. 691. 82 M. Sozzi, op. cit., p. 6.

83 Cfr. W.M. Spellman, Breve storia della morte, Torino, Bollati Boringhieri, 2015, pp. 199 e ss. Il neurologo Garlo Alberto Defanti, citato da Sozzi, auspicherebbe invece un cambiamento della legislazione concernente l’accertamento della morte con l’obiettivo di considerare la morte cerebrale come “punto di non ritorno” nel processo globale della morte (evitando l’equazione tra morte cerebrale e morte tout court, ma rendendo possibili gli espianti già in questa fase). Viceversa, la definizione vera e propria di morte dovrebbe tornare a essere relatva all’arresto cardiaco. Si veda M. Sozzi, op. cit., pp. 7-8.

(27)

27 Occorre poi osservare che è proprio per via dello spostamento dell’attenzione dall’anima (e quindi da rituali come la confessione e l’estrema unzione) al corpo, spostamento concomitante all’imporsi della medicina, che il trionfo della mors improvisa, la morte “ideale” e più desiderata, viene reso possibile. Sebbene la morte repentina non consenta l’espiazione dei peccati, ciò non è più rilevante o non lo è più come un tempo.

1.5 Il lutto

Nel Medioevo, se la morte era “addomesticata”, il dolore dei sopravvissuti era – o doveva sembrare – selvaggio: appena la morte veniva constatata, scoppiavano intorno al defunto le scene più violente di disperazione.84 Questo lutto grave poteva durare qualche ora, il tempo della veglia, a

volte fino ai funerali. Al massimo un mese, nei casi peggiori: testimonianza ne è che quando Gauvain informò re Artù della morte di Yvain e dei suoi compagni “il re si mise a versare lacrime amare, e per un mese provò tale una pena che per poco non ne impazzì.”85

I riti della morte del primo Medioevo erano dominati dal cordoglio dei sopravvissuti e dagli onori che essi rendevano al defunto (elogio e corteo funebre): si trattava di riti civili scrupolosamente rispettati nell’ambito dei quali la Chiesa interveniva solo per assolvere sia il vivo sia la salma, mal distinti all’origine86.

Tuttavia, già nel basso Medioevo perdere il controllo di sé per piangere i morti non sembra più né così legittimo né così abituale. È l’epoca di un nuovo contegno davanti alla morte: le convenzioni sociali non tendono più a esprimere la violenza della pena ma inclinano ormai alla dignità, al controllo di sé.

Intorno al Duecento, mentre la veglia, il lutto e il corteo funebre diventavano cerimonie ecclesiastiche, organizzate e dirette da uomini di Chiesa, accade qualcosa che a tutta prima pare insignificante, ma che in realtà manifesta una sensibilità profondamente mutata dell’uomo davanti alla morte: il corpo morto possiede ormai un genere di potere per cui non si può più reggere a

84 Cfr. P. Ariès, op. cit., p. 161.

85 Di fatto, il lamento riguarda i vivi, che il defunto ha lasciato sperduti e disarmati e il compianto ha quindi come fine lo sfogo della sofferenza dei sopravvissuti.

(28)

28 guardarlo,anche se il rifiuto di vedere il corpo morto non è rifiuto dell’individualità fisica, bensì rifiuto della morte carnale del corpo87.

Se l’uso del nero nel Cinquecento è generale, in precedenza non risulta invece in uso né presso i re né tra i principi della Chiesa. In sé l’uso del nero ha un doppio significato: da un lato, l’avvicinamento del carattere cupo della morte all’iconografia macabra; dall’altro, l’abito nero esprime il lutto dispensando da una serie di gesti più personale e drammatica88.

Dalla fine del Seicento, la generale tendenza alla semplicità si riflette anche nel carattere spoglio delle manifestazioni del lutto. Le notizie ferali sono accolte con apparente freddezza: chi perde la moglie o il marito cerca di provvedere al più presto alla sostituzione, salvo quando il coniuge sopravvissuto si ritira dal mondo e aspetta la propria fine. Le manifestazioni di dolore al letto di morte sono malviste e, in ogni caso, passato il periodo di lutto, il costume non tollera più manifestazioni personali: per tornare a un’esistenza normale, a chi è troppo afflitto non resta che ritirarsi in convento, in campagna, comunque fuori dal mondo nel quale è conosciuto. Così ritualizzato e socializzato, il lutto perde la funzione liberatrice che gli era stata propria. Invece di permettere all’individuo di esprimere ciò che prova davanti alla morte, glielo impedisce, paralizzandolo in una serie di riti brevi, impersonali e freddi.89

Negli ultimi trent’anni del Settecento, invece, tutto si ribalta molto rapidamente: non solo si ritorna al gran lutto, ma si approda anche a una sua ostentata spontaneità: non si obbedisce più agli usi, si segue lo slancio del proprio cordoglio.90

Arriviamo così agli ultimi due secoli e ci troviamo di fronte a un mutamento radicale del modo di esprimere il senso di vuoto che ci coglie alla morte di una persona cara. Intanto le norme culturali della società occidentale vengono a rispecchiare il cambiamento del luogo fisico dove avviene la maggior parte dei decessi. Per buona parte dell’Ottocento si accetta una manifestazione molto più aperta, prolungata e pubblica del lutto e del cordoglio e in una visione cristiana del mondo ancora dominante l’estrema unzione e l’esposizione pubblica del corpo del defunto avvengono in casa.

87 Ivi, pp. 191 e ss.

88 Ivi, pp. 185-187. 89 Ivi, pp. 376 e ss. 90 Ivi, p. 603.

Riferimenti

Documenti correlati

Kanner descriveva undici bambini (nove maschi e due femmine) giunti a sua osservazione che presentavano nove caratteristiche comuni che avrebbero definito la

La Descemet Stripping Automated Endothelial Keratoplasty (DSAEK) è un trapianto corneale proposto come alternativa alla cheratoplastica perforante (PK) in casi di

Si concede un' indennità di viaggio proporzionale alla lontananza, alle balie degli esposti richiamati in Ospizio. - Accorda un sussidio dotale di lire 50 alle esposte,

Hypocalcaemia as a reversible cause of acute heart failure in a long-term survivor of childhood cancer.. EJCRIM

Dopo aver ottenuto il titolo di primicerio del capitolo della cattedrale di Siena, nel 1819 entrò a far parte della prelatura romana, nominato nel Collegio dei referendari del

3 Also at State Key Laboratory of Nuclear Physics and Technology, Peking University, Beijing, China. 4 Also at Institut Pluridisciplinaire Hubert Curien, Université de

- documentabilità: le linee guida devono riportare il nome dei partecipanti alla loro produzione, la metodologia utilizzata e le prove scientifiche su cui sono basate, nonché la

La prospettiva della pax democratica (secondo il progetto della pace perpetua proposto da I. Kant) offre ai popoli del mondo la speranza che l'utopica aspirazione a una qualche forma