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Edulcorare la fine e rileggere il principio

Quando un anziano si viene a trovare al confine tra la vita e la morte sentiamo spesso dire “ha vissuto a lungo” oppure “ha raggiunto l’età per morire”. Espressioni simili sembrano testimoniare che, per lo meno quando riguarda gli altri, la morte di una persona anziana è un evento da accettare in modo del tutto naturale. D’altra parte, nella nostra mente l’immagine della morte si forma assai

5 Cfr. V. Guignery, The Fiction of Julian Barnes, New York, Palgrave Macmillan, 2006, p. 120.

6 M. Kakutani, ‘A Writer Who Uses Death as His Protagonist’, Books of The Times, 22 giugno 2004, http://www.nytimes.com/2004/06/22/books/books-of-the-times-a-writer-who-uses-death-as-his-

protagonist.html?_r=0 (sito visitato il 10 gennaio 2016).

193 presto, durante l’infanzia8, ed è prevalentemente la morte di un vecchio, per lo più quella di un nonno

(come non ricordare la scena iniziale di Arthur & George), la prima esperienza che ci disvela una nuova, inevitabile dimensione della vita.

Anche per gli anziani stessi il morire è in genere un evento scontato e normale (quando non auspicato): molte persone in età avanzata parlano della morte come momento di liberazione dagli stenti e dalle limitazioni (il che rimanda alle parole di Giovenale morte magis temuenda senectus); la vecchiaia è l’età in cui la lettura dei necrologi diventa un atto abituale, a testimonianza tuttavia di un’angoscia sottostante che trova un qualche conforto nella constatazione che la morte è, al momento, ancora quella degli altri.

Nel linguaggio comune l’atteggiamento più tipico si concretizza nell’uso, da parte degli anziani, di allusioni piuttosto che di termini espliciti: quando ad esempio si dice di un defunto che “se ne è andato” o “riposa in pace”, la morte viene collocata in una dimensione di benessere con lo scopo di negare l’angoscia che essa in realtà suscita.

Una forte coesione del gruppo familiare e sociale rende generalmente meno drammatica l’idea della morte, senza contare il ruolo determinante che essa svolge nel generare vitalità e attaccamento alla vita. Tillich, tra gli altri, ha richiamato l’attenzione sul fatto che l’angoscia dinanzi alla morte cresce col crescere dell’individualismo e che quindi gli uomini appartenenti a culture collettivistiche sarebbero meno esposti alla paura della propria fine.9

Nel quadro della sua teoria psicosociale dello sviluppo della personalità, Erikson ha descritto la contrapposizione tra l’integrità dell’Io e la disperazione come “la principale antitesi e l’ultima crisi dell’età senile”10, stati d’animo che alternativamente caratterizzerebbero questa fase della vita,

quando il compito fondamentale diventa quello di accettare la definitività di ciò che si è realizzato nel corso dell’esistenza. La persona raggiunge l’integrità quando riesce a dare un significato al proprio vissuto; essa “esprime senza dubbio un senso di coerenza e di completezza”11 e sembra essere

8 Per citare Jean Améry, “[è] opinione degli psicologi che questa conoscenza si realizzi intorno al sesto o settimo anno di vita, quando il soggetto si è globalmente fissato in quanto io.” J. Améry, Levar la mano su di sé, cit., pp. 33-34.

9 Cfr. B. Callieri, ‘Della morte e del morire. Aspetti antropofenomenologici’ in Formazione psichiatrica e

scienze umane, anno XXXIII, numero 1, gennaio-aprile 2012, p. 39.

10 E.H. Erikson, I cicli della vita. Continuità e mutamenti, Roma, Armando Editore, 1999, p. 59. 11 Ivi, p. 62 (enfasi dell’originale).

194 associata a un’altra esigenza, quella della saggezza. Al contrario, si ricade nella disperazione quando

l’individuo non trova un filo conduttore che “spieghi” la propria vita, che appare dunque priva di significato. Ciò contribuirebbe, tra l’altro, all’acuirsi della paura di una morte precoce (anche in assenza di problemi di salute). Analogamente, Jean Améry ha individuato nel rimpianto e nel sentimento del “mai più”, dei quali da anziani si è certi e ai quali non si vuole tuttavia credere sino in fondo, “l’origine più profonda dell’angoscia della morte.”12

Per questo autore attribuire un senso al passato è uno sforzo vano quanto assurdo: guardando alla vita vissuta l’anziano non riesce infatti a rintracciare il senso e il valore che vorrebbe darle nel momento presente, poiché oggi fatalmente non accetta più il senso e i valori di ieri.

Sul fatto che la vecchiaia sarebbe la fase dell’esistenza in cui la storia della nostra vita si rivelerebbe in tutto il suo significato (o nella mancanza di esso), anche il Barnes di Nothing to be Frightened of si dimostra scettico:

[…] if, as we approach death and look back on our lives, we ‘understand our narrative’ and stamp a final meaning upon it, I suspect we are doing little more than confabulating: processing strange, incomprehensible, contradictory input into some kind, any kind of believable story – but believable mainly to ourselves. […] I would expect a dying person to be an unreliable narrator, because what is useful at that time is a sense of having lived to some purpose, and according to some comprehensible plot. […] as acknowledged (or at least unrumbled) adults, we head towards some fuller, maturer condition, when the narrative has justified itself and we are expected to proclaim , or shyly admit, ‘Ripeness is all!’ But how often does the fruit metaphor hold? We are as likely to end up a sour windfall or dried and wizened by the sun, as we are to swell pridefully to ripeness. (189- 190)

A detta dello scrittore, chi si avvicina alla morte rischia di essere un narratore inaffidabile13, al

pari di Tony, il protagonista di The Sense of an Ending, il quale, volgendo lo sguardo al passato, non trova che “anni che cambiano come quinte, […] fasi di vita, che nel processo del ricordare modificano costantemente il loro valore.”14 La vecchiaia, in questo senso, può allora essere accostata alla

scrittura: essa, per dirla con Claudio Magris, “è un testo scritto dalla vita sul corpo dell’uomo, ma alterabile e manipolabile dalla sua intelligenza e dalla sua fantasia […].”15

12 J. Améry, Rivolta e rassegnazione, cit., p. 41.

13 Il termine unreliable narrator è stato introdotto nel 1961 da W.C. Booth in The Rhetoric of Fiction, University of Chicago Press.

14 J. Améry, Rivolta e rassegnazione, cit., p. 146.

195 Nel già citato ‘Tunnel’, Barnes attribuisce tale inaffidabilità anche a se stesso, constatando

come, con il passare degli anni, l’uso del verbo “ricordare” non sia appropriato per indicare il processo di ricostruzione che la memoria mette in atto: “He remembered… no, that verb, he increasingly found, was often inexact. He seemed to remember, or retrospectively imagined, or he reconstructed, from films and books with the aid of a nostalgia as runny as old Camembert, a time when […].” (197, enfasi di chi scrive)

Dal punto di vista psicologico, Kernberg ha osservato che quando il vissuto non viene accettato, l’imminenza della morte può generare angosce che derivano dalla consapevolezza che non c’è più il tempo per cambiare corso alla propria vita e tentare strade alternative per raggiungere l’integrità16.

A questo proposito, Erikson non esclude invece che “le potenziali capacità dell’individuo […] possano manifestarsi, sotto favorevoli condizioni e in forme più o meno attive, nel senso della proficua utilizzazione integrativa delle esperienze vissute negli stadi precedenti”17; un processo che

sembrerebbe corrispondere all’impegno di un bravo scrittore in ogni fase della sua vita, a maggior ragione durante la vecchiaia.

Qualunque ne sia l’esito, in età senile si tende a guardare indietro e a fare bilanci: il life review process18, cioè l’analisi del proprio vissuto, non di rado caratterizza gli ultimi anni dell’esistenza,

quando si è consapevoli dell’approssimarsi della fine; il che può avere una funzione positiva nel senso che il ricordo di ciò che è stato e il senso di continuità che ne deriva dovrebbero favorire l’integrazione. E in effetti, per dirla con Vanessa Guignery, tutti i personaggi di The Lemon Table sono “elderly people who remember or assess their past life as they see death approaching”.19 Come

ha ricordato Diana Athill nella sua bella autobiografia

16 Per una lettura approfondita si rimanda a O.F. Kernberg, Mondo interno e realtà esterna, Torino, Bollati Boringhieri, 1986.

17 E.H. Erikson, op. cit., p. 63.

18 La tecnica della life review, ovvero della “ricapitolazione di vita”, si fonda sulla naturale tendenza dell’anziano a rievocare il proprio passato; l’obiettivo consiste nel favorire questo processo spontaneo e di renderlo più consapevole e deliberato. La revisione della propria esistenza, sia come specifica pratica psicologica, sia come attitudine relazionale di vita, aiuta a risolvere conflitti, solleva da sentimenti di colpa, diminuisce la paura, accresce la creatività e l’autostima. Per un’analisi circostanziata, si veda R.N. Butler, ‘The

life review: an interpretation of reminiscence in the aged’, Psychiatry, vol. 26, 1967, pp. 65-67. Sintetizzare la

propria vita, capirne il senso ultimo anche riflettendo sul senso delle prove di vita affrontate e vissute, aiuta a sviluppare l’idea di chi siamo stati, di chi siamo ora e di cosa saremo, in una prospettiva di possibilità e potenzialità. Al riguardo, si veda H.R. Markus, ‘Culture and the Self: Implications for Cognition, Emotion, and

Motivation’, Psychological Review, vol. 98, n. 2, 1991, pp. 224-253.

196 […] within its own framework [life] is amazingly capacious so that it can contain many

opposites. One life can contain serenity and tumult, heartbreak and happiness, coldness and warmth, grabbing and giving – and also more particular opposites such as a neurotic conviction that one is a flop and a consciousness of success amounting to smugness. (177) In molti casi le ombre restano tuttavia inesplorate, come se inconsciamente il soggetto cercasse di evitare una riflessione che potrebbe portare a galla rimorsi, vecchie mancanze ed errori. A questo proposito, la Athill confessa infatti: “I am not sure that digging out past guilts is a useful occupation for the very old, given that one can do so little about them. I have reached a stage at which one hopes to be forgiven for concentrating on how to get through the present.” (168)

Tornando a Barnes e alla raccolta The Lemon Table, un life review process è di certo quello che sembra impegnare il protagonista di ‘A Short History of Hairdressing’, racconto suddiviso in tre parti, ciascuna incentrata su una diversa seduta dal barbiere (la prima durante l’infanzia, la seconda durante gli anni dell’università, la terza quando Gregory è ormai un uomo di mezza età con ventotto anni di matrimonio alle spalle). La sua vita insignificante viene raccontata in poche righe dallo stesso protagonista, che descrive se stesso come “one who stayed at home, went to work, and had his hair cut. His life, he admitted, had been one long cowardly adventure”20.

Un po’ come Tony in The Sense of an Ending: uomini che, per usare le parole di Kakutani, “have led careful, orderly lives based around routine and domestic circumspection, but as they glimpse their own mortality, they begin to realize that all such cautions have been in vain.”21