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Dal Cristianesimo all’epoca moderna: dalla condanna alla rimozione

Anche i primi Cristiani esibirono la stessa indifferenza dei Romani nei confronti della morte, alterando però la prospettiva: nell’ottica del Paradiso cristiano, la vita diventava insignificante quando non propriamente un male. La morte era quindi una liberazione attesa o cercata con impazienza, il che spiega il desiderio di martirio che ossessionò quei primi credenti.

Con Agostino si assistette a un’inversione di tendenza: il Dottore della Chiesa si batté per provare che il suicidio era una depravazione detestabile, il più grave anzi dei peccati mortali, mutuando da Platone l’argomentazione secondo la quale la vita è un dono divino e le sofferenze umane non possono essere abbreviate per mano nostra: sopportarle è, anzi, segno della grandezza d’animo dell’individuo.

A partire dal VI secolo d.C., quando la Chiesa emanò una vera e propria legislazione contro il suicidio, il Cristianesimo cominciò ad associare il suicida ai criminali della peggior specie: poiché la vita è un dono di Dio, rifiutarla significava contravvenire alla Sua volontà. Per tutto il Medioevo il suicidio veniva ritenuto immorale in sé e per sé, e la condanna a chi si toglieva la vita era assoluta e senza eccezioni. La morte volontaria di una persona era considerata un atto pernicioso in quanto aveva conseguenze disastrose sulla famiglia, sui parenti e su tutta la comunità cui il suicida era

5 J. Améry, Levar la mano su di sé, Torino, Bollati Boringhieri, 1990, p. 5. 6 Ibidem.

174 appartenuto. La cultura formatasi dopo la svolta di Agostino operò certamente come un efficacissimo

e potente sistema di regolazione sociale delle emozioni.

La controrivoluzione scientifica spostò radicalmente l’attenzione dall’individuo alla collettività. Le pene legali a poco a poco decaddero, le famiglie dei suicidi non si trovarono più diseredate e tacciate di pazzia ereditaria, e poterono seppellire i loro morti e piangerli come tutti. Quantomeno nelle élite culturali, l’etica cristiana riguardo al suicidio mostrò i primi segni di crisi fra la metà del Cinquecento e del Seicento, quando la morte volontaria cominciò a esser vista, da coloro che ne sostenevano la liceità, come espressione dell’autonomia e della libertà dell’individuo8. A

partire dagli ultimi decenni del Seicento e fino alla metà dell’Ottocento, nei paesi dell’Europa occidentale si registrò un grande aumento del numero di suicidi. In Inghilterra, in particolare, il fatto che numerosi casi si verificarono tra gli appartenenti ai ceti più elevati contribuì senza dubbio a dare grande risonanza alla cosa. Se nella prima metà del Settecento i processi contro coloro che si uccidevano erano diventati sempre più rari, nella seconda metà del secolo erano quasi del tutto scomparsi. Marzio Barbagli ha sostenuto che l’aumento generalizzato delle morti cercate che ha interessato l’Europa occidentale per quasi due secoli non possa essere ricondotto soltanto (o principalmente) alla disorganizzazione sociale prodotta dall’industrializzazione e dall’urbanizzazione, ma debba invece essere ascritto alle profonde trasformazioni culturali avvenute in quel periodo. Ci si riferisce alla crisi e al declino di quell’insieme di norme, di sanzioni, di credenze, di simboli e di riti, di categorie interpretative, di repertori dei modi di pensare e di agire che per molti secoli avevano scoraggiato gli individui dal togliersi la vita.9

Nel corso del Settecento si fece a poco a poco strada, quantomeno in Inghilterra e nei ceti sociali più elevati, l’idea che chiunque si togliesse la vita fosse non compos mentis: il significato culturale del suicidio stava dunque cambiando profondamente. Di pari passo ebbe inizio un processo di

8 Come ha rilevato Barbagli, già negli ultimi decenni del Cinquecento e nei primi del Seicento, in alcuni paesi europei, i poeti, i romanzieri ma soprattutto i drammaturghi e i commediografi assunsero il ruolo di precursori nel mutamento della sensibilità nei confronti del suicidio. Un segno importante di questa profonda trasformazione culturale è costituito dall’apparizione, intorno alla metà del Seicento, del neologismo suicide per designare l’atto del togliersi la vita. In Italia la parola “suicidio” comparve soltanto dopo la metà del Settecento. Per un’analisi circostanziata, si veda M. Barbagli, op. cit., pp.106-111.

175 revisione dei codici penali che, nell’arco di due secoli e mezzo, interessò tutta l’Europa portando

all’abolizione del relativo reato10.

È interessante constatare come oggi la società sia tornata a conferire al suicidio, per dirla con Mathis, “un coefficiente d’irragionevolezza”.11 Anche Améry rileva che, nell’aspirante suicida, la

società “vede grosso modo un folle o un mezzo-matto, non essendo in grado di penetrarne il mondo chiuso.”12 In The Sense of an Ending Barnes inserisce un articolo di cronaca locale che contiene un

riferimento alla presunta follia del suicida e delle sue motivazioni

Alex showed me a clipping from the Cambridge Evening News. ‘Tragic Death of “Promising” Young Man’. […] The verdict of the coroner’s inquest had been that Adrian Finn (22) had killed himself ‘while the balance of his mind was disturbed’. I remember how angry that conventional phrase made me: I would have sworn on oath that Adrian’s was the one mind which would never lose its balance. But in the law’s view, if you killed yourself you were by definition mad, at least at the time you were committing the act. The law, and society, and religion all said it was impossible to be sane, healthy, and kill yourself.’ (49)

Barnes provocatoriamente domanda se questo atteggiamento non sia dovuto al timore che le ragioni del defunto possano mettere in discussione i valori su cui poggia l’intera società, compromettendone lo status quo

Perhaps those authorities feared that the suicide’s reasoning might impugn the nature and value of life as organised by the state which paid the coroner? And then, since you had been declared temporarily mad, your reasons for killing yourself were also assumed to be mad. (49)

Se la condanna della Chiesa era fondata sulla preoccupazione per l’anima del suicida, gran parte della moderna tolleranza scientifica sembrava invece basarsi sull’indifferenza umana. Alvarez osserva che un motivo di questo mutamento, registrato a partire dal 189713, fu che il suicidio, pur

rimanendo un gesto scioccante, era al contempo divenuto rispettabile in quanto oggetto di intense ricerche scientifiche. Gli studi sociologici in materia, in particolare, si moltiplicarono a partire dagli anni Venti del secolo scorso.

Oggi, pregiudizi religiosi e burocratici, uniti alle procedure non uniformi dei diversi tribunali medico-legali e alla distinzione non sempre chiara tra suicidi e incidenti, contribuiscono a diminuire

10 Il parlamento inglese abrogò il reato della morte volontaria soltanto nel 1961.

11 P. Mathis, I percorsi del suicidio. Il corpo e lo scritto, Milano, SugarCo Edizioni, 1979, p. 80. 12 J. Améry, Levar la mano su di sé, cit., p. 47.

176 la nostra conoscenza della reale portata del fenomeno. Come per tutte le cose che riguardano la morte

si preferisce non parlarne. Forse, ipotizza Alvarez, il suicida viene rifiutato perché egli stesso rifiuta la vita (e la sua logica, aggiungerebbe Améry) in maniera totale. Si arriva allora a dire che il suicidio è prerogativa dei giovani, o che è il prodotto del clima avverso14 o, peggio, una caratteristica

nazionale. Come ha osservato il suicidologo Jean Baechler, “la morte libera è ancora condannata, considerata una vergogna, e la gente guarda con sospetto persino le persone più vicine al suicida. Certo, le posizioni istituzionali della Chiesa e dello Stato sono cambiate, e si rinuncia a segnalare apertamente l’infamia. L’opinione pubblica tuttavia non è ancora giunta a questo punto, in essa sopravvive l’antico interdetto, le cui radici affondano sicuramente nella tradizione cristiana”15.

È pur vero che durante tutto il Novecento è continuato il processo di secolarizzazione e di medicalizzazione del suicidio iniziato, nei ceti più elevati e nei paesi dell’Europa centrosettentrionale, già nel Seicento e che, al contempo, è cresciuta la quota della popolazione che considera la morte volontaria moralmente accettabile.16 Attualmente le differenze più significative in termini di

frequenza dei suicidi sono quelle tra credenti e non credenti, differenze dunque di natura culturale: per quanto profondamente mutata, la morale cristiana continua infatti a valutare negativamente questa scelta.17